EsteroNewsNewsletter Tricontinental

COLPITE LE DONNE, COLPITE LA ROCCIA E SARETE SCHIACCIATI

Che cosa costituisce una crisi degna di attenzione a livello mondiale? Quando una banca regionale statunitense è vittima di un’inversione della curva dei rendimenti (cioè quando i tassi di interesse delle obbligazioni a breve termine superano quelli a lungo termine), la terra quasi smette di girare. Il crollo della Silicon Valley Bank (SVB) – uno dei più importanti finanziatori di start-up tecnologiche negli Stati Uniti – il 10 marzo scorso ha fatto presagire un caos più ampio nel mondo finanziario occidentale. Nei giorni successivi alla debacle della SVB, la Signature Bank, una delle poche banche ad accettare depositi in criptovaluta, ha rischiato il fallimento. E poi il Credit Suisse, un’affermata banca europea fondata nel 1856, è crollato a causa della sua lunga e inadeguata gestione del rischio (il 19 marzo, UBS ha accettato di acquistare il Credit Suisse in un’operazione d’emergenza con lo scopo di “fermare” la crisi). I governi hanno organizzato conferenze d’emergenza su zoom, i titani della finanza hanno convocato i capi di banche centrali e Stati e i giornali hanno lanciato l’allarme di un fallimento del sistema se non fossero state rapidamente create reti di sicurezza sotto l’intera architettura finanziaria. In poche ore, i governi e le banche centrali occidentali hanno assicurato miliardi di dollari per salvare il sistema finanziario. Nessuno si poteva permettere che la crisi si aggravasse.

Altri gravi sviluppi nel mondo potrebbero essere definiti una crisi, ma non suscitano mai il tipo di risposta urgente intrapresa dai governi occidentali per salvare il loro sistema bancario. Tre anni fa, Oxfam ha pubblicato un rapporto secondo cui “i 22 uomini più ricchi del mondo possiedono più ricchezza di tutte le donne dell’Africa”. Questo fatto, più scioccante del fallimento di una banca, non ha spostato l’agenda nonostante l’evidenza che questa disparità è causata in gran parte dalle pratiche di prestito predatorie e deregolamentate del sistema bancario occidentale (come mostreremo nel nostro dossier di aprile Life or Debt: The Stranglehold of Neocolonialism and Africa’s Search for Alternatives).

Lo scorso gennaio, un rapporto chiave sulla regressione del raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite nel continente africano non è stato preso minimamente in considerazione. Il Rapporto sullo Sviluppo Sostenibile dell’Africa 2022, elaborato dall’Unione Africana, dalla Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa, dalla Banca Africana di Sviluppo e dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, ha dimostrato che, a causa dei mancati finanziamenti per lo sviluppo, i Paesi africani non riusciranno ad abolire la povertà estrema. Prima della pandemia di COVID-19, nel continente africano 445 milioni di persone – cioè il 34% della popolazione – vivevano in condizioni di estrema povertà; a queste si sono aggiunti altri 30 milioni nel 2020. Il rapporto stima che, entro il 2030, il numero di persone in estrema povertà nel continente raggiungerà i 492 milioni. Non è stato suonato un solo campanello d’allarme per questo disastro in corso, tanto meno si sono visti miliardi di dollari per salvare il popolo africano.

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha rilevato che le donne in Africa sono state colpite maggiormente dalla pandemia. I dati, scrive il FMI, sono camuffati dalla prevalenza del lavoro autonomo delle donne, le cui difficoltà economiche non sempre compaiono nelle statistiche nazionali. In tutta l’Africa, nell’ultimo anno centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per contestare i governi per causa della crisi del costo della vita che ha fatto evaporare i redditi della maggior parte della popolazione. Con il calo dei redditi e il collasso dei servizi sociali, le donne si fanno carico di una parte sempre maggiore del lavoro delle famiglie, occupandosi dei bambini, degli anziani, dei malati e di chi soffre la fame, e così via. L’African Feminist Post-COVID-19 Economic Recovery Statement, redatto da una piattaforma femminista panafricana, valuta così la situazione:

Di fronte agli shock economici, l’assenza di reti di sicurezza sociale necessarie alle donne a causa della loro maggiore precarietà finanziaria ha messo in luce i fallimenti di un modello di sviluppo che attualmente privilegia la produttività per la crescita rispetto al benessere dei popoli africani. In effetti, il COVID-19 ha reso evidente ciò che le femministe sottolineano da tempo: i profitti realizzati nelle economie e nei mercati si basano sul lavoro domestico e di cura non retribuito delle donne – servizi essenziali che persino con l’attuale pandemia non si è voluto riconoscere e affrontare politicamente.

L’8 marzo, Giornata internazionale delle donne lavoratrici, in tutta l’Africa le proteste hanno puntato il declino generale delle condizioni di vita e l’impatto specifico che questo ha sulle donne. La suggestiva dichiarazione di Oxfam – i 22 uomini più ricchi del mondo possiedono più ricchezza di tutte le donne africane – e la consapevolezza che le condizioni di vita di queste donne sembrano peggiorare, nel mondo non hanno provocato una risposta adeguata. Non ci sono state telefonate urgenti tra le capitali del mondo, né riunioni d’emergenza su zoom tra le banche centrali, né preoccupazione per le persone che scivolano sempre più nella povertà; nel frattempo i Paesi sono martoriati dall’ austerità in questa crisi del debito sempre più profonda. La maggior parte delle proteste dell’8 marzo ha messo l’attenzione sull’inflazione dei prezzi dei generi alimentari e dei carburanti e sulle conseguenze che ciò sta avendo sulle donne. Dall’azione pubblica del Movimento dei lavoratori senza terra (MST) contro le pratiche lavorative di tipo schiavistico in Brasile alla manifestazione contro la violenza di genere della Rete nazionale dei gruppi di contadini in Tanzania, le donne organizzate dai sindacati rurali e urbani, dai partiti politici e da una serie di movimenti sociali sono scese in piazza per dire, citando Josie Mpama, “fate largo alle donne che saranno la nostra guida”.

