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Alla ricerca di casa. Una nota su mutualismo, popolo ed organizzazione politica

Fonte: Left
di Salvatore Prinzi

“Una Casa del Popolo per ogni provincia!”. No, non è uno slogan del PCI di Togliatti, ma l’indicazione di lavoro emersa dall’ultima assemblea nazionale di Potere al Popolo!, giovane movimento che ha avuto il suo battesimo alle elezioni del 2018. Nostalgia retrò? Tentativo di riprendere simboli della sinistra che fu, sperando che per miracolo funzioni, riportando all’ovile il popolo disperso? A guardare l’età di chi propone questa formula, e ha iniziato a trasformarla in realtà in diverse parti d’Italia, non pare così: ragazze e ragazzi che il PCI non l’hanno mai conosciuto, che di quel popolo disperso non hanno mai fatto parte, vivendo in ben altro orizzonte ideologico e materiale. Si tratta allora di una semplice coincidenza, dettata dal diffondersi in Europa di un’ondata di “populismo” che ha reso cool ogni riferimento al “popolo”? Nemmeno.

In realtà è da ormai diversi anni che si registra, in tutto il mondo della sinistra italiana, una rinnovata attenzione a quel complesso di pratiche e di orientamenti che vanno sotto il nome di mutualismo. Sempre più realtà politiche e associative orientano il loro agire verso il reciproco soccorso, la solidarietà fra soggetti che condividono gli stessi bisogni. Mettere su un ambulatorio popolare, una palestra o una squadra di calcio, occupare case o creare gruppi antisfratto, aprire sportelli legali gratuiti, fare doposcuola nei quartieri popolari o distribuire pasti e vestiti ai senza tetto, fino ad avviare vere e proprie attività produttive gestite dagli (ex) sfruttati: sono forme di attivismo sempre più diffuse, a prescindere dalla sfumatura ideologica dei gruppi che le propongono.

Ci sono, dietro questa “ondata” mutualistica, due ragioni, una storica e una contingente. Da un punto di vista storico, la sinistra di classe, che fosse socialista, comunista o anarchica, ha sempre caratterizzato la sua attività per un forte intervento sul sociale, per cercare di unire proletari costantemente divisi dall’alto, individualizzati e abbandonati a loro stessi, per dar loro coscienza della propria forza, e prefigurare l’umanità futura. La stessa nascita del socialismo in Italia è legata alla creazione delle Camere del Lavoro, che non erano solo sedi proto-sindacali, atte a difendere la forza-lavoro nel momento della sua vendita, ma anche luoghi di socialità e aiuto reciproco, dove trovare vino e cibo a poco prezzo, un tavolo per una partita a carte o un asilo improvvisato per i figli. Le Case del Popolo, che si diffondono alla fine dell’Ottocento, che sopravvivono al ventennio fascista e rifioriscono prepotentemente sotto la spinta del PCI, sviluppano proprio questa impostazione. “Le sezioni comuniste debbono diventare dei centri della vita popolare, ove debbono andare tutti i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito, sapendo di trovarvi un partito e un’organizzazione che s’interessano dei loro problemi e che forniranno loro una guida, sapendo di trovarvi qualcuno che li può dirigere, li può consigliare, e può dar loro la possibilità di divertirsi se questo è necessario…”: così scriveva Togliatti nel ’45. Ma, al netto di significative differenze sulla “direzione” delle masse o sulla “necessità” del divertimento, anche le occupazioni e tante iniziative dei gruppi extraparlamentari degli anni ’70, così come i centri sociali che dall’inizio degli anni ’90 spuntano in tutta la penisola, stanno in questa lunga storia di socializzazione, cooperazione, radicamento nei quartieri.    

Ma perché tale storia antica e per lunghi tratti sotterranea – perché la priorità è stata piuttosto data alla lotta sindacale o politica, elettorale o di piazza – riemerge con forza proprio oggi? Probabilmente, a favorire un’inclinazione verso il mutualismo, è il combinato degli effetti sociali della crisi degli ultimi dieci anni e della scarsa capacità della sinistra italiana di incidere sul livello politico generale. Da un lato, le classi popolari sono devastate dal punto di vista del reddito e dei diritti, e persino gli stessi militanti, in passato provenienti da strati di lavoro dipendente “tutelato” o di piccola borghesia, vivono condizioni materiali assai dure. Né lo stato né il mercato possono rispondere a questi bisogni, che quindi o restano insoddisfatti, convertendosi in rabbia e depressione, in guerra fra poveri ed emarginazione sociale, o devono trovare una forma di composizione “orizzontale”, attraverso la messa in comune di luoghi, di competenze, di risorse. Anche perché, da un altro lato, né la sinistra politica, che siano partiti o “aree di movimento”, né quella sindacale, sono in grado di lanciare una mobilitazione tale da far sì che la ricchezza, che anche in tempo di crisi continua ad accumularsi, sia redistribuita e impiegata a fini sociali. Il mutualismo appare così innanzitutto una forma di difesa, di resistenza, delle classi popolari, che si sviluppa istintivamente, senza avere una specifica connotazione politica. D’altra parte, è anche il modo che attori politici di base individuano, dopo le mobilitazioni “senza sbocco” del ciclo 2008-2011 e il progressivo scollamento della sinistra dalla classe, per riuscire a creare un contatto, ricostruendo così il proprio blocco sociale e passare dalla fase della resistenza a quella dell’offensiva.

