Il mondo intero è in recessione
Quella che ci aspetta nei prossimi mesi, dopo l’emergenza sanitaria, sarà una recessione durissima. Molto diversa dalla crisi del 2008, perché quella si manifestò nell’immediato come l’esplosione di una “bolla speculativa”, dopo l’accumulazione di una ingente ricchezza fittizia insostenibile perché senza reale valore, che comportò miliardi di dollari di crediti bruciati nel nulla e una catena di fallimenti, acquisizioni, fusioni, per poi rallentare l’economia reale negli anni successivi, gradualmente e senza ulteriori rotture. Questa, invece, è una crisi che colpisce direttamente l’economia reale interrompendo di netto le catene transnazionali del valore, fa cadere a picco le quotazioni finanziarie e il prezzo del petrolio, blocca interi settori come il turismo, i trasporti, la ristorazione per diversi mesi. Lo shock è triplice: finanziario, dell’offerta e della domanda.
Secondo i dati di Oxfam, il 20% della popolazione deteneva nel 2020 l’equivalente del 70% di una ricchezza complessiva di 9.297 miliardi di euro, contro il 13,3% nelle mani del 60% più povero della popolazione. La crisi lascia presagire tracolli del Pil fino al -10%, tali da divaricare ancora di più la polarizzazione tra ricchi e poveri, nullatenenti e proprietari, sfruttati e sfruttatori.
La crisi sociale alle porte
La pandemia sta distruggendo posti di lavoro con una velocità spaventosa. L’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) è stata la prima a tentare di stimare la portata dell’emergenza sull’occupazione. In un rapporto pubblicato il 18 marzo disegna uno scenario massimo di 24,7 milioni di nuovi disoccupati nel mondo a fine anno.
Per affrontare la crisi in corso massicce immissioni di liquidità sono state previste dalle banche centrali e dalla Bce per sostenere le imprese, mentre il governo italiano ha fornito garanzie per un tetto di 400 miliardi di prestiti. Insufficienti sembrano invece le misure prese in sostegno dei redditi e del lavoro subordinato e autonomo, nulla invece è stato fatto per il lavoro a nero, che coinvolge sfortunatamente milioni di persone in tutta Italia.
Si può essere certi che tutta questa liquidità immessa in circolazione per salvare le imprese aumenterà il debito pubblico degli stati europei, i quali alla fine dell’emergenza sanitaria si ritroveranno a dover gestire una situazione complicata con un’economia che presumibilmente faticherà a ripartire un po’ ovunque a causa della prolungata recessione e la necessità di misure draconiane per contenere il disavanzo pubblico.
Un circolo vizioso che rischia di soffocare i paesi dell’Europa meridionale nei prossimi anni gettandoli in una lunga stagnazione, con il rischio che i costi sociali di questa crisi vengano scaricati ancora una volta sulle fasce più esposte della popolazione.
A cominciare dai 4 milioni di lavoratori saltuari o irregolari nel nostro paese che saranno i più esposti alla crisi per l’assoluta mancanza di tutele. Tra questi, i più giovani se la vedranno peggio di tutti, per la maggiore diffusione di contratti a termine, impieghi saltuari o la proliferazione dei «lavoretti» della gig economy.
La risposta dell’Unione Europea e la posizione dell’Italia
La Commissione europea ha sospeso da qui al prossimo dicembre il vincolo del 3% previsto dal Patto di Stabilità e consentito nello stesso periodo l’intervento diretto dello Stato a tutela delle imprese e dei redditi. La Bce, dal canto suo, ha stanziato un Quantitative easing di 750 miliardi per comprare titoli di stato mediante cui fornire di liquidità alle banche centrali per finanziare la ripresa. Sia chiaro: la Commissione europea ha sospeso il Patto di Stabilità soltanto momentaneamente, il che significa che i soldi spesi dagli Stati, anche con il sostegno della Bce, andranno ad aumentare il debito sovrano, imponendo in futuro misure draconiane per diminuire il deficit.
