Intervista a Gennaro Gervasio
Venti giorni fa, a fine settembre, una scintilla ha scatenato un’ondata di protesta in Egitto. Nelle piazze di diverse città egiziane sono scesi tanti giovani che esprimevano un malcontento sociale e chiedevano un radicale cambiamento politico. Il regime di al-Sisi ha immediatamente reagito, reprimendo il movimento con violenza: oltre 2.000 arresti, strade, ponti e linee metropolitane militarizzate e chiuse, controlli arbitrari dei social media di semplici passanti in strada. Così, oggi le proteste sono su bassissima scala o non stanno più proseguendo.
La situazione nella regione nordafricana e nel Medio Oriente sta evoluendo rapidamente. Solo nell’anno 2019 in diversi paesi si sono scatenate manifestazioni di massa che hanno messo e stanno tuttora mettendo a dura prova la tenuta dei rispettivi governi e regimi autoritari: Le proteste contro l’autoritario Bouteflika e il regime militare di Gaïd Salah in Algeria, il movimento democratico in Sudan, le proteste dei giovani disoccupati in Iraq, gli scioperi di maestri e professori in Giordania e il “fuoco di paglia” visto nelle ultime settimane in Egitto sono – per menzionare solo alcuni di questi movimenti – il prodotto di quello che si può definire un “processo rivoluzionario di lunga durata” (Gilbert Achcar) iniziato nel 2011 con le primavere arabe.
Abbiamo parlato con Gennaro Gervasio che insegna storia e politica del Medio Oriente presso il Dipartimento di Studi umanistici di Roma 3 e ha vissuto ed insegnato in Egitto dal 2010 al 2016. Al centro delle sue ricerche si trovano i movimenti laici e sindacali di protesta. Gennaro Gervasio ci offre un riepilogo degli ultimi avvenimenti egiziani mettendoli in una prospettiva più generale di cambiamenti profondi in tutta l’area geografica.
Iniziamo dagli ultimi anni in Egitto: Che tipo di politiche economiche e sociali sono stati portati avanti dal al-Sisi in questi ultimi 5 anni?
Si tratta da un lato di una prosecuzione della politica ultra-neoliberista dell’ultimo periodo mubarakiano (Hosni Mubarak, presidente dell’Egitto dal 1981 al 2011 quando un largo movimento sociale ha fatto cadere il regime autoritario, ndr), soprattutto dopo la nomina del nuovo Primo Ministro Ahmad Nazif nel 2004 che ha favorito le privatizzazioni del comparto pubblico dell’economia, avvilendo i diritti dei lavoratori. Queste politiche possono sicuramente essere considerate uno dei motivi di rivolta del gennaio 2011, cioè il fatto di avere esasperato la forbice sociale con privatizzazioni selvagge e tagli brutali allo stato sociale, soprattutto al sistema di sussidi che già era ridotto al minimo, ma che per tantissime fasce della popolazione rimaneva vitale.
Dall’altro lato però c’è una importante differenza e rottura con gli anni mubarakiani: Parte delle élite legate al vecchio presidente, quindi la vera élite globalizzata non legata al capitalismo parassitario tipico dello stato bonapartista militare – categoria introdotta dalla sinistra radicale negli anni 1970 da autori come Ibrahim Fathi e Hani Shukrallah – cui punto di riferimento era il figlio di Mubarak, Gamal, è stata in parte messa all’angolo dal ritorno dei militari. In realtà, i militari come istituzione non erano mai scomparsi, ma c’era stato un grande tentativo, in parte anche riuscito, di allontanarli dalla gestione dello stato. Prima della rivoluzione si combattevano almeno due frazioni dentro il regime: da un lato la vecchia guardia che vedeva nel capitalismo di stato, sia pure nel travestimento neoliberista, un baluardo da non perdere; dall’altro lato invece la nuova guardia legata al figlio dell’allora presidente e neopresidente in pectore Gamal Mubarak che era molto più aperta soprattutto all’occidente, ad altre potenze economiche mondiali, e in particolare all’Europa dell’est e chiaramente anche del Golfo e dell’Asia. C’è dunque buona ragione per ritenere che, alla fine, l’esercito abbia abbandonato il presidente Mubarak nel febbraio 2011 proprio per scongiurare questa ipotesi.
