Venti giorni fa a Washington è successo qualcosa che avrebbe dovuto smuovere gli animi e invece è passato sotto silenzio: un uomo ha esploso colpi di AK47 contro la sede dell’Ambasciata cubana negli USA.
Dopo qualche agenzia di stampa nelle prime ore, qualche articolo nei giorni successivi, tutto è scomparso. Un attacco armato a una rappresentanza diplomatica di un Paese sovrano, tra l’altro nel Paese che si auto-definisce come la più grande democrazia del pianeta, quasi non è esistito.
Eppure da Cuba hanno denunciato e continuano a denunciare l’atto. La sua gravità non sta solo nella violenza delle esplosioni del 30 aprile, ma nel fatto che – è questa l’accusa delle autorità de L’Avana – si tratta di un anello di una trama ben più intricata, che coinvolge anche pesci grandi, ai piani alti dell’establishment statunitense.
Pubblichiamo di seguito due testi che dettagliano su quanto accaduto in quelle ore e che, soprattutto, aiutano a ricostruire le relazioni e i progetti reazionari che l’hanno di fatto prodotto.
A maggior ragione quando Cuba mostra al mondo la possibilità di un futuro di solidarietà tra i popoli, nostro dovere dev’essere quello di evitare che trionfino menzogna, egoismi e progetti di isolamento e soffocamento dell’isola caraibica.
La victima y el verdugo – La vittima e il boia, o anche del bue e dell’asino
Di Aquíno S.R.N..C.
La notte del passato 30 aprile 32 colpi di fucile d’assalto AK47 colpivano la facciata della sede della ambasciata della Repubblica di Cuba a Washington. Non si riportavano feriti, ma l’episodio si sarebbe potuto convertire in una strage. L’attentatore, quello che successivamente si è voluto far passare come un autore isolato, è stato catturato dopo pochi minuti dalla polizia locale e da agenti del servizio segreto degli Stati Uniti. A due settimane dal trascorrere dei fatti nessun pronunciamento o dichiarazione è stata emessa sull’accaduto dal Dipartimento di Stato, né da altro organismo del governo statunitense. Nessun contatto è avvenuto da parte delle autorità nordamericane con la rappresentanza diplomatica cubana ospitata in territori USA. Nessuna informazione sull’autore, né sulle indagini in corso è stata fornita al governo cubano né al suo ambasciatore da parte del governo degli Stati Uniti. Di dichiarazioni di condanna dell’attentato, neanche a parlarne. L’autore dell’attacco è stato descritto da alcuni mezzi di informazione locali come un mezzo squilibrato, il cliché dello sparatore folle solitario già molte volte usato in passato nella storia del paese nordamericano.
Già a quarantottore dagli avvenimenti della notte del 30 aprile, il ministro degli esteri di Cuba, Bruno Rodriguez Parrilla, forniva una dichiarazione ufficiale dove, oltre a condannare con forza l’attentato, lamentava il comportamento negligente delle autorità statunitensi. La latitanza omertosa di queste è proseguita nei giorni successivi. Il 12 di maggio Rodriguez Parrilla in una conferenza stampa (http://www.minrex.gob.cu/es/conferencia-de-prensa-del-ministro-de-relaciones-exteriores-de-cuba-bruno-rodriguez-parrilla-12-de), con la presenza, virtuale, per ragioni di ordine sanitario, di giornalisti nazionali e stranieri, ha fornito numerose informazioni che hanno svelato alcuni importanti retroscena dell’attacco terroristico. Alexander Alazo Barò, l’autore di origine cubana è risultato essere alla fine non così folle come descritto, e soprattutto per niente isolato. Il Ministro degli Esteri cubano ha ricostruito con dovizia di particolari l’articolazione delle relazioni, anche operative, che ruotano attorno a un centro religioso neo-pentecostale e ai suoi frequentatori, alcuni dei quali così “illustri” da far puntare l’attenzione dritto verso la Casa Bianca, come descrive bene l’articolo che segue di Rosa Miriam Elizalde: tra i frequentatori, infatti, si trovano i senatori Marco Rubio e Rick Scott, il deputato Mario Diaz-Balart, il governatore della Florida Ron De Santis, tutti politicanti che hanno costruito lucrose carriere foraggiati dai magnati cubano-americani della controrivoluzione di Miami. Ma primus inter pares tra gli “illustri” frequentatori del centro, il cui nome è tutto un programma, “Doral Jesus Warship Center” (Centro Nave da Guerra di Gesù Dorato), è il Vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence. E qui il collegamento con la Casa Bianca è presto fatto. Se ciò non bastasse, Il “Centro Nave da Guerra di Gesù Dorato” accoglie, “caritatevolmente”, anche alcuni frequentatori non così “illustri”: una sorta di parenti poveri come Ramón Saúl Sánchez, che però possono sempre fare comodo per azioni coperte e terrorismo di stato. Il Ministro degli esteri cubano Rodriguez Parrilla ha denunciato la politica d’odio dell’amministrazione Trump che con il durissimo rafforzamento del blocco economico, (86 misure-attacchi economici contro l’isola caraibica solo nel 2019), la scalata aggressiva e bellicista contro Cuba, è stata la diretta istigatrice dell’attentato.
