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[TORINO] Brutta notizia: la nostra distribuzione di Spese Solidali ha superato le 200 persone in una settimana. Fate presto!

La crisi sanitaria e sociale imperversa a Torino ora più che mai. Uno sguardo agli ultimi accadimenti mostra un quadro preoccupante le cui tinte vanno: dalla scandalosa e incontrollata diffusione del virus nelle RSA alla scarsezza di fondi per gli aiuti alle persone con difficoltà economiche; dalla perdurante mancanza di dispositivi di protezione in molti luoghi di lavoro all’arrogante “disinvoltura” con cui le forze di polizia mantengono “l’ordine pubblico” in alcuni quartieri della città.
Oltre quindi alle cause legate “naturalmente” alla diffusione del virus, saltano agli occhi una serie di contraddizioni politiche che, pur non essendo la causa diretta dell’epidemia, forniscono tuttavia un terreno franoso e impervio per poterla affrontare. Per noi come Potere al Popolo Torino si è imposta la necessità, già dalle prime settimane di emergenza, di scoprire e riflettere criticamente su queste contraddizioni, intervenendo anche attivamente per combattere le ingiustizie sociali che esistevano e che oggi riaffiorano con rinnovata violenza.

Dal popolo per il popolo!

Il 12 aprile abbiamo deciso di dare il via ad una raccolta fondi per distribuire pacchi alimentari alle persone in stato di urgente bisogno. Quest’attività è stata in gran parte stimolata dall’evidente insufficienza delle misure prese a livello nazionale e locale per sostenere i nuclei famigliari in difficoltà: non a caso, al numero che fin da inizio emergenza avevamo attivato per consegnare spesa e farmaci a domicilio a chi non poteva uscire di casa, hanno cominciato ad arrivarci numerose chiamate di persone che in realtà ci chiedevano un aiuto economico.
A Torino, negli stessi giorni, i fondi anticipati dal Ministero e destinati ai Buoni Spesa si sono esauriti nel giro di 48 ore, e questo nonostante i criteri stabiliti dalla giunta escludessero gran parte della popolazione più bisognosa, ed anche le altre forme istituzionali di supporto davano evidenti segnali di affanno. Quali sono dunque i dati emersi dalla nostra attività di spesa solidale, a distanza di appena una settimana dal suo inizio?

In una settimana abbiamo consegnato un pacco contenente generi di prima necessità a oltre 50 nuclei famigliari. Si tratta di oltre 212 persone la quasi totalità delle quali è rimasta tagliata fuori o per il momento non ha ancora ricevuto una forma di sostegno dal Comune (buoni spesa o pacchi alimentari). La sacca delle persone escluse è enorme, noi abbiamo sicuramente interagito solo con una piccola parte, e raccoglie proprio quei soggetti, tra i tanti che oggi si trovano in difficoltà, che hanno minori mezzi concreti e risorse sociali per domandare e ottenere aiuto.

Il miglior modo di dire è fare

Un dato significativo che è emerso dalla nostra attività mutualistica è che il perimetro della povertà si sta progressivamente allargando. La crisi sanitaria e la chiusura di molte attività produttive hanno catapultato nell’indigenza coloro che prima tiravano avanti nelle difficoltà, spendendo per vivere tutto ciò che guadagnavano.

Il 70% delle persone a cui abbiamo consegnato il pacco alimentare lavorava fino all’inizio dell’emergenza economica. I settori lavorativi di provenienza sono:

  •  ristorazione: 28%
  • piccole partite iva, ambulanti, mercatari e simili: 14%
  • ditte di pulizia, lavoro di cura, badanti e simili: 12%
  • operai e magazzinieri con contratti precari: 10%
  • artigiani: 2%

Una piccola quota, il 18%, percepisce piccole forme di sussidio (pensione sociale, cassa integrazione, pensione di invalidità, reddito di cittadinanza), ma insufficienti ad arrivare a fine mese.

I quartieri dai quali sono arrivate la maggioranza delle richieste sono in ordine decrescente: Barriera di Milano, Borgo Vittoria, Aurora/Porta Palazzo, Mirafiori, Lingotto e Vallette/Lucento. Da questi quartieri proviene quasi il 90% delle persone prese in carico.

