In Algeria per esempio gli studenti che da più di un anno scendono in piazza ogni martedì hanno deciso di sospendere le manifestazioni settimanali; il presidente non riconosciuto dalle proteste, Abdelmadjid Tebboune, ha imposto un’interdizione delle proteste del venerdì. Il movimento sociale invece non ha ancora deciso come affrontare questa emergenza, indecisione che si traduce nelle discussioni all’interno dell’hirak. Anche in Libano l’aumento della diffusione del virus sta frenando le proteste sociali.
Questi ultimi giorni hanno svelato una verità: la diffusione del coronavirus ha creato una crisi dentro alle crisi economica e politica che i paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord stanno vivendo ormai da decenni. I problemi strutturali delle economie e l’incapacità politica di garantire servizi sociali – in questo caso quello sanitario – alla stragrande maggioranza delle popolazioni vengono accentuati dal blocco della vita quotidiana. L’Iraq né è un esempio paradigmatico.
Il governo iracheno ha deciso un coprifuoco di una settimana e la chiusura di scuole, università e centri commerciali. Anche i cinema, ristoranti e bar rimarranno chiusi. Le istituzioni religiose hanno sospeso attività e assembramenti religiosi. Secondo le dichiarazioni del Ministero della Salute, i casi di covid19 attualmente sono 266, 23 i morti. Visto la scarsità di tamponi effettuati, il numero è realisticamente maggiore.
L’informalità picchia forte
Un primo insegnamento generale che possiamo trarre da queste settimane di diffusione del virus è che l’impatto del virus sulle vite non è uguale per tutte e tutti. Se #restiamoacasa vale per una parte della popolazione e soprattutto per chi se lo può economicamente permettere, in tutti i paesi europei nei quali sono state prese drastiche misure di limitazione della libertà di movimento per contenere la diffusione del virus, la produzione di beni e servizi non è stata toccata e le misure di sicurezza sanitarie e sociali per i lavoratori sono rimaste insufficienti.
La struttura economica dei paesi mediorientali e nordafricani sono ben diverse di quelle occidentali. Come rivela uno studio dell’Unesco sul mercato del lavoro iracheno, due terzi dei lavoratori in Iraq lavorano nel settore informale che corrisponde al 99% dell’economia privata. L’informalità non prevede stipendi sicuri e ammortizzatori sociali in caso di perdita di salario. “I lavoratori stanno vivendo una tragedia, perché la grande maggioranza vive alla giornata. Disoccupati e lavoratori informali non hanno né entrate regolari e quindi neanche risparmi, né ammortizzatori sociali in caso di perdita di salario. In mancanza di tutto questo oggi si ritrovano in forti difficoltà vitali: a loro mancano i solidi per comprare del cibo”, cosi Sami Adnan, 28enne disoccupato di Baghdad e attivista del collettivo politico formatosi all’inizio delle proteste Works Against Sectarianism.
Welfare statale – ma fino a quando?
Per quel che riguarda il lavoro più stabile invece, sempre secondo lo studio dell’Unesco si tratta del lavoro pubblico che corrisponde al 40% di tutti i posti di lavoro in Iraq. La prima fonte economica è il settore petrolifero che corrisponde al 99.6% dei ricavi dagli export, al 92% del budget statale e al 61% del PIL nazionale, anche se solo un lavoratore su cento trova la sua fonte di reddito in questo settore. Le spese pubbliche destinate al salario diretto (salari e pensioni) e al salario indiretto (beni e servizi sociali) ammontano a circa il 60%.
Questa disuguaglianza tra, da un lato, il lavoro pubblico che gode (per il momento almeno) ancora di garanzie salariali e sociali e, dall’altro lato, un settore privato dominato quasi esclusivamente dall’irregolarità e dall’informalità si traduce nel consumo privato quotidiano. Adnan ci spiega: “Gli impiegati pubblici che godono di un salario regolare stanno svuotando i supermercati e stanno accumulando scorte a casa. Chi invece era costretto di vivere alla giornata e non è riuscito a mettere da parte dei risparmi, oggi soffre la fame.”
Con l’attuale crisi del petrolio (il prezzo del barile Brent è sceso sotto ai 25 dollari), le entrate dello stato stanno subendo una contrazione importante. Nel breve futuro, lo stato avrà dunque difficoltà a garantire il livello di vita dei suoi impiegati.
La situazione è aggravata dalla scarsità di derrate alimentari. Adnan continua: “In questo contesto di carenza, i commercianti stanno aumentando i prezzi dei beni di prima necessità per arricchirsi. Per esempio, un chilo di pomodori normalmente costa 50 centesimi, oggi non si trovano al di sotto di 1.50 dollari. Lo stato non è capace e non vuole intervenire per regolare questo problema vitale per la maggior parte della popolazione.”
Per le poche persone che hanno trovato un lavoro regolare nel settore privato, invece, la mancanza dei diritti dei lavoratori li rende altrettanto vulnerabili di fronte all’attuale crisi: “Un mio amico lavorava per la Caterpillar in un centro commerciale di Baghdad a 700 dollari al mese. A causa del virus, i centri commerciali sono stati chiusi e quindi i lavoratori devono rimanere a casa. Ma l’azienda si rifiuta di pagare gli stipendi durante questo periodo di non lavoro.”
