LEGGI ANCHE:
- Pandemia e filiera agroalimentare (parte 1): chi lavora nei campi?
- Pandemia e filiera agroalimentare (parte 2): Chi ci guadagna?
Dopo più di un mese e mezzo che viene evocata, la regolarizzazione dei migranti presenti sul suolo italiano continua ad aggirarsi come uno spettro nel dibattito politico del nostro paese. Come abbiamo già scritto, anche in riferimento alle prime bozze di questo provvedimento che sono circolate, non si tratta di una questione che possiamo confinare al campo umanitario, e neanche a quello giuridico: riconoscere il permesso di soggiorno alle centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici migranti attualmente in Italia, infatti, non vorrebbe dire solo permettere loro di sfuggire a una situazione pericolosa dal punto di vista sanitario e riconoscere a queste donne e questi uomini dei diritti fondamentali, un provvedimento simile costituirebbe anche un intervento importante dentro il comparto più rilevante dell’economia italiana, la filiera agroalimentare.
I campi in cui lavorano i braccianti – tanto quelli stranieri quanto quelli italiani, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati – costituiscono il primo anello di questa filiera, che attraverso la logistica da un lato e la lavorazione della materia prima dall’altro, arriva fino alla distribuzione dei prodotti “finiti” sui banchi e sugli scaffali dei supermercati della Grande Distribuzione Organizzata (GDO).
Ora, come molti altri ambiti della nostra vita sociale ed economica, anche la filiera agroalimentare fino a quando filava tutto liscio e non c’erano virus che si mettevano di traverso poteva funzionare senza intoppi, e quindi senza attirare troppo l’attenzione. Ma adesso che ha cominciato a incepparsi il suo meccanismo, le ingiustizie e le inefficienze al suo interno diventano visibili molto chiaramente: polverizzazione dell’offerta produttiva, lunghezza della filiera, alti costi di intermediazione, sfruttamento della manodopera, mancanza di un intervento efficace da parte dello stato e soprattutto la posizione dominante della GDO.
Un esempio perfetto l’abbiamo avuto nelle scorse settimane: a metà aprile Salvatore Lentinello, presidente del Consorzio dei produttori del pomodoro di Pachino, ha preso pubblicamente posizione contro la decisione notificatagli dal Comitato Agenzie di Logistica e Trasporto della Sicilia Sud Orientale di applicare un rincaro del 20% alle tariffe di trasporto dei pomodori verso il Nord Italia – decisione a sua volta dovuta, a sentire il Comitato, alle conseguenze del blocco di molte attività produttive nelle regioni settentrionali, che obbligava i tir a ritornare vuoti, anziché pieni di beni industriali da rivendere in Sicilia come di consueto.
Il ragionamento di Lentinello, che troviamo sul Sole24Ore del 15 aprile, ci fa capire molto chiaramente come funziona la filiera: il punto finale (in questo caso la GDO del Nord Italia) è quello che detta le condizioni a tutti i precedenti, perché le grandi centrali di acquisto producono vere e proprie strozzature nella catena del prezzo dei prodotti agricoli, imponendo il prezzo d’acquisto ai produttori, e spesso in maniera illecita, tramite aste online o gare d’appalto al doppio ribasso.
Il coltivatore spera di riuscire a far quadrare i conti e di non essere costretto a vendere il suo prodotto ad una cifra inferiore a quella che ha speso per produrlo. In mezzo ci sono tutti quelli che spostano la merce o la lavorano, i quali, come nel caso degli autotrasportatori siciliani, possono decidere di modificare le loro condizioni, dentro una cornice che però rimane fissa, poiché è definita rigidamente dalla GDO e finisce con lo scaricarsi sul primo anello, che è anche l’anello più debole.
Ad esempio i costi di intermediazione (commerciale, industriale e agricola) e la quota di profitto assegnata a questa parte della filiera sono costantemente aumentati negli ultimi 15 anni a discapito principalmente del comparto agricolo. Infatti i costi di trasporto e il prezzo dell’energia elettrica ad uso industriale che pesano sul prezzo della merce che poi si ritova in scaffale già nel 2010 erano ben più alti della media europea.
Insomma, ogni attore della filiera cerca di massimizzare il proprio profitto, e tutti cercano di farlo nello stesso modo, ovvero aumentando il tasso di sfruttamento cui i lavoratori e le lavoratrici sono sottoposti, riducendo il loro salario e comprimendo i loro diritti. Perché il costo del lavoro è la variabile indipendente a cui si può fare ricorso per aumentare il margine di profitto, che si tratti di braccianti nei campi, cassieri nei supermercati o autisti e facchini lungo le rotte della logistica.
Inoltre la polverizzazione dell’offerta agricola, con migliaia di piccoli produttori agricoli, non aumenta certo la loro capacità di negoziare condizioni di acquisto migliori ed economie di scala.