Neanche a ventiquattro ore di distanza dalle dichiarazioni del Ministro degli esteri cubano, è scattata ad orologeria l’iscrizione di Cuba da parte del governo statunitense in una loro, arbitraria quanto extragiudiziale, lista di paesi patrocinatori del terrorismo. Arbitraria ed extragiudiziale sì, ma non priva di gravissime conseguenze sul piano politico ed economico a livello internazionale, vista la incredibile e atletica capacità di genuflessione ai voleri dell’imperialismo a stelle e strisce, da parte di una numerosa pletora di imprese, banche, governi e stati del mondo.
Cuba non ha mai fatto mistero della sua etica e prassi rivoluzionaria. Se questo ha comportato fornire il proprio appoggio solidale e militante a chi combatteva contro le peggiori dittature e i sistemi più brutali del neo-colonialismo del pianeta, Cuba lo ha sempre rivendicato con umiltà, ma anche con orgoglio. Dittature, guarda caso, direttamente guidate e finanziate dall’imperialismo statunitense. La rivoluzione cubana, nonostante minacce, ricatti e vani tentativi di divisione, non ha fatto mai mancare la sua solidarietà militante e internazionalista nei confronti della rivoluzione bolivariana del Venezuela, a fianco del suo popolo e del suo governo. È storia vecchia; chi oggi a Washington come a Miami progetta e organizza invasioni mercenarie, e non, pianifica e realizza colpi di stato e attentati, e ha, con la C.I.A., armato la mano assassina che è costata a Cuba, dopo la vittoria rivoluzionaria del 1959, la vita all’incirca di suoi 4.000 cittadini tra cui 12 diplomatici, ha la sfrontatezza di chiamare terrorista chi, con le unghie e con i denti, difende il proprio diritto all’autodeterminazione. Difende la volontà di costruire un modello di relazioni umane, prima ancora che economiche, sociali e politiche, basato non sulla barbarie capitalista, ma invece sul socialismo. E qui casca l’asino, e il suo “essere terrorista”, ovviamente sempre a detta del bue.
CUBA, ASSALTO ALL’AMBASCIATA
Di Rosa Miriam Elizalde www.cubadebate.cu
Traduzione a cura di www.cubainformazione.it
Poche ore prima dell’attacco contro l’Ambasciata cubana a Washington, una donna con un impermeabile rosso, occhiali scuri, mascherina e un cappuccio, fotografava la facciata del palazzo della 16esima strada nel quartiere Adams-Morgan. Le telecamere di sicurezza l’hanno registrata in pieno giorno e, nonostante il travestimento, i funzionari della sede diplomatica l’hanno riconosciuta perfettamente. È la moglie di un militante della “causa” anticastrista, Mario Félix Lleonart Barroso che, curiosamente, risulta essere il comune denominatore di personaggi ed istituzioni relazionati con queste trame.
Lleonart Barroso, pastore battista nato a Cuba e abitante a Washington DC, vanta nelle reti sociali la sua stretta relazione con il “Doral Jesus Worship Center” – una chiesa che si situa nell’epicentro della controrivoluzione venezuelana e cubana di Miami – e con i suoi amici del Dipartimento di Stato, sulla cui pagina Twitter viene “reclamizzato” come “perseguitato per la sua fede a Cuba, dove ha subito anni di minacce e arresti” (tweet del 16 gennaio 2020).
Il nome di questo individuo, un “assiduo partecipante agli atti di persecuzione” contro i cubani a Washington, è solo una pista nell’arsenale di prove offerto, questo martedì (12 maggio), dal ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez Parrilla. Il ministro ha definito “attacco terroristico” la sparatoria contro la sede diplomatica, il 30 aprile, il cui protagonista è un altro pastore nato a Cuba, legato anch’egli alla chiesa di Doral e a individui molto attivi in quella congregazione che, non molto cristianamente, hanno richiesto uccidere, con i droni, Raúl Castro ed il presidente Miguel Díaz-Canel.
