1. Introduzione
Quando abbiamo pensato di fare un’inchiesta sul lavoro durante l’emergenza Covid19, erano già attive varie iniziative della nostra organizzazione. Oltre agli strumenti messi in campo con il Telefono Rosso[1] e le altre iniziative di solidarietà[2] promosse sui territori, sentivamo comunque il bisogno di raccogliere le voci delle lavoratrici e dei lavoratori in modo più organico.
Telefono Rosso e sportelli locali rispecchiano una spinta caratterizzante Pap!, quella del mutualismo e della prassi, e lavorano sull’organizzazione sociale e politica fornendo contemporaneamente elementi di comprensione della realtà. L’inchiesta più strutturata e direttamente organizzata come tale, ci permetteva sia di affondare sul piano dell’analisi e dello studio, sia di tessere una rete di relazioni, provare a stringere legami in Veneto sulle rivendicazioni in vista del dopo emergenza sanitaria.
Non essendo noi un ente di ricerca statistica, abbiamo deciso muoverci secondo i principi della ricerca qualitativa. Sono stati confezionati tre questionari diversificati per 1) lavoro dipendente, 2) freelance e 3) piccoli imprenditori e si è scelto di proporre l’intervista su appuntamento in forma telematica o telefonica.
Il questionario per i dipendenti era composto principalmente di domande su salute e sicurezza e sulle condizioni di lavoro, cercando anche di cogliere eventuali processi di soggettivazione sia individuali che collettivi. Sono state individuate anche altre due categorie: le partite iva o freelance; e le microimprese (negozianti, bottegai, piccoli venditori). Abbiamo ritenuto importante socializzare con tutte quelle categorie maggiormente esposte nel medio periodo alle conseguenze di una depressione economica. Abbiamo raccolto 150 interviste che hanno implicato circa 150 ore di parlato al telefono. Qui ci limiteremo alla trattazione delle sole interviste che interessano il lavoro dipendente, ma sul sito Seize the time è in corso la pubblicazione di altri contributi specifici basati su questa inchiesta. Per chi volesse sono anche disponibili le tabelle di riepilogo dei dati.
La maggioranza delle persone intervistate sono giovani entro i 35 anni. La popolazione intervistata è ben distribuita sotto il profilo del genere, sotto quella della nazionalità il 10% degli intervistati si dichiara di origine straniera. Abbiamo coperto tutti i settori con prevalenza del settore privato, dell’industria, dei servizi all’industria, dei servizi alla persona. Metà delle persone intervistate lavorano in realtà di medie e grandi dimensioni, mentre l’altra metà in piccole o piccolissime imprese in linea con le caratteristiche del mercato del lavoro regionale. Tra le aziende appaltanti la metà risulta essere un committente pubblico.
- Il nostro punto di vista
Lockdown produttivo? Ma per molti il lavoro è stato più intenso o lo sarà
Chi ha continuato a lavorare ha visto un aumento dei propri carichi di lavoro. Dalla filiera della grande distribuzione alla logistica, dall’industria al comparto sanitario, lavoratrici e lavoratori hanno dovuto adattarsi a orari e turni più intensi, acquisire una maggiore flessibilità, maggiore “resilienza” per come è stata definita da media e istituzioni – in altre parole si è dovuta adattare alle mutate, seppur peggiori, condizioni di lavoro. Tuttavia proprio la categoria della “resilienza” si è imposta come parola chiave in un contesto in cui non era possibile scegliere. L’aumento sensibile dei carichi di lavoro si è manifestato in una situazione in cui è stato impossibile sottrarvisi, sia in nome del ricatto occupazionale, sia in nome di un bene collettivo a cui si è sentita la necessità di rispondere. Per esempio le persone che abbiamo intervistato, impiegate nei supermercati o nel settore sanitario, dichiarano di aver ricorso raramente allo strumento dei permessi o della malattia per contenere il peggioramento delle condizioni di salute, mentale e fisica anche a fronte del bisogno.