Il 77% delle richieste è arrivata da stranieri e il 23% da italiani. Tra gli stranieri l’11% non ha il permesso di soggiorno. Di tutti quelli che ci hanno chiamato il 15% non ha la residenza, criterio obbligatorio inserito dal Comune per erogare i “Buoni Spesa”.

Questi dati permettono di stilare alcuni profili delle persone con cui siamo entrati in contatto:

  •  chi aveva un lavoro precario ed è stato lasciato a casa senza tanti complimenti (tanti lavoratori della ristorazione, baristi, cuochi o lavapiatti, … ma anche un dipendente di un’azienda di pulizie o di una carrozzeria, un apprendista panettiere…);
  • chi lavorava a nero e quindi ora non può avvalersi di nessun tipo di garanzia (a questo proposito, abbiamo ricevuto telefonate da diverse persone che lavoravano come badanti o collaboratrici domestiche: si tratta di una delle categorie meno tutelate in assoluto dal punto di vista legislativo);
  •  chi aveva una piccola attività, magari appena avviata, (un bar, una kebabberia, un banco al mercato…), chi invece era artigiana, chi idraulico, chi ambulante, chi tagliava i capelli a domicilio…
  • chi si ritrova (per ritardi, errori burocratici o perché vittima di veri e propri raggiri) senza il sostegno che reddito di cittadinanza, cassaintegrazione o altre misure di sostegno al reddito;
  • chi, pur percependo qualche forma di misero sostegno, proprio perché beneficiario di reddito di cittadinanza, piccole pensioni di invalidità o in cassintegrazione, si vede escluso dalle attuali misure di sostegno, perché si presume che con quella precedente misera entrata sia in grado di sostenere una famiglia intera o di far fronte ad improvvise spese mediche.

Come si evince, molte di queste persone lavoravano o “galleggiavano” fino all’inizio dell’emergenza, ma non riuscendo a mettere da parte niente sono state travolte dalla crisi odierna in maniera drammatica. Anche quel 70% che lavorava fino a poche settimane fa, lo faceva in settori caratterizzati da bassi salari, elevata precarietà, presenza rilevante di lavoro grigio/nero: tutte piaghe preesistenti al Covid-19, ma che hanno palesato tutta la loro violenza adesso.

Altre evidenze che saltano all’occhio sono, innanzitutto, una forte componente di persone di origine straniera (almeno i 3/5 del totale), con la richiesta da parte di famiglie italiane che è però in netto aumento negli ultimi due giorni. Su questo dato si possono fare alcune valutazioni:

– la popolazione immigrata, ricoprendo spesso mansioni a bassi salari che bastano a malapena a “galleggiare”, è stata immediatamente travolta dalla mancanza di reddito. Non a caso le chiamate da parte di famiglie italiane, che infatti sono in crescita negli ultimi giorni, esploderanno in una seconda fase, quando probabilmente terminerà anche quell’esiguo “margine” che magari negli anni, grazie anche al sostegno delle reti familiari, erano riuscite a mettere da parte;

– i criteri della giunta comunale escludevano tutti coloro che non avevano la residenza nella nostra città, andando a colpire, oltre a tanti studenti e precari domiciliati temporaneamente a Torino, soprattutto i tantissimi immigrati, con permesso o meno, che risiedono sul nostro territorio.

Questo dato è un’ennesima prova del fatto che le diseguaglianze sociali nel nostro paese scorrono in maniera significativa nel solco dello status giuridico. Basti pensare che la mancanza di permesso di soggiorno circoscrive i diritti di accesso della persona alle sole cure sanitarie urgenti ed essenziali, ma non prevede nulla per altri diritti basilari come vitto e alloggio. Un paese come il nostro, da decenni ostile alla regolarizzazione dei migranti, scopre proprio oggi, con l’emergenza covid, che alcune ombre sul proprio territorio erano in effetti degli esseri umani, alcuni dei quali stavano vivendo da anni, una situazione di deficit di cure, prevenzione e assistenza sanitaria.

