Chantal Mouffe* – 10 Settembre 2018 – pubblicato su www.theguardian.com
traduzione a cura di Federico Kurtz
Il neoliberalismo ha creato genuine rivendicazioni, sfruttate dalla destra radicale. La sinistra deve trovare un nuovo modo di articolarle
Questi sono tempi inquieti per la politica democratica. Scossa dalla vittoria delle coalizioni euro-scettiche in Austria e in Italia, le elite neoliberali – già preoccupate dal voto sulla Brexit e dalla vittoria di Donald Trump – ora annunciano che la democrazia è in pericolo e alzano l’allarme contro un possibile ritorno del “fascismo”.
Non si può negare che l’Europa occidentale stia osservando un “momento populista”. Questo sorge dal moltiplicarsi di movimenti anti-establishment, che segnalano una crisi dell’egemonia neo-liberale.
Questa crisi potrebbe sicuramente aprire la strada per governi più autoritari, ma può anche fornire l’opportunità per recuperare e approfondire le istituzioni democratiche che sono state indebolite da 30 anni di neoliberalismo.
La nostra attuale situazione post-democratica è il prodotto di svariati fenomeni: il primo, che chiamo “post-politica”, è il confondersi delle frontiere fra destra e sinistra. È il risultato dell’accordo tra partiti di centro-destra e centro-sinistra sull’idea che non ci sia alternativa alla globalizzazione neoliberale. Sotto l’imperativo della “modernizzazione”, i socialdemocratici hanno accettato gli editti del capitalismo finanziario globalizzato e i limiti che esso ha imposto sull’intervento statale e sulle politiche pubbliche.
La politica è divenuta una mera questione tecnica di governo dell’ordine corrente, uno terreno riservato agli esperti. La sovranità del popolo, una nozione al cuore dell’ideale democratico, è stata dichiarata obsoleta. La post-politica permette solo un alternarsi al potere tra centro-sinistra e centro-destra. Il confronto tra differenti progetti politici, cruciali per la democrazia, è stato eliminato.
Questa evoluzione post-politica è stata caratterizzata dal predominio del settore finanziario, con conseguenze disastrose per l’economica produttiva. Questo si è accompagnato con politiche di privatizzazione e deregolamentazione che, assieme alle misure di austerità imposte dopo la crisi del 2008, hanno provocato un incremento esponenziale delle diseguaglianze.
Ne sono state particolarmente colpite la classe lavoratrice e chi era già svantaggiato, ma pure un pezzo significativo della classe media, che è diventato più povero ed insicuro.
Negli anni recenti, vari movimenti di resistenza sono emersi. Incarnano quello che Karl Polanyi ha presentato ne “La grande trasformazione” come un “contromovimento”, con cui la società reagisce contro il processo di mercificazione e spinge per maggiore protezione sociale. Questo contromovimento, ha sottolineato, può prendere forme progressive o regressive. Questa ambivalenza è vera anche per il presente momento populista. In molti paesi Europei queste resistenze sono state catturate dai partiti di destra che hanno articolato, in un vocabolario nazionalistico e xenofobico, le richieste degli abbandonati dal centro-sinistra. I populisti di destra hanno proclamato che restituiranno alla gente la voce che è stata catturata dalle “elites”. Hanno inteso che la politica è sempre partigiana e richiede uno scontro noi/loro. Inoltre, hanno riconosciuto la necessità di mobilitare la sfera delle emozioni e dei sentimenti per costruire un’identità politica collettiva. Tracciando una linea tra il “popolo” e l’”establishment”, hanno apertamente rifiutato il l’opinione dominante post-politica.
Queste sono proprio le mosse politiche che la maggior parte dei partiti della sinistra non si sentono in grado di fare, per via della loro concezione post-politica della politica e della visione razionalistica per cui le passioni devono esserne escluse. Per loro, solo il dibattito razionale è accettabile. Questo spiega la loro ostilità al populismo, che associano alla demagogia e all’irrazionalità. Purtroppo, la sfida del populismo di destra non si potrà affrontare sostenendo ostinatamente la visione post-politica e disprezzando i “deplorevoli”.
