Con la sentenza n. 58/2018, depositata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi l’articolo 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 (“Decreto Ilva”) e gli articoli 1 e 21-octies della legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2015. L’articolo 3 prevedeva che l’esercizio dell’attività dell’Ilva non fosse ostacolato dal provvedimento di sequestro dell’altoforno, disposto dalla magistratura di Taranto a seguito dell’incidente che aveva causato la morte di un lavoratore. Con lo stesso articolo, inoltre, si prevedevano misure a tutela della salute, dell’ambiente salubre e della sicurezza del luogo di lavoro: misure, tuttavia, solo apparenti. Il Parlamento, con gli articoli 1 e 21-octies, cancellava quelle previsioni, riproducendole, però, nella legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2015 (e cioè di un decreto che nulla aveva a che fare con l’Ilva), facendo salvi gli effetti già prodotti. Un bel pasticcio, insomma, e anche una furbata. Per questa ragione, la Corte non ha accolto l’eccezione sollevata dal Governo (che si richiamava alla intervenuta abrogazione dell’art. 3), ma si è spinta fin dentro il merito della vicenda. A parer suo, il Legislatore, nel consentire che l’attività dell’Ilva proseguisse, avrebbe finito per privilegiare l’iniziativa economica privata a danno di altri interessi costituzionalmente protetti: un irragionevole e sproporzionato bilanciamento dovuto alla predisposizione di un piano sulla incolumità dei lavoratori del tutto carente, adottato senza il coinvolgimento delle autorità pubbliche e con l’attribuzione di un potere di monitoraggio e ispezione dell’INAIL del tutto generico. In pratica, così statuendo, la Consulta è pervenuta a conclusioni del tutto differenti rispetto a quelle espresse con la sentenza n. 85 del 2013, quando aveva ritenuto, invece, soddisfacente il bilanciamento – effettuato dal Legislatore – tra valori costituzionali contrapposti. L’intera vicenda giuridica dimostra quanto sia assolutamente soggettivo ragionare per valori e quanta discrezionalità vi sia – sempre – nel bilanciamento tra gli stessi. Giacché: i diritti sono posti e vanno interpretati per quel che sono, e cioè per quel che “devono essere”. Un diritto può benissimo avere preminenza su un altro, senza che questa preminenza debba essere qualificata – parole della Corte – come “tirannica”: è l’ordinamento giuridico, infatti, che assegna a ciascun diritto il suo posto nel sistema, che disegna per esso una certa struttura, che prevede per esso certuni limiti o taluni “vantaggi”. Il giudizio di prevalenza, che, per restare al linguaggio della Corte, renderebbe “tiranno” un diritto rispetto all’altro, è in molti casi già risolto dalla Carta costituzionale. Quando la Costituzione all’art. 41 dice che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana non ci sta forse dicendo che la sicurezza o la dignità umana hanno preminenza sul diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva?
Enzo di Salvatore