Intanto qualche giorno fa l’Eurogruppo, che riunisce i Ministri delle finanze degli stati membri, ha trovato una prima, provvisoria, insufficiente piattaforma comune, che prevede tre misure: i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per un totale di 240 miliardi a disposizione degli stati membri da utilizzare senza altre condizionalità se non quella di destinare questi prestiti esclusivamente alle spese sanitarie dirette e indirette; gli aiuti della Banca europea degli investimenti (Bei), che dà garanzie alle banche centrali per erogare fino a 200 miliardi di prestiti dati alle piccole e medie imprese; il sostegno alla cassa integrazione nazionale proposto dalla Commissione europea (chiamato Sure) per 100 miliardi complessivi di prestiti.
Il risultato del vertice è ampiamente insufficiente ad affrontare un disastro economico che produrrà conseguenze gravi per molti anni. Italia e Francia lo sanno, per questo entrambe mantengono una posizione ferma sulla richiesta di creare un fondo finanziato da obbligazioni congiunte per finanziare il rilancio dell’economia. Ovvero dei prestiti a debito comune, per scaricare equamente i costi della crisi su tutti i paesi dell’U.E. L’Eurogruppo cerca una mediazione, ma per il momento getta solo fumo negli occhi: gli stati europei impossibilitati a trovare un accordo prendono tempo, la Germania apre alla possibilità di creare un fondo dedicato alla ricostruzione e al rilancio del post-pandemia, ma tutto resta abbastanza vago per permettere all’Italia di vederci una forma embrionale di Eurobond e agli olandesi e ai tedeschi di escluderli categoricamente. La Francia lo chiama Recovery Fund, l’Italia Coronavirus Bond. Dietro a entrambi c’è il vecchio fantasma degli Eurobond, già chiesti dai paesi dell’Europa meridionale intorno al 2011-2012, durante l’ultima crisi, sempre negati dalla Germania e dagli stati del nord. Ad ogni modo il fondo comune per la ricostruzione previsto dall’Eurogruppo dovrebbe disporre di 500 miliardi di euro. Ma le trattative per stabilire i limiti, le condizioni, i meccanismi legati a questo fondo saranno lunghe, forse diversi mesi.
Il governo italiano con una certa avvedutezza (e impotenza) vorrebbe evitare la catastrofe. Germania, Olanda, Finlandia e Austria, invece, vogliono impedire che i paesi economicamente più instabili scarichino i costi del proprio debito sovrano sulle loro economie, e prediligono la soluzione di un uso flessibile del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). In entrambi i casi siamo di fronte all’assurdità: si lotta per il nulla. Si lotta per chi dovrà pagare il debito, rifiutando l’unica soluzione credibile: per rilanciare l’economia reale ed evitare un impoverimento di massa dei ceti medi e delle classi lavoratrici il debito sovrano non deve essere pagato dagli stati membri, dietro richiesta di una vera solidarietà nazionale ed europea.
La guerra del petrolio e i rischi di conflitti tra potenze mondiali
Al G20 accordo fatto sul taglio globale alla produzione di petrolio: ci stanno persino gli Stati Uniti – sia pure a modo loro – a fianco di Russia, Arabia Saudita e tutti i Paesi dell’Opec Plus. E alla fine ha ceduto anche il Messico, che aveva a lungo puntato i piedi sulla sua partecipazione.
La riunione d’urgenza convocata da Riad ha portato a un risultato davvero storico. Esportatori e importatori di petrolio uniti per salvare un settore che tutti insieme riconoscono come vitale per le sorti dell’economia globale. Il presidente Usa è diventato negli ultimi giorni uno dei maggiori sostenitori nella necessità di un accordo globale per salvare il petrolio. Perché? Nell’ultimo mese il prezzo del petrolio è precipitato fino a toccare i 20 dollari al barile.