La scelta di Torino

Alla luce di questo fatto, un problema gravissimo dei “Buoni Spesa” del Comune di Torino è stato di richiedere la residenza come requisito per l’assegnazione, quindi il possesso o della cittadinanza o di un regolare permesso di soggiorno. L’amministrazione torinese si trova nella scomoda situazione di dover distribuire una “pagnotta” troppo piccola rispetto ai bisogni della sua cittadinanza, ma le sue priorità sono ben evidenti e non hanno niente a che fare con l’accesso al “pane”: bisogna in primo luogo sfoggiare solidità e fermezza nella “bufera”, nonché complicati dispositivi tecnici per il monitoraggio degli acquisti. Sotto la scure di queste priorità cade la popolazione torinese più fragile, irregolare, povera e anche sfruttata, la cui condizione diventa una vera e propria colpa che merita l’esclusione da ogni possibilità di sostentamento immediato. In queste settimane si è molto parlato del dovere di incoraggiare unità nazionale e senso civico. Questa unità pare non riguardare la popolazione migrante, a meno che questa non diventi utile per il lavoro nei campi. In generale comunque ciò che accomuna tutti, lo ribadiamo, è l’essere lavoratori poveri, che siano contrattualizzati, con piccole attività, precari o a nero.

Con tutte le persone che hanno chiamato abbiamo potuto parlare e le abbiamo incoraggiate a raccontarci la loro situazione. Una situazione che per quanto debilitante e travagliata non deve essere un motivo di vergogna, perché nel modo più assoluto e incontrovertibile questa non rappresenta una loro colpa! Bisogna combattere con tutte le nostre forze questa narrazione che, più o meno consapevolmente o ingenuamente, viene perpetuata dall’azione pubblica delle nostre autorità cittadine. Bisogna inoltre inventare già da ora, durante la quarantena, dei metodi nuovi per infrangere l’isolamento sociale e costruire un mondo diverso. Intessere un legame interpersonale per dare un sostegno immediato e magari provare a fornire qualche strumento di emancipazione più a lungo termine è il nostro modo di essere in questa crisi.

Ma ci sono altre importanti considerazioni da fare. Infatti, osservare il Comune di Torino muoversi in risposta all’emergenza economica e sociale non ci dice solo qualcosa sulla sua reattività e sulle sue discutibili scelte odierne. Al contrario, racconta la storia più profonda di come questa città viene governata da ormai più di un ventennio.

Come mai? Bisogna guardare proprio a quello che, a lato dei buoni spesa, è sbandierato come il secondo strumento di intervento istituzionale, ovvero la rete “Torino Solidale”, incaricata della consegna diretta di pacchi alimentari alle famiglie più bisognose. Per svolgere questa attività, il Comune si avvale della collaborazione di una nebulosa multiforme di realtà del terzo settore (onlus, associazioni, volontariato cattolico, Case del quartiere e tutta un’altra serie di piccole cooperative) le quali forniscono, di fatto, quasi tutto ciò che serve: la manodopera e la maggior parte dei fondi.

Anche nell’imperversare dell’emergenza, dunque, osserviamo il Comune muoversi facendo affidamento ai soggetti che negli ultimi anni gli sono stati utili in varie maniere per svolgere tutte quelle funzioni sociali che ormai non è più il pubblico a gestire direttamente. Smarcandosi dalla retorica, ci si accorge che questa tendenza è stata progressivamente incoraggiata in un’esclusiva ottica di risparmio, perché queste cooperative nel svolgere le funzioni sociali beneficiano di consistenti finanziamenti provenienti da fondazioni private, in primis dalla Compagnia di San Paolo. In apparenza sembra non esserci niente di grave, se non che il soggetto pubblico perde sempre di più la regia dei servizi. Quindi, “come è naturale che sia”, anche oggi che bisogna fronteggiare l’emergenza, lo si fa così, appoggiandosi a questa rete che ha certo tanti buoni aspetti, ma che è anche molto “comoda”: il Comune firma un bel memorandum of understanding e via… il problema è delegato a chi meglio di lui sa occuparsi del benessere della comunità.

