Intervista a Robin Wonsley Worlobah da Minneapolis. Robin Wonsley Worlobah è membra dei Democratic Socialists of America (DSA) di Minneapolis. È attiva da molti anni nel movimento socialista delle Twin Cities (Minneapolis e St. Paul), organizzatrice sindacale, e ha preso parte alla lotta vincente del 2017 per un salario minimo di 15 dollari. Minneapolis è stata la prima città nel Middle West in cui il salario minimo è stato introdotto. Oggi lavora per il sindacato degli insegnanti. L’anno prossimo si candiderà per il consiglio municipale di Minneapolis.
L’intervista è stata condotta telefonicamente nel pomeriggio di domenica 31 maggio da Stephan Kimmerle, giornalista freelance che vive a Seattle ed è membro dei DSA. L’intervista è stata pubblicata prima su Analyse und Kritik – Zeitung für linke Debatte & Praxis.
Sei stata coinvolta nell’organizzazione delle proteste a Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia. Nel frattempo sono sorte proteste in tutto il paese, da New York a Los Angeles, ma il cuore degli sviluppi rimane a Minneapolis. Puoi descrivere com’è la situazione nella città, quasi una settimana dopo l’omicidio?
Prima di tutto voglio sottolineare che quello che sta accadendo adesso a Minneapolis è un’insurrezione. Un’ondata del tutto giustificata di rabbia e frustrazione ha attraversato la comunità. Ci sono riprese dal momento in cui George Floyd è uscito dal negozio, a quello in cui giace al suolo, supplica per la sua vita e alla fine perde conoscenza. Questo continua ad accadere: nel 2016 a Minneapolis è stato ucciso Philando Castile, nel 2015 Jamar Clark, ci sono altre decine di uomini e donne neri che sono stati uccisi da poliziotti. E poi quando ci sono riprese dell’omicidio viene detto: “oh, l’impiego della forza era giustificato”, oppure “le cause della morte sono mediche”. Ma noi sappiamo che non è vero! Vediamo come veniamo uccisi – a telecamere accese!
Cosa è accaduto di preciso nella città nei primi giorni dopo l’omicidio di George Floyd?
All’inizio alcune associazioni della società civile hanno chiamato la protesta – come è normale dopo eventi del genere: la polizia spara o uccide qualcuno, e queste associazioni chiamano a protestare, esortano ad andare dove è avvenuto il fatto. Così ci siamo riuniti all’incrocio tra la 38esima strada e Chicago Avenue, davanti al negozio di “Cup-Food”. Quindi le proteste sono diventate sempre più grosse, e alla fine eravamo quasi in 20.000. Poi siamo andati alla stazione di polizia del terzo commissariato, dove lavorano i poliziotti che sono implicati nell’omicidio di George Floyd. C’erano così tanti giovani neri e people of color, lavoratori e lavoratrici, gente della comunità – è stato un momento magnifico. Allora abbiamo deciso di occupare lo spazio pubblico. Nelle ore successive molta della rabbia che c’era tra noi è stata sfogata – comprensibilmente – sugli edifici che avevamo a portata di mano, sulla stazione di polizia, sono stati colpiti i parabrezza delle camionette della polizia, e anche le finestre del commissariato. La polizia si è barricata e ha attaccato i manifestanti con gas lacrimogeno e proiettili di gomma. Nei giorni successivi c’è stato un po’ un balletto tra noi e la polizia. È importante sottolineare che fino a questo punto nessuno dei poliziotti implicati nell’omicidio era stato arrestato. E poi c’è stato un momento in cui la rabbia e la frustrazione che durante la prima notte si erano indirizzate contro il commissariato di polizia hanno cominciato ad espandersi.
Come hanno reagito i politici?