Come Tricontinental: Institute for Social Research, abbiamo seguito il modo in cui la pandemia ha indurito le strutture del neocolonialismo e del patriarcato, culminando in CoronaShock and Patriarchy (novembre 2020). Questa pubblicazione presenta un elenco di rivendicazioni femministe per affrontare la crisi sanitaria, politica, sociale ed economica globale. All’inizio dello stesso anno, nel marzo 2020, abbiamo pubblicato il primo studio della nostra serie sui femminismi, Women of Struggle, Women in Struggle, in cui evidenziamo come la contrazione economica e l’austerità causino, per le donne, più disoccupazione e più pressione in riguardo alla cura delle famiglie e delle comunità e come facciano aumentare i femminicidi. In risposta a queste condizioni orribili, abbiamo anche scritto dell’aumento delle proteste delle donne in tutto il mondo. Abbiamo deciso che uno dei nostri contributi a queste lotte sarebbe stato quello di scavare nelle storie di donne dei nostri movimenti che sono state ampiamente dimenticate. Negli ultimi tre anni abbiamo pubblicato brevi biografie di tre donne: Kanak Mukherjee (India, 1921-2005), Nela Martínez Espinosa (Ecuador, 1912-2004) e ora Josie Mpama (Sudafrica, 1903-1979). Ogni anno pubblicheremo la biografia di una donna che, come Kanak, Nela e Josie, ha lottato per un socialismo che vada oltre il patriarcato e lo sfruttamento di classe.

All’inizio degli anni Venti del ‘900, Josie Mpama, nata in una famiglia operaia nera sudafricana, si unì alla forza lavoro informale, lavando vestiti, pulendo case e cucinando. Quando il regime razzista cercò di applicare politiche e leggi per limitare la libera circolazione degli africani, entrò nel mondo della politica e combatté l’oppressione che derivava da decreti come quello sui permessi di alloggio a Potchefstroom (nel nord-ovest del Paese). Il Partito Comunista del Sudafrica (CPSA), fondato nel 1921, diede forma alla miriade di proteste contro le leggi segregazioniste, insegnando alle lavoratrici e ai lavoratori a usare il loro “lavoro e il potere di organizzarlo e rifiutarlo”, come dichiaravano i loro volantini. “Queste sono le vostre armi; imparate a usarle, mettendo così in ginocchio il tiranno”.

Nel 1928, Josie si unì al CPSA, trovando sostegno sia nel suo lavoro di organizzazione che nel suo desiderio di educazione politica. Negli anni ’30 si trasferì a Johannesburg e aprì una scuola serale per la formazione ideologica, oltre che per la matematica e l’inglese di base. In seguito, Josie divenne una delle prime donne nere della classe operaia a entrare nella dirigenza del CPSA e alla fine si recò a Mosca con lo pseudonimo di Sciarpa Rossa per frequentare l’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est. Sotto la guida di Josie a capo del dipartimento femminile del partito, un numero sempre maggiore di donne si unì al CPSA, soprattutto perché questo si occupava di questioni che le riguardavano direttamente e incoraggiava le donne a lottare a fianco degli uomini e a combattere per una concezione più radicale dei ruoli di genere.

Gran parte di questa storia è stata dimenticata. Nel Sudafrica contemporaneo ci si concentra sull’importanza della Carta della Libertà (adottata il 26 giugno 1955). Ma si continua a non riconoscere che l’anno prima la Federazione delle donne sudafricane (FEDSAW) aveva approvato una Carta delle donne (aprile 1954), che – come si legge nello studio – “sarebbe poi diventata la base per alcuni diritti costituzionali nel Sudafrica post-apartheid”. La Carta delle donne fu approvata da 146 delegate che rappresentavano 230.000 donne. Una di queste delegate era Josie, che partecipò alla conferenza per conto della Transvaal All-Women’s Union e divenne presidente della sezione Transvaal della FEDSAW. La Carta delle donne chiedeva la parità di retribuzione a parità di lavoro (ancora oggi non raggiunta) e il diritto delle donne a formare sindacati. La leadership di Josie nella FEDSAW attirò l’attenzione del regime sudafricano dell’apartheid, che nel 1955 la bandì dalla politica. Sciarpa Rossa scrisse alle sue compagne della FEDSAW “Con o senza Josie, la lotta continuerà, nostro sarà il giorno della vittoria”.

Il 9 agosto 1956, 20.000 donne marciarono verso la capitale del Sudafrica, Pretoria, chiedendo l’abolizione delle leggi sull’apartheid. Oggi il 9 agosto si celebra la Giornata della donna in Sudafrica. Mentre le donne marciavano, cantavano wathint’ abafazi, wathint’ imbokodo, uzokufa – “colpite le donne, colpite la roccia e sarate schiacciati”.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della dodicesima newsletter (2023) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Chi è Vijay Prashad?

Related posts
EsteroNews

SOSTENIAMO IL BOICOTTAGGIO DELLE ELEZIONI IN TUNISIA

EsteroNews

SAHARAWI: INTERESSI E GEOPOLITICA PREVALGONO SU DIRITTI DEI POPOLI E LEGALITA’ INTERNAZIONALE, MA LA LOTTA CONTINUA.

EsteroNews

KENYA: DEBITO, TASSE E RIVOLTE POPOLARI

EsteroNewsNewsletter Tricontinental

«HO IL CUORE IN GOLA»

Lascia un commento