In queste settimane, poi, i rapporti di forza si stanno ulteriormente cristallizzando: il secondo rapporto ISMEA sulla domanda e l’offerta dei prodotti alimentari nell’emergenza Covid-19 ci mostra come la GDO stia continuando a ingrossare i suoi profitti per effetto della pandemia; nel secondo mese di confinamento le vendite sono aumentate del 18% rispetto all’anno precedente, con acquisti concentrati per il 44% nei supermercati della GDO. Questa posizione dominante, però, contiene al suo interno delle distinzioni nette. Anche all’interno della GDO, infatti, troviamo chi fa profitti e chi deve sudarsi un salario – più semplicemente, chi sfrutta e chi viene sfruttato. E pure in questo caso le vicende delle ultime settimane ci offrono esempi molto chiari: il 23 aprile Carrefour ha avviato le procedure per mettere in cassaintegrazione in deroga, con le misure previste dal Cura Italia, quasi 4.500 lavoratori (gli stessi di cui aveva esaltato l’eroismo nelle settimane precedenti). La motivazione sarebbe il calo di fatturato a causa del coronavirus – ma è evidente come si tratti di una scusa, visti i superprofitti realizzati in questo periodo. Più probabilmente, Carrefour sta tentando di approfittare delle risorse economiche messi a disposizione dallo Stato italiano per aumentare ancora di più i propri guadagni, scaricando tutto su lavoratori che in questi anni hanno già dovuto affrontare il lavoro nei festivi, le domeniche e in orari notturni, e svolgendo mansioni che esulano dal loro livello di inquadramento. E queste condizioni non sono certo imputabili unicamente a Carrefour, bensì rappresentano le condizioni di lavoro standard per i lavoratori e lavoratrici della GDO, che durante il confinamento, in aggiunta a tutto il resto, hanno anche dovuto affrontare i rischi derivanti da un’esposizione al contagio affrontata in moltissimi casi senza che venissero loro forniti gli adeguati dispositivi di protezione.
Da un capo all’altro della filiera, dunque, la logica è la stessa: i profitti derivati dal lavoro di molti vengono incamerati da pochi – e, seguendo questa logica fino in fondo, non c’è differenza tra dirigenti della GDO e caporali delle campagne, né tra emergenze sanitarie e tempi normali. Anzi: solo da metà aprile a oggi ci sono stati arresti per caporalato in agricoltura ad Asti, Forlì, Civitavecchia, Latina e Foggia, mentre a Ragusa il Coordinamento Lavoratori Agricoli dell’USB ha denunciato addirittura l’impiego di bambini per il lavoro nelle campagne.
In questo contesto dichiarazioni apparentemente deliranti come quelle di Giuseppe Pan – l’assessore leghista all’Agricoltura della regione Veneto – che martedì 5 maggio ha dichiarato che la proposta di regolarizzazione avanzata dalla ministra Bellanova “finirà per aumentare l’area grigia e illegale del caporalato” – o di Vito Crimi – capo politico del M5S, che mercoledì 6 maggio a Radio24 ha dichiarato che la regolarizzazione servirebbe a favorire il lavoro nero – in realtà danno voce al timore più grande di tutti coloro che hanno qualche interesse nella filiera così per come è adesso: la paura che qualcosa cambi, ovvero che la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici migliori, che godano di più diritti e che i loro salari aumentino, andando a intaccare i profitti dei molti padroni della filiera. Molto meglio continuare ad avere a disposizione una massa di lavoratori e lavoratrici ricattabili e invisibili, alle comode condizioni cui i padroni sono abituati da anni – oppure, se proprio, obbligare a lavorare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza, come vorrebbe il governatore dell’Emilia-Romagna Bonaccini.
Certo è che una regolarizzazione non risolverebbe tutti i problemi della filiera, ma costringerebbe la politica italiana a fare i conti con le sue inefficienze e aprirebbe la discussione su una sua riorganizzazione, più equa e solidale. Perché il punto è che il caporalato e il lavoro nero in agricoltura sono modalità di organizzazione del lavoro che hanno una valenza strutturale nella filiera agroalimentare, e dal loro “buon funzionamento” dipendono i profitti non solo delle aziende agricole, ma di tutta quanta la filiera. La GDO non potrebbe imporre i suoi prezzi ai coltivatori, se non sapesse che questi, a loro volta, possono scaricare tutto abbattendo il costo del lavoro, cioè alzando il tasso di sfruttamento. E questo la GDO sembra saperlo bene, dato che, nonostante le sollecitazioni ricevute, continua a essere assente dalle riunioni del Tavolo operativo per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura, presso il Ministero del Lavoro, da cui è uscito come primo risultato quel Piano triennale per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura 2020-2022 da più parti evocato in queste settimane come linea guida per gestire la regolarizzazione di cui si discute.
Finché continuerà a esistere questo margine fatto di lavoro nero, caporalato, manodopera ricattabile e sottopagata (tanto straniera quanto italiana), continuerà a esistere lo strapotere dei colossi della distribuzione, e la possibilità, anche per loro, di continuare a sfruttare i propri dipendenti. Regolarizzare i lavoratori migranti rappresenta però il primo passo per affrontare queste questioni strutturali, e riequilibrare la ripartizione di salari e profitti non solo nei campi, ma in tutta quanta la filiera.