Sono intervenute delle associazioni della società civile, che io annovererei tra i rappresentanti della black managerial class, la classe imprenditoriale nera, che insieme ai politici eletti hanno cercato di placare la nostra rabbia. Ma i giovani neri che erano scesi in strada non hanno sopportato questi tentativi di dargli un contentino. L’hanno messo in chiaro: non ci vedrete cantare un paio di kumbaya e poi tornare a casa, noi rimaniamo qui finché ai poliziotti non viene fatto rendere conto delle loro responsabilità. I politici comunque hanno dimostrato di non essere in grado di toccare l’apparato della polizia, né di volerlo fare. E allo stesso tempo vedere le masse in strada gli ha messo una paura fottuta. La loro strategia consisteva nel separare i manifestanti “buoni” da quelli “cattivi”, e per questo hanno decretato un coprifuoco. Ci è stato detto: potete manifestare pacificamente, ma per favore fatelo solo tra le 6 e le 20. Se dopo quell’ora vi trovate fuori, fate parte dei “cattivi” e procederemo contro di voi. Hanno chiamato la guardia nazionale e hanno fatto credere che in questo modo volevano difendere i manifestanti “buoni” da quelli “cattivi”. Alcuni all’inizio ci sono anche cascati. Ma dopo i veicoli dei militari sono venuti nei quartieri residenziali e hanno sparato alle famiglie con gas lacrimogeni. Il video di un episodio del genere ha fatto sì che davvero molte persone abbiano realizzato che vengono prese in giro dallo stato.
Questo cosa significa?
Questo significa che adesso a Minneapolis c’è un sacco di gente per strada che tenta di mettere insieme gli avvenimenti e che comincia a capire qual è il compito dell’apparato statale, e cioè, tra le altre cose, terrorizzare neri e people of color per salvaguardare il capitalismo. Allo stesso tempo sta crescendo la consapevolezza che noi possiamo badare a noi stessi. Le persone si ritrovano e si organizzano, per soddisfare i bisogni fondamentali delle proprie comunità. In generale va tutto velocissimo, e la situazione continua a cambiare. Ogni giorno è diverso. Ancora pochi giorni fa il governatore e il sindaco non sapevano cosa fare, oggi hanno accolto la proposta di Donald Trump, secondo cui l’esercito dovrebbe mettere le cose a posto.
Il movimento Black Lives Matter è stato in passato molto organizzato a Minneapolis. Dopo l’omicidio di Jamar Clark nel 2015 c’è stata l’occupazione di un commissariato di polizia che è durata 18 giorni ed è stata organizzata da BLM. Com’è oggi la situazione? Chi porta avanti il movimento a Minneapolis? Dove vengono discusse le proposte su come andare avanti?
Da una parte quello che sta succedendo qui è davvero bello: il movimento è organico, non viene diretto da nessuna organizzazione centralizzata, è la gioventù nera e people of color proveniente dai quartieri in cui risiede la working class che sta alla guida del movimento e che attacca le forze istituzionalizzate, quelle che provano a dirgli cosa devono o non devono fare o quale è il modo migliore. Questo è il bello della situazione attuale. Dall’altra parte ci troviamo proprio in quel momento in cui a Minneapolis molte persone vivono sulla loro pelle la limitatezza del capitalismo e capiscono di cosa si tratta, e non c’è nessun movimento o forza organizzata di sinistra che sia in grado di indicare la strada da seguire. Per esempio non ci sono rivendicazioni concrete oltre alla richiesta che i poliziotti implicati nell’omicidio di George Floyd siano perseguiti penalmente. A Minneapolis Black Lives Matter si è sciolto nel 2017, dopo è venuta una organizzazione che so chiama Black Visions Collective e che ha un nucleo di organizzatori, ma si è concentrata soprattutto sul fare un lavoro di lobbying nel quadro dei rapporti esistenti anziché sulla politica. E nella situazione attuale anche questa organizzazione non ha nessuna strategia da proporre. Quindi non c’è nessuna forte organizzazione nera qui sul posto, nelle strade, che sia antirazzista e si colleghi alla working class.
Quello che c’è sono strutture cresciute nelle tradizionali circoscrizioni dei lavoratori neri, come a Minneapolis Nord, dove le persone sono abituate a riunirsi, a sostenersi ed anche a organizzare autodifesa. Sono loro che adesso organizzano anche squadre che dopo gli scontri puliscono. Ma ancora una volta: non c’è un movimento di sinistra collettivo. Non siamo uniti nel capire di cosa abbiamo bisogno per ottenere di più rispetto al procedimento penale contro gli assassini di George Floyd.
Quali potrebbero essere queste rivendicazioni più ampie?
