C’è una vecchia immagine di Siegfried Kracauer che andrebbe rispolverata, quando in un articolo del 1930 sulla disoccupazione berlinese osservava la tendenza della povertà a risultare comunque vistosa.
«Ora fa visibilmente sfoggio dei suoi stracci rattoppati – scriveva – ora si ritira con pudore borghese in un angolo nascosto. Nel caso di quel sarto vestito meglio degli altri, la povertà si è scelta come ultimo rifugio i polsini della camicia».
E’ l’enunciazione di un principio che si potrebbe rendere anche con il detto padovano «Xe pèso el tacòn del buso», ma proveremo a lasciarlo operare in un contesto meno generico.
Perché quello del polsino del sarto si direbbe un dispositivo che entra in funzione anche in molti degli attuali programmi elettorali quando affrontano l’emergenza della povertà, dove la morale sottesa all’immagine di un abito decoroso assicura al tempo stesso l’occultamento e la rifunzionalizzazione dell’indigenza, come se spettasse davvero al povero dargli una forma meno drammatica e conturbante.
Poi è chiaro che parlare dei poveri significa verificare cosa dicono i programmi anche in materia di occupazione, spesa pubblica, debito, accesso ai servizi, diseguaglianze, urbanistica, salario minimo, riduzione dell’orario di lavoro e molte altre cose – ma è proprio questa densità a fare delle cosiddette politiche per l’inclusione un tema al quale è possibile attribuire un’importanza preliminare.
Gli ultimi dati dell’Istat parlano chiaro: in Italia aumentano sia gli individui a rischio di povertà (20,6%) sia quelli che vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1%), quasi un terzo della popolazione complessiva che il governo Gentiloni ha collocato al confine tra le politiche per il decoro urbano e il reddito di inclusione introdotto a partire dal gennaio 2018 (Rei).
Ma se da un lato il Rei ha come momentanei beneficiari il 38% dei poveri assoluti – vale a dire 1,8 milioni su 4,8 aventi diritto – dall’altro la difesa del decoro si abbatte indistintamente su chiunque venga sorpreso a mendicare senza un’adeguata conformità al cerimoniale della charity.
Perché anche il povero davvero povero deve sapersi attenere ai comportamenti che al povero impongono le indicazioni della regia neoliberale. A stabilirlo potrebbe bastare una massima attribuita per errore a Margaret Thatcher, che evidentemente non ne tradiva lo spirito: un uomo che dopo i 26 anni viaggia ancora in autobus – faceva – si può considerare un fallito.
In questo senso, l’ordinanza emessa dal sindaco di Como lo scorso Natale, quella che impediva ai senzatetto di deturpare con la loro esistenza il paesaggio dei consumi, ricorda la recluta che sembra compiere un passo avanti solo perché tutti gli altri lo fanno indietro.
Sarebbe però ingenuo credere che a ispirare le politiche per l’inclusione e le politiche per il decoro siano due sensibilità opposte o anche solo complementari, perché al cuore nero di entrambe pulsa la medesima certezza nel fatto che i losers, in fondo, come scriveva già negli anni novanta André Gorz, «non abbiano altri da biasimare che se stessi».
Và da sé che in materia di povertà il Partito Democratico proponga quindi di «raddoppiare i fondi per il reddito di inclusione», vale a dire di estendere a una quota ancora parziale delle emergenze rilevate dall’Istat la propedeutica del workfare e dell’attivazione, cioè un sostegno economico in cambio della totale disponibilità a non commettere più errori.
Sempre che il povero non abbia immatricolato un’auto o una motocicletta da meno di due anni, dice la legge, perché allora lo sbaglio risulterebbe talmente imperdonabile da fargli perdere qualunque accesso alle graduatorie. Alla fine si tratta ancora della bambinata che Marx criticava all’economia classica – o della tendenza del capitale a risolvere le proprie contraddizioni imputandole ai limiti soggettivi di chi le patisce.
La potremmo definire una disciplina del polsino, insomma, che non si limita a nascondere lo scandalo della miseria, ma ne illumina a giorno i doveri, le responsabilità, il vizio e i compiti, la funzione alla quale si deve attenere per fare la propria parte nei processi di riproduzione sociale.
Ed è appunto così che i losers vengono mobilitati anche in Germania, dove dal 1° gennaio 2005 è entrata in vigore la quarta parte dell’Hartz-Konzept su indennità e sussidi sociali, proprio come dovrebbero attivarsi secondo il programma di Liberi e Uguali, che propone di «estendere il Rei in modo da renderlo realmente uno strumento universale di contrasto alla povertà assoluta», completando il lavoro del governo uscente e assumendone pertanto le premesse.