Lo smantellamento del sistema sanitario
Se sul fronte lavoro quindi l’informalità e la mancanza di diritti stanno accentuando le disuguaglianze sociali, il sistema sanitario non riesce a bilanciarle. Fino agli anni ‘70, l’Iraq conosceva uno dei sistemi sanitari più sviluppato del Medio Oriente. Si trattava infatti di un sistema pubblico, universale e gratuito per tutti. Sia le strutture ospedaliere che l’acquisto di medicinali stavano in mano al Ministero della Salute. Con il regime di Saddam Hussein prima, e le guerre e gli embarghi degli anni novanta e dei primi anni 2000 poi, il sistema sanitario ha conosciuto un sostanziale deterioramento. “In tutte le grandi città del paese si trova un ospedale. Ma si tratta di strutture piccole, vecchie, sporche e con carenze infrastrutturali” , ci spiega Adnan.
Un sistema pubblico dunque che ha vissuto una classica ristrutturazione neoliberista e che ha prodotto clientelismo e corruzione: “Le sanzioni imposte durante gli anni 90 e dopo il 2003 pesano ancora sul nostro sistema sanitario. La privatizzazione della sanità pubblica ha conosciuto un’accelerazione imponente negli ultimi 15 anni. Oggi dobbiamo pagare ogni singola visita e spesso, per farci curare, siamo obbligati a dare la mazzetta ai pochi medici rimasti nel paese.”
Prima di questo processo di smantellamento della sanità pubblica, il governo iracheno tramite la società statale Kimadia gestiva e controllava l’importazione dei medicinali. Oggi questa società pubblica controlla solo 25% dell’import. Secondo le dichiarazioni del Ministero della Salute, il 40% dei medicinali passano dal mercato nero dei paesi vicini all’Iraq e tanti medicinali non arrivano neanche. Adnan racconta: “Anche il mercato dei medicinali e le farmacie sono state privatizzate e i costi sono esplosi. Spesso i medici ci danno semplicemente il paracetamolo anche per sintomi più gravi. In più, i commercianti che controllano la distribuzione producono medicinali fatti in casa e di scarsa qualità. Abbiamo tanti casi di persone con problemi di fegato legato all’assunzione di farmaci autoprodotti.”
Queste mancanze sanitarie in Iraq oggi si traducono anche nell’approccio del governo e del Ministero della Salute al coronavirus: “Non si stanno occupando né della situazione generale né della nostra salute. Mancano informazioni e prevenzione. Il tutto è aggravato dal fatto che i leader religiosi stanno diffondendo la notizia che da buoni credenti e praticanti dell’Islam siamo protetti dal contagio. Siamo alla follia.”
Solidarietà ai tempi del virus
Le proteste esplose nel mese di ottobre 2019 devono dunque far fronte a queste difficoltà sanitarie e sociali. Ma le proteste continuano: “Le ragioni per le quali siamo scesi in piazza negli ultimi mesi erano proprio queste: il sistema sociale e sanitario è totalmente insufficiente per rispondere ai bisogni delle persone”, dice Adnan che è impegnato nel diffondere sui social media informazioni sulle proteste.
Dopo l’annuncio della diffusione del contagio in Iraq, il numero di manifestati è diminuito, le manifestazioni sono state rinviate, degli eventi annullati. Ma circa 10.000 persone continuano ad occupare Piazza Tahrir. E il virus è diventato proprio un veicolo di protesta. “All’interno del nostro villaggio di tende a Piazza Tahrir stiamo disinfettando tutto: vestiti, tende, materassi, coperte, strumenti e attrezzi. Stiamo distribuendo dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti.”
L’organizzazione strutturata delle proteste sta dunque rimpiazzando i compiti che si dovrebbe assumere lo stato. Adnan ci spiega: “Abbiamo lanciato una campagna di sensibilizzazione non solo all’interno della piazza. Stiamo girando per le strade delle maggiori città irachene spiegando in che modo proteggersi dal contagio: restare a casa, evitare assembramenti religiosi etc. seguendo le indicazioni dell’Oms.”
Al di là della campagna di prevenzione, gli attivisti sviluppano anche pratiche di mutuo soccorso. “Per affrontare il problema della mancanza di cibo e dell’aumento dei prezzi, ci organizziamo nei quartieri popolari per condividere il cibo: riso, verdure, zucchero e altri prodotti di prima necessità.”
La solidarietà non si ferma ai propri confini. Visto la violenza con la quale il virus ha colpito il vicino Iran, la raccolta di medicinali e strumenti di prima necessità non si limita all’Iraq. “Stiamo raccogliendo mascherine, prodotti disinfettanti e medicinali per mandarli ai nostri compagni iraniani.”
Anche il coronavirus è dunque, prima di tutto, una lotta contro lo stato corrotto e le disuguaglianze sociali prodotte da esso. Adnan conclude: “I manifestanti ripetono costantemente: non ci siamo ritirati dopo averci lanciato i lacrimogeni, dopo aver rapinato i nostri compagni, dopo aver sparato alle nostre sorelle e ai nostri fratelli. Rimaniamo qui. Patria o morte è la nostra parola d’ordine.”
Leggi la Dichiarazione di Workers Against Sectarianism per la costruzione di solidarietà e mutualismo in tempi di coronavirus.
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