Quindi le politiche economiche e sociali di al-Sisi sono una continuazione delle politiche neoliberiste, però con il recupero del ruolo politico dell’esercito e un aumento del suo ruolo economico. È difficile stimare il suo vero peso nell’economia egiziana, perché l’esercito è un istituzione praticamente impenetrabile dall’esterno. Ma ovviamente le ricadute sociali sono state quelle di re-precipitare il paese, dopo un po’ di euforia iniziale, in una situazione come quella del 2010, se non peggio. Ed è da lì che dobbiamo partire se vogliamo capire quello che è successo nelle ultime settimane.
Si sono verificati movimenti di sciopero in questi anni?
Su questo bisogna stare attenti e differenziare tra l’attenzione riportata dai mass media e da un certo punto di vista accademico e quello che succede veramente in Egitto. Obbiettivamente rispetto alla quantità e alla qualità delle mobilitazioni operaie e sindacali, il post 2014 – dopo l’assestamento e l’elezione a presidente della Repubblica dell’allora ministro della difesa Abdel Fattah al-Sisi dunque – è stato molto complicato. Ci sono però stati episodi di contentious politics (di conflitto sociale, ndr), per dirlo in parole accademiche, che sono continuati anche nei giorni peggiori. Ovviamente sempre a prezzo di repressione e con pochissimo coordinamento. Quindi sono avvenuti un po’ a fungo e nei posti più svariati: nelle zone economiche speciali dove la presenza cinese è molto forte, nelle campagne, nel trasporto pubblico locale, nelle città meno grandi dove c’è meno attenzione da parte del regime, nel settore tessile e nel settore secondario. Diciamo che il movimento non si è mai del tutto fermato, però non ha più raggiunto quel tipo di grande coordinamento che era avvenuto alla fine degli anni 2000 in cui lotte sindacali, lotte politiche, lotte democratiche, di studenti, di contadini avevano poi trovato un linguaggio comune e un punto d’incontro da cui è scaturita la rivoluzione del gennaio 2011.
Visto da qui, le proteste di tre settimane fa sono esplose un po’ dal nulla e “senza avviso”.
Visto dall’interno c’erano avvisaglie di doppio tipo. Primo era diventato sempre più difficile vendere alla popolazione, compresa alla classe media, l’idea che c’era un grande recupero economico quando la realtà di ogni giorno è ben diversa. Si tratta in pratica della stessa situazione degli anni 2000, quando in quel caso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale raccontarono la storia di due scolari perfetti in ambito di riforme strutturali, cioè l’Egitto e la Tunisia. Ma proprio dal malcontento prodotto dalle politiche del FMI e della BM è partita la cosiddetta primavera araba. Oggi il malcontento è sicuramente molto più esteso di coloro che poi sono realmente scesi in strada nelle ultime settimane.
Chi è sceso in strada sono in primo luogo gli attivisti che erano già scesi tra il 2011 e il 2014 e che poi, di fatto negli ultimi anni, non avevano trovato altro sbocco di protesta se non l’ultima scintilla contro la decisione del regime di cedere all’Arabia Saudita due isole del Mar Rosso, Tiran e Sanafir, nella primavera del 2016.
Poi ci sono stati anche moltissimi ragazzi, sia universitari che giovani di vent’anni o anche meno che per questioni di età non avevano partecipato alle proteste tra il 2011 e il 2013/2014, quando è iniziato il declino delle proteste per causa di leggi che criminalizzavano le manifestazioni. E così anche ora il regime ha convalidato l’arresto di centinaia di persone, cosa che ci fa capire la paranoia che era esplosa già appunto dopo il 2014/2015 quando l’entusiasmo per il colpo di stato e la parola d’ordine di combattere il terrorismo islamico stava svanendo di fronte all’incapacità del regime di offrire una ricetta alternativa, soprattutto socio-economica.
Dunque questo movimento può essere compreso come una continuazione delle primavere arabe o si tratta di qualcosa di diverso?
Diciamo che le primavere arabe da un lato sono un momento storico collegato appunto alla fine del 2010 fino al 2013 e che ha vissuto varie fasi. In Tunisia, in un certo senso, una transizione democratica post Ben Ali, non senza problemi, continua. Proprio qualche giorno fa c’è stato il primo confronto televisivo tra candidati alle presidenziali, una completa novità se si pensa che solo 10 anni fa era impossibile visto che in quel paese esisteva il monologo del presidente e del regime, senza uno stralcio di opposizione. Bastava poco per essere sbattuti in galera o costretti a scappare in esilio. Ovviamente la situazione è ben diversa in quei paesi in cui dalla rivolta sono scaturiti conflitti civili armati che vanno avanti ancora oggi.
