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KENYA: DEBITO, TASSE E RIVOLTE POPOLARI

Un paese in rivolta per una legge finanziaria. Da martedì 18 giugno, a Nairobi, Mombasa, Kisumu, Nakuru, Meru, Embu, Kakamega, nelle più importanti città del Kenya sono scoppiate le proteste contro la nuova legge finanziaria presentata dal governo.

Una decina di morti, oltre duecento feriti, centinaia di persone arrestate tra cui numerosi attivisti e membri di associazioni della società civile sono il bilancio ancora provvisorio della repressione poliziesca scatenata dal presidente William Ruto. Migliaia di giovani sono scesi nelle strade per contestare le misure proposte dal governo ed in particolare per protestare contro l’aumento delle tasse su numerosi prodotti di uso quotidiano. “Ruto Zaccheo” chiamano il presidente, come il personaggio biblico che collaborava con i romani e riscuoteva tasse ingiuste. Ed in effetti i romani moderni sono i funzionari del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale che, a fronte della complicata situazione finanziaria del paese e dell’elevato debito pubblico nazionale, hanno chiesto a Zaccheo, alias Wiliam Ruto, di procedere con privatizzazioni e aumento delle tasse. Da luglio infatti il Kenya dovrà rimborsare importanti prestiti e interessi a Paesi ed istituzioni finanziarie quali la Exim China (Banca di import export), il Fmi, la Banca mondiale, la Exim statunitense. E quindi svendita degli inefficienti asset pubblici, tassa annua del 2,5% sui veicoli a motore, accisa sui motocicli, Iva del 16% sul pane, tassa sugli imballaggi, batterie e prodotti igienici. Tutto secondo copione, tranne il fatto che la popolazione non è d’accordo. Migliaia di persone mobilitate tramite i social media e gli hashtag #rejectfinancebill2024 e #occupyparliament hanno sfilato chiedendo di non approvare un disegno di legge che avrebbe aggravato una situazione già estremamente precaria per milioni di persone. Infatti, nonostante il Kenya sia considerato una delle economie più floride della regione, con un tasso medio di crescita nell’ultimo decennio del 4,5%, il paese presenta enormi disuguaglianze, con il 10% della popolazione che detiene oltre la metà della ricchezza nazionale, mentre circa il 50% dei kenioti sopravvive con un dollaro al giorno. Oltre a ciò, nel corso del 2023, la stagnazione dei salari e l’aumento dell’inflazione (che ha toccato un valore medio del 5%, ma che diventa a due cifre per i beni di largo consumo) hanno reso ancora più difficili le condizioni di vita della popolazione.
A fronte delle proteste dilaganti, dell’assalto al Parlamento, degli spari sulla folla, il presidente è costretto prima a ritirare le misure più impopolari e poi l’intero Finance Bill, promettendo risparmi su altri fronti a partire dall’ufficio di presidenza e dall’esecutivo. La mobilitazione popolare sembra aver avuto successo, ma troppo sangue e’ stato versato e nelle strade adesso si grida “Ruto must go”.

Il debito, la Cina e le istituzioni internazionali.