Coloro che hanno svolto il lavoro da casa in regime di smartworking/telelavoro hanno sperimentato a loro volta situazioni di forte stress, alienazione, aumento dei carichi di lavoro, aumento della reperibilità. Queste lavoratrici e lavoratori, anche a fronte dei vantaggi di cui può godere il lavoro da casa (meno costi per l’auto, meno tempo per spostamenti) hanno sottolineato l’importanza dell’ambiente di lavoro come ambiente preferibile: lavorare a casa non è un bene per tutti. L’indistinzione fra luogo di lavoro e luogo domestico si è accompagnato a forme di apparente auto-sfruttamento, in realtà sostenuto dalla pressione di controllo da parte dei capi e del management (telefonate, molte riunioni “inutili”, incombenza di nuove scadenze). In generale, gli effetti sulla salute mentale e sulla condizione affettiva della casa – nei termini di spazi affettivi danneggiati – non sono stati ritenuti positivi dalle persone intervistate. Più di qualcuno ci ha segnalato come l’emergenza abbia consentito una sperimentazione di massa dello smartworking e di come ora l’azienda stia pensando di renderlo obbligatorio per tutte quelle mansioni che lo consentono; l’obiettivo è quindi quello di risparmiare: affitto locali, attrezzature, rimborsi. Qui un contributo specifico sullo smartworking.
A confermare una condizione di maggiore ricattabilità è la denuncia da parte di molte e molti dell’abuso della cassa integrazione in regime di smartworking. Una persona su 10 ci ha raccontato di aver continuato a lavorare a tempo pieno nonostante fosse in cassa integrazione, o di averlo appreso solo dopo che questa era già stata attivata dal titolare. Seppure in molti e molte abbiano bollato la situazione come – letteralmente – una “truffa allo stato” a opera delle aziende, si sono sentiti comunque in dovere di lavorare. Chi invece è rimasto a casa ha dichiarato di temere un calo significativo del lavoro nel futuro. Tuttavia un altro quarto pensa che il lavoro al rientro aumenterà significativamente, nel segno di maggiori turni e straordinari.
Salute vs lavoro
La crisi sanitaria ha messo in luce il rapporto tra salute e lavoro, rendendo visibili i problemi delle esposizioni al rischio, la questione della vulnerabilità e la reazione della classe padronale a queste istanze. In particolare nella prima fase dell’emergenza coloro che si sono ritrovati a lavorare hanno mostrato, anche attraverso scioperi, l’assurdità delle aperture delle fabbriche. Parimenti, chi si è ritrovato a lavorare in settori essenziali, ha rivendicato maggiormente le tutele sui posti di lavoro. Ricordiamo che un pezzo del comparto ospedaliero ha rifiutato l’appellativo di “eroi”, pretendendo piuttosto rispetto per le condizioni di lavoro e salute e dimostrando di preferire i finanziamenti del bene pubblico alla retorica dei sacrifici per la patria.
Nelle interviste effettuate il tema della salute è andato a intrecciarsi alla questione della cura, intesa come capacità di un sistema di prendersi cura dei soggetti in condizioni di vulnerabilità, ma anche di presa in cura dell’ambiente sociale e naturale a tutto tondo. Allo stesso modo chi si è trovato a prestare servizio durante l’emergenza (ma anche chi di assenza di lavoro si ammala) ha posto la domanda «chi si prende cura del lavoro?». A tal proposito è significativo come in molte e molti si siano definiti la “carne da macello” per questo sistema.
Inoltre, l’assenza di controlli da parte degli enti pubblici (Ispettorato e Spisal/Spresal), il cui organico è stato ridotto negli anni, e l’assenza del sindacato in molte delle realtà indagate aprono delle domande sul rapporto tra collettivo e individuale dove però il primo termine sta ad indicare il controllo che il collettivo dovrebbe operare sul lavoro, e dove il secondo termine – individuale – rappresenta sempre di più la condizione privata, e dunque rovesciata, di chi si sente solo e sola sui posti di lavoro.