È fondamentale rendersi conto che la condanna morale e la demonizzazione del populismo di destra è totalmente controproducente, rafforza semplicemente i sentimenti anti-establishment tra coloro che non hanno un vocabolario adeguato per formulare quelle che sono, in fondo, genuine rivendicazioni.
Classificare i partiti populisti di destra come “estrema destra” o “fascisti”, presentandoli come una sorta di malattia morale e attribuendo il loro successo alla mancanza di istruzione è, ovviamente, molto conveniente per il centrosinistra. Permette di respingere ogni richiesta dei populisti e di non riconoscere la propria responsabilità nella loro ascesa.
L’unico modo per combattere il populismo di destra è dare una risposta progressiva alle richieste espressere in un linguaggio xenofobo. Ciò significa riconoscere l’esistenza di un nucleo democratico in quelle richieste e la possibilità, attraverso un discorso diverso, di articolare queste richieste in una direzione democratica radicale.
Questa è la strategia politica che io chiamo “populismo di sinistra”. Il suo scopo è la costruzione di una volontà collettiva, un “popolo” il cui avversario è l'”oligarchia”, la forza che regge l’ordine neoliberale.
Non può essere formulata attraverso la dicotomia sinistra/destra, come si configura tradizionalmente. A differenza delle lotte caratteristiche dell’era del capitalismo fordista, quando esisteva una classe operaia che difendeva i suoi specifici interessi, le resistenze si sono sviluppate oltre il settore industriale. Le loro rivendicazioni non corrispondono più a gruppi sociali definiti. Molte toccano questioni relative alla qualità della vita e si intersecano con questioni come il sessismo, il razzismo e altre forme di dominio. Stante questa differenza, la tradizionale frontiera sinistra/destra non può più dispiegare una volontà collettiva.
Per riunire queste diverse lotte è necessario stabilire un legame tra i movimenti sociali e un nuovo tipo di partito per creare un “popolo” che lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Troviamo una tale strategia politica in movimenti come Podemos in Spagna, La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon o Bernie Sanders negli Stati Uniti. Questo caratterizza anche la politica di Jeremy Corbyn, il cui sforzo di trasformare il partito laburista in un grande movimento popolare, lavorando “per i molti, non i pochi”, è già riuscito a renderlo il più grande partito di sinistra in Europa.
Questi movimenti cercano di arrivare al potere attraverso le elezioni, ma non per stabilire un “regime populista”. Il loro obiettivo è recuperare e approfondire le istituzioni democratiche. Questa strategia assumerà forme diverse: potrebbe essere chiamata “socialismo democratico”, “eco-socialismo”, “socialismo liberale” o “democrazia partecipativa”, a seconda del diverso contesto nazionale. Ma ciò che è importante, qualunque sia il nome, è che la “democrazia” è il significante attorno al quale si articolano queste lotte e che le istituzioni politiche liberali non vengono abbandonate.
Il processo di radicalizzazione delle istituzioni democratiche includerà senza dubbio momenti di rottura e di scontro con gli interessi economici dominanti. È una strategia riformista radicale con una dimensione anticapitalista, ma non richiede l’abbandono delle istituzioni liberali democratiche.
Sono convinta che nei prossimi anni l’asse centrale del conflitto politico sarà tra il populismo di destra e il populismo di sinistra, ed è fondamentale che i settori progressisti comprendano l’importanza di partecipare a questa lotta.
La popolarità nelle elezioni parlamentari di giugno 2017 di Mélenchon, François Ruffin e altri candidati di La France Insoumise – anche a Marsiglia e Amiens, che erano roccaforti di Marine Le Pen – dimostra che quando un discorso egalitario è disponibile per esprimere le loro rivendicazioni, molte persone si uniscono la lotta progressista. Quando concepito intorno a obiettivi democratici radicali, il populismo, lungi dall’essere una perversione della democrazia – una visione che le forze che difendono lo status quo cercano di imporre squalificando come “estremisti” tutti coloro che si oppongono al consenso post-politico – costituisce nell’Europa di oggi la migliore strategia politica per rilanciare ed espandere i nostri ideali democratici.
*Chantal Mouffe è professoressa di teoria politica all’Università di Westminster