Premesse rese ancora più rigide ed esplicite, eventualmente, dalle parole con cui Di Maio ha illustrato la proposta dei Cinquestelle ai microfoni di Radio 105, quando rivendicando la propria obbedienza alla dottrina del workfare ha dichiarato: «Il reddito di cittadinanza non darà soldi a chi vuol stare seduto sul divano.
Dovrà, per il breve periodo in cui avrà il contributo, formarsi e dare otto ore di lavoro gratuito allo Stato». Per un cifra stimata di 780 euro al mese, dunque, il signore del castello potrà assicurarsi la giornata lavorativa dei vassalli che senza un severo disciplinamento rimarrebbero tutto il tempo sul divano a cazzeggiare: sono gente così, i poveri.
Ma al di là degli aspetti di ordine morale, quello che la retorica dell’attivazione serve davvero a rimuovere è il lavoro vivo che nel «tempo socialmente utile» a trasformare qualunque cosa in merce, ciascuno di noi fornisce gratuitamente all’investitore, che se ne appropria in forma di valore.
Un valore che scaturisce da prestazioni sociali indubbiamente produttive ma non contrattualizzate, che in questo modo rimangono esclusivo appannaggio del capitalismo delle reti e dei monopolisti delle piattaforme.
Non solo dunque paghiamo in termini di logoramento l’intermittenza occupazionale più confacente ai nuovi modi di produzione, non solo lavoriamo gratis o a cottimo, ma fronteggiamo personalmente il trasferimento delle risorse dal welfare alla speculazione finanziaria, attraverso il debito.
Nel frattempo il capitalismo estrattivo mette a profitto il nostro territorio, lo spazio pubblico, il bene comune, il paesaggio che manutendiamo socialmente e fiscalmente, ma le comunità depredate non finiscono mai a libro paga.
I nostri corpi e i nostri desideri svolgono quotidianamente un lavoro di hacking per l’implementazione dei sistemi smart, dei sensori e degli attuatori, siamo al tempo stesso la materia prima e i produttori di big data, profilazioni, contenuti, strategie di vendita e di investimento e tutto questo lo facciamo anche solo con quella che già Engels definiva l’ultima proprietà del povero: la nuda vita, la stessa che l’automazione e la rivoluzione digitale stanno progressivamente sfrattando dai luoghi legali del lavoro salariato.
E’ importante allora sottolineare come nel programma di Potere al popolo l’istituzione del reddito minimo garantito non ponga condizioni o vincoli di sorta, come intenda agire «contro l’esclusione sociale e la precarietà della vita» senza postulare una contropartita, cioè muovendo dal presupposto storico e politico che il povero non è un individuo da correggere, ma da risarcire.
Altrettanto importante, però, ci pare coglierne l’insufficienza di questa proposta, perché come ha scritto Marco Bascetta sull’ultimo numero di Quaderni per il reddito «la confusione tra povertà ed esclusione è il primo equivoco da smantellare. Esiste infatti un crescente numero di poveri perfettamente integrati nei processi di produzione».
Sarà di questa povertà inclusa e ricattabile, allora, della povertà rifunzionalizzata sotto un polsino della camicia o colpevolizzata dagli agenti del decoro che bisognerà cominciare a occuparsi, magari nei termini storicamente più rigorosi del reddito di base.
Una misura che non dovrà in nessun caso rappresentare un’alternativa al welfare, perché laddove il secondo ridistribuisce una parte del valore prodotto dalla forza-lavoro salariata, il primo riconosce direttamente una parte del valore prodotto dall’operosità sociale diffusa.
Ecco perché l’obiezione classica al reddito di base («nessuno farà più nulla, i profittatori camperanno sulla fatica degli altri») gira pericolosamente a vuoto: non solo per il moralismo patetico del benestante che bolla come pigro o scansafatiche il povero che rifiuta di farsi mangiare la vita dal lavoro, ma soprattutto perché si tratta di un’obiezione incapace di riconoscere come l’accumulazione contemporanea sia sempre più legata alle attività non salariali e non retribuite.
Non c’è nulla di passivo – già ora – nell’operosità sociale cui il reddito di base darebbe finalmente riconoscimento. Al contrario, allentando il ricatto del lavoro povero e l’obbligo di accettare salari indecenti pur di guadagnare qualcosa, aprirebbe un importante spazio di attivazione sociale radicalmente alternativo a quello punitivo e colpevolizzante del workfare.
Un’attivazione e un modo di agire la partecipazione collettiva che finalmente rifiuta i criteri di valutazione imposti dalle istituzioni sottomesse al vangelo dell’austerity, per affermare il diritto a decidere autonomamente come stare insieme e cosa produrre affinché tutte e tutti possano godere della libertà dal bisogno.
Pierpaolo Ascari – Potere al popolo Parma
Emanuele Leonardi – Potere al Popolo Modena