È qui però che le interpretazioni politiche del mutualismo iniziano a divergere. C’è chi pensa che le pratiche mutualistiche possano sostituire tout court le istituzioni statali o private, a patto di “decrescere”, “autoprodurre”, federare le “comuni” etc, chi invece pensa che debbano svilupparsi sul piano economico, per riuscire a garantire un reddito ai soggetti che le praticano e contemporaneamente sviluppare filiere di altra economia e di nuovo movimento cooperativistico che possano via via sostituire il capitalismo. E c’è chi pensa che queste pratiche, che avvengono comunque in un contesto capitalistico che non può essere superato senza una rottura nell’ordine politico, debbano servire soprattutto a ricreare il terreno sociale, migliorare da subito le condizioni di vita, accumulare forze che sostengano e spingano un’organizzazione politica in grado di far sentire la voce delle lotte, elaborare proposte, intimorire controparti istituzionali e padronali per ottenere avanzamenti a tutti i livelli.  

È a quest’idea che si ispira Potere al Popolo!. Secondo il movimento, la prima cosa da fare per sbloccare la situazione italiana e far ritornare centrali i temi e i valori della sinistra non è discutere all’infinito all’interno delle stesse nicchie, comporre l’unità dei pezzettini della sinistra per raggiungere peso elettorale, ricercare una figura mediatica in grado di fare il miracolo. Ma agire: avviare un lavoro sui territori che sia in grado di ricomporre un sociale frammentato, fare inchiesta e radicare le “avanguardie” nella classe, far maturare elementi di coscienza, non attraverso la propaganda, ma soprattutto attraverso l’esperienza diretta, il mettersi al servizio, l’essere utili. Questo processo molecolare, che già su alcuni territori ha dimostrato di saper produrre partecipazione politica e persino risultato elettorale – come accaduto a Napoli –, deve essere diffuso, “professionalizzato”, portato avanti nel tempo. In quest’ottica, le Case del Popolo diventano luoghi di incontro e di socializzazione, in cui i soggetti si autorganizzano, in cui si condensa quel potere popolare, quella capacità creativa che esiste in maniera diffusa nella società, ma che non riesce a farsi comunità.

È infatti questo tema a porsi come centrale oggi, in cui condizioni di lavoro ottocentesche si intrecciano a una soggettivazione iper-moderna, individualista, improntata sulla valutazione, sul merito, sulla costruzione dell’immagine, su un certo obbligo a godere. Chi vuole fare il socialismo non può affrontare solo la contraddizione economica fra chi possiede i mezzi di produzione e chi deve invece vendere la propria forza-lavoro, né quella politica fra chi decide e chi invece subisce le decisioni. Deve anche prendere in considerazione le contraddizioni che si manifestano a livello cognitivo-affettivo, smontare quei dispositivi che creano scissioni fra gli individui e all’interno degli stessi individui, infantilizzazione, colpevolizzazione, ansie da prestazione, attacchi di panico, incapacità di dare un senso alla propria esistenza. Senza intervenire su questo livello, senza recuperare la capacità di leggere e capire, ascoltare e riflettere, dialogare, saper indicare concretamente un altro modo di vita, senza dimostrare ad hominem che il capitalismo non è sviluppo delle potenzialità ma freno a quelle stesse potenzialità, diventa difficile coinvolgere le classi popolari in maniera duratura – li si può al massimo soggettivare contro qualcosa.

Le Case del Popolo possono essere il modo per rispondere a questo terzo livello di contraddizione, per ricompattare il sé attraverso gli altri, per produrre una comunità di destino, per praticare da subito un orizzonte di vita diverso e quindi sentirlo possibile e imminente, uscendo, grazie a questo sentimento, dall’eterno presente del capitalismo? È troppo presto per dirlo. Ma di certo quest’ipotesi merita di essere verificata a fondo. In questo caso si può davvero dire: tentar non nuoce.

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