Per coloro che hanno vissuto il dramma dell’assenza di reddito (in Veneto dal 23 febbraio al 31 maggio si sono registrate 61 mila posizioni lavorative in meno rispetto allo stesso periodo del 2019) è stato ancora più difficile esprimere a parole la trappola in cui si sono sentiti cadere: una morsa che stringe tra l’assenza di reddito e il bisogno di salute, tra il dramma posto dai rischi per la salute mentale e quelli di un rinnovato desiderio di tornare al lavoro, e quindi alla “normalità”.
Preoccupazioni
Le preoccupazioni che intervistati e intervistate ci hanno raccontato rendono ben conto della trappola davanti a cui ci troviamo. Il 50% degli intervistati è preoccupato per la situazione familiare sia sotto il profilo economico che sotto quello della salute. Il dato rilevante, che esce fuori da una mera percezione della situazione attuale riguarda un terzo degli intervistati, che mostrava difficoltà e preoccupazione già prima della crisi sanitaria.
A queste preoccupazioni familiari si aggiunge la consapevolezza mutuata dalle relazioni di prossimità, per cui si avverte una precarietà diffusa a partire dalla situazione di alcuni familiari, parenti o amici (l’80% delle persone intervistate dichiara di conoscere situazioni di precarietà tra amici e parenti).
Solo la metà delle persone intervistate dichiara di aver retto all’emergenza sanitaria senza difficoltà economiche. La restante parte ha ricorso all’aiuto di amici e parenti (12%), o ha “stretto la cinghia” (23%). Quasi una persona su 10 dichiara di aver rinunciato a delle cure mediche.
Desiderio di tornare al lavoro? Cinquanta sfumature di precariato
È attorno al “desiderio di tornare al lavoro”, “alla normalità”, “alla Milano che non si ferma” che ci sentiamo di fare un breve commento. Sarebbe facile leggere le affermazioni di Confindustria «la gente vuole tornare a lavorare» come l’effetto di un’alleanza di intenti tra classe padronale e classe lavoratrice. Sarebbe altrettanto superficiale pensare che “nella grande famiglia dell’impresa” stiano chini e chine coloro che da febbraio, non hanno più ricevuto un pasto. La situazione ai nostri occhi appare molto diversa.
Il precariato e le sue diverse declinazioni rappresentano un buon punto da cui partire per spiegare perché la gente ha sentito la necessita di rientrare al lavoro, anche quando questo ha messo a rischio la salute.
- L’universo delle formule contrattuali flessibili e precarie dal lavoro intermittente alle forme ibride promosse dalle cooperative, il lavoro grigio, le finte partite-iva, ma anche molte di quelle vere (l’elenco può essere lungo) hanno messo lavoratrici e lavoratori attivi nel mercato del lavoro, nelle condizioni di non percepire un reddito né dai datori di lavoro, né mediante gli ammortizzatori sociali, né di usufruire del welfare d’emergenza.
- La scadenza dei contratti a termine e il loro mancato rinnovo e la crisi di alcuni settori (turistico, dei servizi) che proprio del lavoro stagionale si serve, sta mettendo in luce un sistema di lavoro sfruttatissimo – il lavoro stagionale – in cui le logiche del ricatto sono all’ordine del giorno.
La ricattabilità a cui espone questo tipo di contratti non solo rappresenta per il ritorno al lavoro un motivo fondamentale, ma mostra come il rischio per la salute sia un fattore assolutamente secondario. Tutto ciò amplificato per i poverissimi, che all’interno della fine stratigrafia del lavoro occupano le posizioni più basse e senza strumenti alternativi di sussistenza: i e le migranti e i e le giovani provenienti da famiglie povere.
- Non conta solo la propria soggettiva condizione materiale, ossia passarsela più o meno bene. Come abbiamo già osservato, la diffusione di durissime condizioni contrattuali agisce, disciplinandolo, anche su chi gode di condizioni migliori ma che teme di perdere la propria posizione e di cadere o ricadere nel mondo del precariato, dei bassissimi salari o della disoccupazione.
Non è corretto quindi affermare che esista un diffuso desiderio di tornare al lavoro anche a discapito della salute, in realtà abbiamo a che fare con il più classico ricatto del salario: la paura della miseria è più grande di quella per la salute.