Alexander Alazo Baró, l’autore della sparatoria, è stato presentato come un malato psichiatrico assediato da fantasie persecutorie, mentre il regime di Trump ha insabbiato il suo dossier nel mezzo di un oscuramento informativo. La cosa straordinaria è che, salvo le immagini riprese dall’Ambasciata che sono state divulgate martedì, le scandalose prove erano di dominio pubblico. Si possono estrarre, facilmente, dai social network e trovare i legami tra questi signori e i terroristi della vecchia scuola delle bombe sotto le macchine, come Ramón Saúl Sánchez. Ma allo stesso tempo anche con le voci più violente dell’apparato politico anticubano e anti-venezuelano di Miami, fino ad arrivare alla Casa Bianca. Con tutti contemporaneamente.
Il vicepresidente Mike Pence è stato il principale oratore in una “celebrazione religiosa” presso il Doral Jesus Worship Center, che ha visto la presenza del governatore della Florida Ron DeSantis, i senatori Marco Rubio e Rick Scott e il deputato Mario Diaz-Balart. L’incontro del 1 febbraio 2019 è stato particolarmente commentato, perché Pence ha promesso, dal pulpito, la testa di Nicolás Maduro in “giorni o settimane” e Díaz-Balart, esaltato, ha affermato che Cuba e Venezuela soffrivano “lo stesso cancro”. Ma anche perché fu considerato come uno dei primi atti elettorali a favore della rielezione di Donald Trump. L’agenzia AP, quel giorno, si è fatta eco delle dichiarazioni della rappresentante democratica Debbie Wasserman Schultz, puro buon senso: “La politica estera è politica interna nel Sud della Florida”.
Sebbene il segretario di Stato Mike Pompeo e alcuni dei suoi subordinati –compresi quelli dell’OSA – parlino un giorno sì e l’altro pure di Cuba per silurare la collaborazione medica cubana, le autorità USA hanno evitato di pronunciarsi sulle questioni cruciali di questo caso che oggi, giovedì, ha un’udienza preliminare presso il tribunale del distretto di Columbia.
Bruno Rodríguez, ad esempio, ha posto domande di logica elementare: quale responsabilità ha il “Doral Jesus Worship Center”? Come può una persona con disturbi mentali essere autorizzata ad avere una licenza per portare armi e viaggiare per migliaia di miglia con un fucile d’assalto senza essere rilevato? Quali sono i legami del sicario con l’apparato anti-cubano della Florida? Che peso ha il discorso d’odio nelle trame? Cosa faceva la moglie di Lleonart, un pastore che ostenta i suoi incontri con Trump e Pompeo, aggirandosi camuffata presso l’Ambasciata cubana poche ore prima dell’attentato?
Il ministro degli Esteri cubano ha ingiunto alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato di spiegare ciò che sanno sui legami tra l’attentatore dell’Ambasciata e su coloro che promuovono la violenza contro l’isola. Ha preteso una risposta su ciò che li spinge a non denunciare il fatto, sebbene abbia avanzato un’ipotesi: “Un governo che difende come legittimo punire l’intera popolazione di un paese, come fa il governo degli Stati Uniti con il blocco economico, è in pratica un istigatore all’odio contro Cuba”.
In questo attacco, l’unico cubano che ha ricevuto un proiettile è stato José Martí, la statua di metallo che domina il piccolo giardino dell’Ambasciata. Ma la notte del 30 aprile si sarebbe potuto verificare un massacro nel palazzo della 16esima strada di Adams-Morgan. Dieci funzionari erano all’interno dell’edificio quando i proiettili hanno perforato la porta d’ingresso. Se qualcuno fosse morto, forse saremmo allo stesso punto: Washington reagisce all’aggressione nel suo stesso cortile includendo Cuba nella “lista dei paesi che non collaborano alla lotta contro il terrorismo” (sic), come accaduto ieri. Nel frattempo, l’Isola continua ad esigere dalla Casa Bianca maggiore coerenza e meno cinismo, perché l’impunità e il crimine vanno insieme, si generano, si coltivano e si incoraggiano, si dissimulano, si riproducono, si imitano, si applaudono.
Nell’analizzare la serie di dipinti di Goya intitolata “I disastri della guerra”, l’ispanista francese Paul Lefort ha osservato che: “ogni volta che c’è un salto qualitativo nell’uso della violenza, c’è qualcuno disposto a superarlo”. Se Trump e Pompeo continuano sulla stessa via, cosa succederà dopo l’assalto all’Ambasciata?