La Russia si è rifiutata di accordarsi con i produttori di petrolio dell’Opec su un prezzo stabile di mercato per il petrolio, suscitando la reazione dell’Arabia Saudita che ha dichiarato guerra alla Russia aumentando la produzione a più di 12 milioni di barili al mese, superando la produzione degli USA, e creando una situazione drastica per tutti i produttori: aumentando la produzione ha fatto scendere drasticamente il prezzo del petrolio e aumentare quello delle petroliere su cui sono depositati attualmente 65 milioni di barili invenduti.
Iraq e Nigeria hanno ancora le loro risorse petrolifere bloccate, barili che non riescono a vendere. Da qui ai prossimi mesi alcuni analisti sostengono che il prezzo del petrolio potrebbe scendere sotto lo zero, ovvero i produttori dovrebbero pagare per liberarsi delle riserve invendute per i prezzi di stoccaggio troppo alti, per le petroliere pari attualmente a circa 150 mila dollari al giorno.
I danni maggiori di questa guerra potevano riguardare i produttori statunitensi, già indebitati da anni… perché? Il costo di estrazione dell’olio di scisto in Usa è di 50 dollari al barile contro i 2.80 dollari a barile dell’Arabia Saudita. Non c’è competizione possibile. Già dopo il 2008 i produttori statunitensi si sono indebitati progressivamente: per rispondere alla crisi gli USA hanno dapprima ristrutturato i modi di estrazione e di produzione del petrolio per ridurre i costi, poi hanno aumentato la produzione fino a oltre 11 milioni di barili superando l’Arabia e facendo crescere il valore del proprio petrolio in borsa… si è creata una bolla finanziaria che ora rischia di far fallire molti produttori. Per questo il Governo Usa ha deciso di comprare massicce quantità di petrolio dai suoi produttori, riempiendo la Risorsa Strategica di Petrolio del Governo, che può assorbire circa 77 milioni di barili di sei mesi per un totale di 2.7 miliardi di dollari… ma da qui a sei mesi questa sarebbe una cifra irrisoria secondo alcuni analisti.
Giovedì 9 l’Opec Plus ha concordato (a patto che anche il Messico approvasse) un taglio di produzione di 10 milioni di barili al giorno per due mesi, che si prevede di ritirare gradualmente: da giugno scenderà a 8 milioni, da gennaio 2021 a 6. Arabia Saudita e Russia hanno messo fine alla guerra dei prezzi, accettando di accollarsi la metà dei tagli dell’Opec Plus. Certo, l’accordo è solo momentaneo. Ma è stato preso all’unanimità.
La guerra del petrolio è momentaneamente sospesa, non lo è la competizione tra potenze mondiali che già prima della pandemia si bombardavano contendendosi fette di mercato, risorse energetiche e canali preferenziali di esportazione, accordi e investimenti nei continenti sottoposti a nuovo colonialismo economico: è la nuova Via della Seta made in Cina, è la vecchia Grande America che guarda con rinnovato spirito di conquista al sud del Messico.
“Economia in pillole”: una serie di video divulgativi
Abbiamo chiesto a sei tra economisti ed esperti del settore di produrre altrettanti video per spiegare in cinque minuti ciascuno un argomento di attualità:
- Che cosa sono gli Eurobond?
- Cos’è il MES e perché non è la soluzione?
- Come può essere gestito il debito pubblico?
- In cosa questa crisi economica è diversa dalle precedenti?
- Cosa c’è dietro la guerra del petrolio e cosa sono i conflitti inter-imperialistici?
- Quale possibile programma politico per uscire dalla crisi?
Ne parleremo con Francesco Schettino (Università della Campania), Dario Cositore (Università di Barcellona), Claudio Cozza (Università di Napoli “Parthenope”), Luciano Vasapollo (Università La Sapienza), Emiliano Brancaccio (Università degli studi del Sannio), Gianpiero Laurenzano (Coordinamento nazionale di Potere al popolo).