Per quanto riguarda la distribuzione dei pacchi alimentari, cosa comporta questa delega? Innanzitutto una grande confusione. Il numero della protezione civile che riceve le telefonate è spesso intasato e molte persone ci raccontano che dopo una prima telefonata la loro richiesta è caduta nel vuoto. In un periodo di estrema urgenza, durante il quale le famiglie vedono assottigliarsi di giorno in giorno i fondi messi da parte e, soprattutto, nessuna prospettiva a breve termine di uscirne, questa incertezza è psicologicamente molto pesante! Nonché estremamente grave per l’istituzione pubblica! Bisogna rendersi conto che queste persone hanno pieno diritto ad accedere ai mezzi di sostentamento. Oggi si trovano in difficoltà proprio perché chi ci governa in questi anni ha perseverato a lasciarle precarie, irregolari, fragili e povere. Proprio per questo la nostra responsabilità è di gridare a gran voce contro questa negligenza che oggi si riversa in maniera drammatica sulla parte svantaggiata e abbandonata della nostra società.

In secondo luogo, la delega comporta un’estrema opacità sui criteri secondo cui alcune famiglie vengono aiutate e altre lasciate in attesa di miglior fortuna. Il criterio della residenza, deciso esplicitamente per i Buoni spesa, vale anche per i pacchi alimentari? Da alcuni racconti che abbiamo ascoltato, l’impressione è che possa avere quantomeno un peso, relegando in fondo alla classifica chi non ne dispone. Inoltre, un’altra impressione è che in generale le operatrici e gli operatori della protezione civile, e le/gli assistenti sociali che entrano in contatto con le persone procedano ad una valutazione caso per caso che, se da un lato consente di approcciarsi in maniera specifica ad ogni situazione, dall’altro crea una grande vaghezza e una profonda disomogeneità.

Ma veniamo ad un altro problema fondamentale. Le istituzioni pubbliche a livello locale non stanno propriamente “gestendo l’emergenza”, sarebbe più corretto dire che “si arrabattano” perché i soldi sembrano essere sempre troppo pochi. A Torino, per i pacchi alimentari i trasferimenti comunali sono stati di 880 mila euro e il resto delle risorse (di non si sa esattamente quale entità) proviene in parte dal crowfunding e in parte dalle fondazioni e da qualche altro soggetto privato. Se gli Enti locali si trovano stretti nella morsa del coronavirus da un lato e dei vincoli di bilancio dall’altro, è inspiegabile il motivo per cui, per l’ennesima volta, manchino di coraggio nel prendere decisioni di rottura.

Come evidenziato dalla rete cittadina “Assemblea 21”, gli unici provvedimenti presi in questo senso sono:

  • la sospensione fino alla fine dell’anno del pagamento della quota capitale dei mutui attivi con Cassa Depositi e Prestiti;
  •  il differimento del pagamento quota capitale dei mutui con il MEF in scadenza nel 2020;
  •  la stipula di un accordo quadro tra l’ANCI e le banche UPI ed ABI contenente le linee guida in base alle quali le banche potranno decidere se eventualmente procedere alla sospensione della quota capitale delle rate in scadenza nel 2020 dei mutui erogati in favore degli Enti Locali, con allungamento di un anno del periodo di ammortamento.
    Tutte queste misure sono di una timidezza disarmante. Molto spesso non vi è un vero alleggerimento degli oneri finanziari ma solo un rinvio dei pagamenti a più tardi. Ad una fase successiva in cui, se per caso la parte più fragile della cittadinanza sarà scampata dalla crisi sanitaria, dovrà anche passare nella macchina stritolatrice della recessione economica, con nuove probabili misure di austerità e di tagli ai servizi.

Le Regioni e gli Enti Locali sono le istituzioni che per prime fanno esperienza degli effetti di questa crisi sulla vita delle loro popolazioni. Solo l’ipocrisia o l’ignoranza possono convincerli a non muoversi in direzione di una sospensione immediata e unilaterale dei pagamenti delle quote capitali e degli interessi sui loro mutui, di uno stop netto dei flussi in uscita legati agli strumenti tossici dei contratti di finanza derivata e dell’utilizzo di risorse accantonate nel bilancio per sostenere chi è più in difficoltà. Per capire di cosa stiamo parlando basti pensare che quest’anno il Comune sborserà alle banche quasi 16 milioni di euro in interessi sulle spericolate operazioni di finanza derivata dei decenni passati: 16 MILIONI di interessi pagati alle banche a fronte di 0,88 MILIONI di fondi per i buoni spesa.