Quindi la mia risposta è si e no. Nel senso che da un lato, le istanze sono le stesse, cioè la richiesta di giustizia sociale e di libertà politica e democratica, dall’altra parte ovviamente c’è anche l’esperienza ormai risalente a qualche anno fa e assorbita nel caso algerino e sudanese dove si è puntato a mantenere la mobilitazione proprio per evita di farsi strappare le redini della rivolta, cosa che però parti dei regimi al potere in quei luoghi cercano di fare, proprio come avvenuto in Egitto.
Qual è il ruolo delle organizzazioni comuniste e rivoluzionarie egiziane in questo momento?
La sinistra purtroppo è divisa in due anime: Un’anima statalista (dawlatiyya in arabo) che da sempre più che islamofobica la definirei ostile contro i Fratelli musulmani, perché aveva sciaguratamente appoggiato il colpo di stato del regime di al-Sisi contro l’allora presidente Morsi. Questo appoggio è venuto anche da molti intellettuali liberali, e perfino da attivisti sindacali: il fondatore e il segretario della prima confederazione autonoma dei sindacati indipendenti, Kamal Abu Aita era diventato ministro del lavoro nel primo governo post colpo di stato. Questo aveva portato alla disgrazia sua personale e del movimento sindacale in un momento fondamentale tra il 2013 e 2014. Questa scelta di al-Sisi di integrarlo nelle istituzioni statali ha dunque pagato. Poi con il passare del tempo i vecchi sostenitori si sono allontanati.
Poi ci sono le forze come le correnti trotzkiste, i socialisti rivoluzionari, che in realtà avevano denunciato da sempre il regime di al-Sisi, però ovviamente la possibilità di fare attività pubblica, aperta, come era diventato possibile durante la “finestra di opportunità” tra il 2011 e inizio del 2014, è svanita. Queste organizzazioni si sono ridimensionate a attività solamente virtuali oppure addirittura segrete.
La sinistra è stata presente nella scintilla delle scorse settimane, ma in parte anche a guardare, nel senso che non sapeva ben riconoscere la matrice delle manifestazioni. Una parte all’inizio aveva perfino abboccato alla rappresentazione del regime che diceva che le manifestazioni erano organizzate dagli islamisti, cosa che conferma l’ostilità di una parte della sinistra contro i Fratelli musulmani. Altri hanno avuto un atteggiamento di prudenza, cosa che dimostra che purtroppo anche a sinistra si è maturata una certa distanza con la strada. La repressione ha un ruolo ovviamente importante, non ci dimentichiamo che molti attivisti sono in esilio o in autoesilio e che invece altri sono stati arrestati, penso a Alaa Abdel Fattah o Mahineour al-Masri, due tra gli esponenti della sinistra più noti anche al di fuori dei confini egiziani. Ma ritengo che quello che manca veramente è la costruzione di un’alternativa politica reale.
Quali sono i conflitti all’interno delle istituzioni dello Stato?
I giorni precedenti alla protesta alcuni beninformati intellettuali egiziani parlavano di aria di golpe perché c’erano state le dichiarazioni di Mohamed Ali, un imprenditore che aveva lavorato per tanto tempo con l’esercito, e adesso accusava dall’estero il regime e in primis il presidente apertamente di corruzione.
In realtà, da buon militare, al-Sisi ha rafforzato moltissimo l’istituzione, aumentando i salari degli ufficiali medi ed alti. È dunque difficile immaginare una spaccatura all’interno degli alti gradi dell’esercito. Mentre non è escluso che avvenga in altre istituzioni. L’apparato securitario egiziano è multiforme, ci sono per esempio forze di polizia ed altre forze e servizi di sicurezza. Però ripeto, bisogna essere molto prudenti quando si parla delle istituzioni militari visto la complessità e la vastità delle istituzione. Ma rimane pur vero che quando l’esercito fece il famoso endorsement ad al-Sisi per le elezioni presidenziali del 2014, in un certo senso l’esercito rimaneva allo stesso tempo ambiguo e un po’ si lavava le mani da un eventuale fallimento, come per dire: se va bene abbiamo vinto tutti, se dovesse andare male cadrà il presidente, ma l’esercito rimarrà alla guida del paese o almeno dietro le quinte proprio per scongiurare la possibilità che si stava prefigurando nel passaggio di potere da Mubarak padre a Mubarak figlio.