- Preoccupazioni, speranze, possibilità
Dalla lista dei problemi abbozzati emerge quanto rapidamente la situazione possa volgere in tragedia. Nelle prossime settimane approfondiremo alcune questioni su cui, grazie al lavoro d’inchiesta, siamo riusciti a vedere in profondità.
Continueremo il nostro lavoro di indagine e organizzazione, riadattando questionari e strategie alla nuova fase che stiamo affrontando. Per ora azzardiamo un paio di considerazioni.
L’emergenza sanitaria è diventata in fretta dramma sociale ed economico, tutti gli osservatori prospettano tempi bui. Gran parte delle aspettative si rivolgono all’azione di governo, ma le richieste rivolte allo stato dalla classe padronale sembrano miopi: si chiede un’iniezione di liquidità, quel tanto di ossigeno che permetta di tornare a respirare in superficie, a galleggiare finché non arriva la prossima onda. Ci raccontano che l’unico modo per salvare il paese sia dare soldi (e tanti soldi pubblici) alle imprese, a noi chiedono due cose semplici: lavorare a testa bassa e ritornare a spendere.
Subiamo quotidianamente un bombardamento retorico che prova a convincerci che l’unico modo per salvare il paese sia tutelare l’impresa e cioè il sistema lavoro per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, come se fino a ieri le cose fossero andate per il verso giusto e come se il declino dell’Italia non fosse evidente già da anni. Ecco allora che invece di una patrimoniale sui grandi e grandissimi patrimoni si preferisce abbonare l’IRAP alle imprese, peccato che questa imposta sulle attività produttive serva a finanziare il sistema sanitario nazionale. Ecco poi che lo stato è pronto a spendere miliardi di euro a debito per finanziare in via straordinaria la Cassa Integrazione; senza pretendere nulla dalle aziende che come abbiamo visto non si fanno remore a truffare letteralmente lo stato o comunque ad usare gli ammortizzatori per mantenere invariati gli utili. Non si vede un vero piano industriale, un minimo di programmazione o una proposta di nazionalizzazione dei settori strategici. Si continua a pretendere che il profitto sia privato anche a fronte dell’assunzione pubblica del rischio. Perché non pretendere piuttosto che gli utili incamerati negli anni non vengano utilizzati per ricapitalizzare le aziende e sostenere i lavoratori? Perché non esercitare all’interno dei consigli di amministrazione delle aziende che accedono alla CIG o al FIS un controllo pubblico e soprattutto di lavoratrici e lavoratori? Potremmo addirittura immaginare che nei consigli di amministrazioni venga messa una quota di lavoratori e lavoratrici. Se i “nostri” imprenditori non sono in grado di affrontare la situazione che si faccia appello all’intelligenza delle persone che quotidianamente lavorano e gestiscono nei fatti il sistema produttivo di questo paese.
I rischi all’orizzonte sono concreti. La gente si aspetta che il governo faccia fronte alla situazione, ma se questo non accadrà, se ancora ci chiederanno di far sacrifici, a chi si rivolgeranno le frustrazioni e le rabbie di milioni di persone? Anche se siamo stretti tra il ricatto di Confindustria e quello di Salvini-Meloni la lezione, ormai, pensiamo di averla imparata: per ritornare a una normalità che non sia ancora peggiore del tirare a campare post 2008 non possiamo che puntare sull’autorganizzazione popolare, nei luoghi di lavoro e in ogni spazio sociale.
[1] Da fine febbraio Potere al Popolo messo a disposizione un servizio su base nazionale denominato Telefono Rosso, ossia un servizio telefonico di assistenza legale su lavoro e diritti, per dare indicazioni e supporto, anche con l’obiettivo di rappresentare un punto di riferimento per lavoratrici e lavoratori in una condizione di rischio per la salute, sia per coloro in una condizione di rischio sotto il profilo del reddito. Informazioni e un primo report è disponibile qui: https://poterealpopolo.org/il-telefono-rosso-a-tutela-dei-lavoratori-un-primo-report/
[2] Una ricostruzione delle iniziative sulla città di Padova è disponibile qui: https://www.seizethetime.it/mutualismo-e-volontariato-alla-prova-del-covid-intervista-a-potere-al-popolo/