Si tratterebbe di questo: recuperare i fondi che sono stati assegnati alla polizia. Dobbiamo capire dove va a finire il denaro nelle nostre comunità, come possiamo arrivare a un modello per la redistribuzione della ricchezza nella nostra città. Come facciamo a separare il mercato immobiliare dal mercato privato? Come facciamo a opporci ai tagli della spesa sociale? Questo è il momento in cui potremmo dire: “no, il denaro che va a ingrossare lo stato di polizia deve essere investito di nuovo nelle nostre comunità, in programmi sociali che sappiamo essere molto più efficaci quando si tratta di rendere più sicuri i nostri quartieri. Inoltre quella attuale è anche un’occasione per indebolire i legami di molte persone con il partito democratico e per deviare dai tipici modi di procedere che conosciamo dai passati movimenti che e consistono nel tornare alla normalità e fare così in modo di salvare il sistema attuale.
Cosa pensi dei riot e dei saccheggi? Da un lato sono espressione di una grossa rabbia, dall’altro vengono utilizzati da Trump e dai media per dipingere un quadro spaventoso delle proteste. Com’è la vostra esperienza lì a questo proposito?
In un sistema capitalista basato sul razzismo siamo noi a essere continuamente depredati! Perciò io non ho assolutamente alcun problema quando la gioventù nera della working class saccheggia i negozi di imprenditori che, ad esempio, erano contro il salario minimo di 15 dollari o che sono noti perché rubano milioni su milioni ai loro dipendenti. Loro hanno assicurazioni, hanno ottimi legami con i politici, i danni dei saccheggi e dei danneggiamenti gli verranno ripagati. È addirittura probabile che questi soldi gli verranno rimborsati nelle tasse, anche se possiedono miliardi di dollari su qualche conto offshore, con cui potrebbero benissimo recuperare i danni da soli, senza altro aiuto.
La cosa è un po’ diversa con i saccheggi nei quartieri della working class, dove il supermercato è un’infrastruttura importante. Vorrei che i saccheggi che sono avvenuti qui venissero dislocati nei quartieri ricchi della città, dove vivono amministratori delegati e manager. E non dovremmo dimenticare che ci troviamo in mezzo a una pandemia, in cui i più deboli tra noi lavoratori e lavoratrici, che siamo quelli più in pericolo, sono coloro che stanno combattendo da un punto di vista finanziario. Questo è anche il motivo per cui i DSA tra le altre cose stanno organizzando distribuzioni di viveri in questi quartieri. Adesso ci sarebbe bisogno di una forza organizzata che faccia in modo che non danneggiamo le nostre stesse comunità.
Ho l’impressione che questa sollevazione – che è una reazione immediata alla continua violenza della polizia – vada vista anche sullo sfondo di un presidente che continua a gettare benzina sul fuoco, ma pure sullo sfondo della crisi determinata dal Covid-19, da cui neri e people of color sono stati colpiti in maniera sproporzionata e muoiono molto più dei bianchi. Vedi anche tu questi collegamenti?
Chiaro. Veniamo brutalmente ingannati da tutti i lati. Penso che siamo davvero ad un punto di svolta. Nel corso degli ultimi mesi le nostre vite sono state distrutte in molti modi, c’è la crisi del Covid-19 – l’epidemia più letale da decenni – che ha messo sottosopra la nostra economia, che intensifica lo sfruttamento e allo stesso tempo ha reso chiaro agli sfruttati che non sono indispensabili, che la loro vita non vale nulla. Sono in particolare i neri e i lavoratori e le lavoratrici di colore che vengono costretti a rischiare la loro vita da politici che si ritirano nelle loro tenute da milioni di dollari e là vivono belli confortevoli. E poi abbiamo questo presidente, che infiamma un movimento conservatore di destra che ha dato una piattaforma politica a questo movimento. Io lo dico sempre: vorrei che la sinistra fosse organizzato così bene come questo movimento di destra! Loro hanno davvero fatto dei progressi, sono forti. E noi dobbiamo avere bene in chiaro che – anche qui in Minnesota – i suprematisti bianchi non sono solo i tipi che vanno in giro col fucile, ma spesso sono i nostri capi, le persone che incroci al supermercato…sono persone profondamente radicate nel nostro sistema. Anche per questo non possiamo semplicemente tornare indietro, al business as usual.
Non posso continuare a vivere in un sistema che autorizza la distruzione della mia vita e in cui io per oppormi non posso fare nient’altro che votare e impegnarmi nella società civile – che è lì apposta per difendere le nostre elites economiche e politiche. Ho bisogno di qualcos’altro! E se questo significa persone che escono in strada e riducono in cenere un commissariato per ottenere qualcosa, allora questo è il punto a cui siamo.