Le relazioni diplomatiche e economiche tra l’Italia e l’Egitto si sono intensificate in questi ultimi anni. Quali sono i reali interessi dell’Italia in Egitto?
L’Italia è sempre stato un partner molto importante, non solo per le armi, ma anche per il gas con la presenza dell’ENI e altre imprese come per esempio Italcementi e tante altre. Esiste dunque un’intera mappa degli interessi italiani in Egitto. Il punto, però, deve esser posto diversamente: non si tratta di interessi italiani in Egitto come sono stati dipinti anche da varie forze politiche italiane come il PD, ma di interessi di parte del capitalismo italiano che molto spesso non corrispondono certo agli interessi dell’Italia. Non dimentichiamo che in uno dei momenti più importanti per la propaganda del regime di al-Sisi, cioè l’inaugurazione del “secondo canale di Suez” nel 2014, nessun leader mondiale di spicco partecipò, tranne il premier italiano dell’epoca. Fu proprio Matteo Renzi a mandare un segnale di volontà molto forte di essere presente a fianco del “nuovo regime” di al-Sisi.
Non si può nemmeno esagerare sul ruolo dell’Italia in Egitto, perché, per quanto riguarda il gas per esempio, si sa bene che se l’Italia dovesse ritirare la propria missione, la Francia e la Russia, per citare solo due paesi, si precipiterebbero immediatamente alle esplorazioni e allo sfruttamento del gas. Detto questo, l’Italia però non ha mai considerato realmente di usare l’arma economica per porre pressione sul regime e dunque di ritirare le sue missioni economiche dall’Egitto.
La situazione in tutta la regione sta in continua e rapida evoluzione. Come giudichi le diverse sollevazioni popolari per i diritti sociali nel suo complesso?
In generale, molto spesso nella visione europea di chi si proclama di sinistra o di opposizione ci si concentra su un’ottica geopolitica. Ricordiamoci che la geopolitica è una “scienza dei forti” creata dai nazisti e di seguito ereditata dagli Stati Uniti nella guerra fredda. Secondo me invece è importante cercare di capire quali sono gli interessi e la volontà dei popoli e in quel caso esprimere solidarietà. Io sono contro la solidarietà selettiva. In questi giorni, obbiettivamente, non possiamo che sollevarci e far sentire la nostra voce contro l’aggressione turca contro il popolo curdo. Però quando leggo che è iniziato il bombardamento della Siria, non posso non provare tristezza e rabbia pensando che in realtà queste azioni sono in atto già da parecchi anni. Quando sono state perpetrate dal regime di al-Asad, che non ha niente da invidiare ad al-Sisi, o dalle forze russe, in molti hanno fatto finta di non vedere. Quel che intendo dire è che c’è bisogno di riconoscere la volontà dal basso dei popoli lontano da qualsiasi considerazione razzista, orientalista oppure elitaria, anche se nel breve quella volontà potrebbe non piacerci del tutto.
Penso che la situazione generale nel Medio Oriente sia peggiorata, però quello che è avvenuto nell’ultimo anno in Algeria e in Sudan – per menzionare due paesi che erano stati esclusi dalle cosiddette primavere arabe – più che dimostrare che questo ciclo di proteste non erano affatto finite, come qualche analista aveva un po’ troppo frettolosamente decretato, dimostra che – date le stesse situazioni di repressione, di mancanza di libertà politiche e sociali e di difficoltà economiche – la reazione dei popoli sarà la medesima, cioè la ribellione. L’importante, in questo caso, è imparare dal passato e da quel che è avvenuto in paesi come l’Egitto durante la transizione abortita che non ha portato la democrazia, ma un regime ancora più autoritario di quello che sembrava essere stato abbattuto nel febbraio 2011. I popoli arabi hanno in qualche modo imparato questa lezione. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di popolazioni giovanissime rispetto alle nostre e a cui manca una tradizioni di dialettica democratica. Gli errori non possono che essere presenti e dovrebbero essere anche, tra virgolette, “ammessi”.