Il debito pubblico del Kenya che nel 2023 ha raggiunto il 70% del Pil (67 miliardi di dollari) viene indicato dal governo come il vero problema del paese, il motivo principale degli interventi di aggiustamento presentati in parlamento e la causa ultima delle proteste popolari. Nel 2020 il FMI ha inserito il Kenya tra I 20 paesi a più alto rischio di sofferenza del debito. E, in effetti, il debito pubblico è aumentato di oltre 4 volte durante i dieci anni della presidenza di Kenyatta (2013-2022), caratterizzati dal completamento di numerosi progetti infrastrutturali a finanziamento cinese, iniziati negli anni precedenti: la Thika superhighway, la ferrovia a scartamento normale (sgr), il terminale petrolifero nel porto di Mombasa, le tangenziali sud ed est di Nairobi. Il ministro dei trasporti keniota Kipchumba Murkomen ha dichiarato che il rimborso del prestito alla China Exim Bank per la costruzione della ferrovia che dal 2017 collega la città portuale di Mombasa a quella di Naivasha sta soffocando l’economia del paese. La Cina è il secondo finanziatore del Kenia dopo la Banca mondiale e detiene il 25% del debito estero del paese.  Il presidente Ruto, rivelando aspetti cruciali di importanti prestiti cinesi, ha messo in luce le condizioni svantaggiose degli stessi, mentre gli americani accusano da anni la Cina di praticare una “diplomazia del debito trappola”, fornendo prestiti a condizioni sfavorevoli e portando le nazioni africane a un debito insostenibile. Ma le cose non stanno esattamente in questo modo. In Africa è in atto una guerra economica tra i paesi occidentali in competizione tra loro, ma tutti uniti contro la Cina, primo partner commerciale del continente. L’obiettivo è il controllo delle risorse e l’ampliamento dei mercati per le proprie imprese. Tim Jones, funzionario dell’ong Britannica “Debt Justice”, afferma che ‘’i leader occidentali stanno incolpando la Cina per la crisi di indebitamento dell’Africa, ma la verità è che le loro stesse banche, asset manager e commercianti di petrolio, sono anche più responsabili’’. Nicolas Lippolis e Harry Verhoeven, ricercatori dell’Università della Columbia e di Oxford, mostrano, con dati alla mano, che i creditori privati occidentali sono stati il principale motore di accumulo dello stock di debito nel continente dal 2004. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, in un rapporto del novembre del 2023 sulle relazioni economiche Cina e Africa subsahariana dichiara come il debito verso la Cina non sia stato il principale contributore all’aumento del debito pubblico della regione negli ultimi 15 anni e come la Cina sia stato un attore chiave nelle recenti ristrutturazioni del debito, fornendo il 63% delle sospensioni del debito nel 2020 e 2021. In effetti se la quota della Cina nel totale del debito pubblico estero dell’Africa Subsahariana è passata dallo 0,2% del 2005 al 17% nel 2021, in realtà il 61% del debito pubblico totale della regione subsahariana è costituito da prestiti commerciali interni con tassi di interesse elevati e scadenze sul breve periodo. Sono state proprio il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a promuovere questa rischiosa strategia di debito interno. Inoltre negli ultimi anni la strategia cinese sta rapidamente cambiando. In occasione del Forum della cooperazione Cinafrica, tenutosi in Senegal nel 2021, il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato il taglio di un terzo della quantità di denaro fornita all’Africa e segnala che i prestiti sarebbero stati reindirizzati dalle grandi infrastrutture alle PMI. E così in Kenia, dopo il primo anno di presidenza di William Ruto, i prestiti diventano i più bassi degli ultimi 16 anni, poiché Pechino mette in pratica questo approccio più cauto. Nel 2023, infatti, i prestiti cinesi sono passati dai 216,5 mln $ dell’anno precedente ai 12,7mln, destinati per lo più all’economia digitale. Ma mentre la politica cinese cambia, invece il FMI e BM (insieme a Francia e Germania) aumentano i prestiti, rafforzano la presa sull’economia del Paese e spiegano al governo come trovare i soldi per restituirli: tasse, privatizzazioni, tagli ai servizi.

Cambio di paradigma

Dato a Cesare quel che è di Cesare, è un fatto che il problema del debito stia colpendo i paesi e le popolazioni più fragili, limitando enormemente le politiche ambientali, di redistribuzione della ricchezza e di sviluppo. I pagamenti del debito dei paesi africani superano di oltre il 50% la spesa combinata per la salute, l’istruzione, la protezione sociale e il clima. Dal 2020 tre paesi (Zambia, Ghana ed Etiopia) hanno dichiarato la loro incapacità di ripagare i prestiti concessi e altri ne arriveranno. Dopo i parziali successi di fine anni 90 delle campagne di eliminazione del debito, questo è tornato a superare il 70% del Pil dei paesi africani, allargando e diversificando la platea dei creditori. Ora chi presta e quindi influenza la politica economica delle nazioni africane non sono solamente le criminali istituzioni finanziarie, i paesi del club di Parigi ed i nuovi paesi ricchi creditori delle economie emergenti come la Cina, ma anche i creditori commerciali (ovvero i detentori di obbligazioni sovrane e le banche). Questo insieme di soggetti eterogenei in competizione tra loro, impossibili da coordinare e l’assenza di regole internazionali condivise per la gestione del debito sovrano rendono impossibile all’interno di questo sistema economico-finanziario risolvere il problema del debito. Una nuova campagna di mobilitazione per la sua rinegoziazione potrebbe avere solo un successo limitato, vista l’eterogenità degli interessi in campo. L’uscita dall’economia di rapina, la fine della dipendenza dai prezzi delle materie prime, il recupero di una sovranità economica e finanziaria, uno sviluppo economico endogeno che risponda agli interessi popolari, la costruzione di nuove alleanze sovrannazionali e di nuove istituzioni finanziarie dovrebbero essere gli elementi di un nuovo sistema economico e di relazioni internazionali più equo, che tagli alla radice il problema del debito. In attesa di tutto ciò, ricordiamo il discorso di Thomas Sankara del 29 luglio 1987 ad Addis Abeba: “Come se il sostegno di qualcuno potesse creare sviluppo. Nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, il debito è una riconquista dell’Africa abilmente intesa a soggiogarne lo sviluppo. Così ognuno di noi diventa uno schiavo finanziario. (…) Il debito non può essere rimborsato innanzitutto perché se non lo rimborsiamo i prestatori non moriranno. Ma se ripaghiamo saremo noi a morire. (…) Ora ci chiedono di essere complici di un bilanciamento, un bilanciamento a favore di chi ha il potere finanziario; un bilanciamento contro le masse popolari. No, non possiamo essere complici. È necessario creare un fronte unito contro il debito. In tal modo dedicheremo le nostre scarse risorse al nostro sviluppo”.

Fonti: Africa 24, Ispi online, Africa rivista, Kulturjam, focsiv.it, Il manifesto, cittanuova.it, Nigrizia, Aliceforchildren, L’Avvenire, Le Monde, nation.africa, Citizen Digital.

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