Su cosa si regge Torino?

Vogliamo concludere questo testo per dire con forza due cose:

  1. Torino si regge su una enorme quantità di lavoratori poveri. Una città che si sostiene con le poche entrate di lavoratori informali, famiglie numerose ma monoreddito, lavoratori poveri, precari e sfruttati.
    Questa emergenza economica, appena iniziata, ha messo in luce come siano deboli i sostegni economici che permettono a tante famiglie di arrivare a stento a fine mese e di come ormai gli ultimi anni abbiano completamente annullato le forme di paracadute sociale o economico.
    La maggior parte dei pacchi alimentari sono stati portati a persone che si spaccano la schiena sul posto di lavoro e nonostante questo non possono mettere nulla da parte!
  2. C’è la necessità che tanto a livello locale che a livello nazionale si mettano in campo forme di redistribuzione della ricchezza e di sostegno alle fasce della popolazione che si stanno via via ingrossando di nuovi poveri. Dopo anni e anni di crisi è sempre più evidente che il problema non è che non ci sono i soldi ma che non è più sostenibile un modello di città, di Regione e di Paese nel quale la ricchezza viene accentrata in pochissime mani lasciando “alla fame” chi lavora.

Concretamente:

a) chiediamo che nella nostra città si mettano in campo tutte le misure necessarie per il sostegno alle fasce più colpite dall’emergenza economica, a partire dal rifiuto dei vincoli di bilancio comunale e alla radicale messa in discussione del sistema di mutui e debiti che ha caratterizzato il funzionamento di Torino;

b) l’emergenza in atto sta rendendo evidente – in ogni settore, a partire dalla sanità – come l’esternalizzazione e la privatizzazione dei servizi sociali essenziali da parte del Comune di Torino sia totalmente inadatta a gestire ed accogliere le richieste che innervano i quartieri della nostra città. La rete “Torino Solidale” messa in campo è la prova concreta di come si sia cercato frettolosamente di porre rimedio a una gestione dei servizi sociali completamente frammentata e dipendente dagli attori del terzo settore. È necessario che la gestione dei servizi sociali sia concretamente gestita direttamente dal Comune di Torino.
La distribuzione “a macchia di leopardo” dei pacchi alimentari è l’ultimo esempio di questa necessità.

c) il principio di trasparenza ci impone di chiedere con forza che siano chiariti i requisiti di accesso alle misure di sostegno messe in campo dal Comune. La quantità di fondi accumulati anche attraverso le donazioni private e la gestione di tali fondi da parte del Comune senza che siano chiari le modalità di concreto accesso a tali diritti e servizi, rende pressante l’ingiunzione della controllabilità e conoscibilità dell’operato della pubblica amministrazione. Vogliamo sapere quali siano i fondi complessivi, quanti pacchi siano stati distribuiti ed a chi, se ci siano requisiti di accesso e/o graduatori. Ci sembra ad esempio assurdo che i richiedenti siano obbligati a venire presi in carico dai servizi sociali per il solo fatto di essere momentaneamente indigenti: questa richiesta spesso spaventa le persone e non può essere un requisito per ricevere il pacco alimentare. In generale pretendiamo assoluta trasparenza per evitare che si ripetano gli arbitri e le ingiustizie già vissute con l’erogazione diretta dei “Buoni Spesa”, il cui criterio sulla residenza è stato appena dichiarato illegittimo dalla ordinanza di un magistrato romano.

d) I vincoli di bilancio, a qualunque livello amministrativo siano posti, non possono impedire che si dia immediato aiuto a queste persone in difficoltà: per questo pretendiamo che si mettano immediatamente in campo a livello nazionale forme di sostegno ai redditi, anche attraverso misure di redistribuzione della ricchezza e di imposizione di una tassazione fortemente progressiva che attinga risorse dall’enorme (ma concentrata in pochissime mani) ricchezza privata italiana.

Fate presto, perché noi non abbiamo più tempo per aspettare!

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