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LE STANZE DELLA MISSIONE DIPLOMATICA DEVONO ESSERE INVIOLABILI

Viviamo in tempi disonesti, in cui le certezze sono crollate e la cattiveria si aggira per il paesaggio. C’è Gaza, naturalmente. Prima di tutto ci sta Gaza nei nostri pensieri. Dal 7 ottobre, oltre 33.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele e più di 7.000 persone sono scomparse (di cui 5.000 bambini). Il governo israeliano ha brutalmente ignorato l’opinione pubblica mondiale che gli si è scagliata contro. Miliardi di persone sono indignate dalla loro crudele violenza, eppure non riusciamo a imporre un cessate il fuoco a un esercito che ha deciso di radere al suolo un intero popolo. I governi del Nord del mondo parlano da due lati della bocca: frasi banali di preoccupazione per alleviare le loro popolazioni scoraggiate, e poi veti alle Nazioni Unite e invio di armi all’esercito israeliano. È questo atteggiamento bifronte che rafforza la fiducia di persone come il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e ne consente l’impunità.

La stessa impunità ha permesso a Israele di violare la Carta delle Nazioni Unite (1945) e la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961) il 1° aprile 2024, quando ha bombardato l’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria, uccidendo sedici persone, tra cui alti ufficiali militari iraniani. Questa impunità è contagiosa e si diffonde tra i leader che si sentono incoraggiati dall’arroganza di Washington. Tra questi c’è il presidente dell’Ecuador Daniel Noboa, che il 5 aprile ha inviato le sue forze paramilitari nell’ambasciata messicana a Quito per sequestrare l’ex vicepresidente del Paese Jorge Glas, a cui le autorità messicane avevano concesso asilo politico. Il governo di Noboa, come quello di Netanyahu, ha messo da parte la lunga storia di rispetto internazionale delle relazioni diplomatiche senza curarsi delle pericolose implicazioni di questo tipo di azioni. Tra i leader come Netanyahu e Noboa c’è la sensazione di poter farla franca perché protetti dal Nord globale, che comunque la fa franca su tutto.

Le usanze diplomatiche risalgono a centinaia di migliaia di anni fa e attraversano culture e continenti. Gli antichi testi scritti da Zhuang Zhou in Cina e dal suo contemporaneo in India, Kautilya, nel IV secolo a.C., stabiliscono i termini per le relazioni onorevoli tra gli Stati attraverso i loro emissari. Questi termini compaiono in quasi tutte le regioni del mondo, con testimonianze di conflitti che sfociano in accordi che prevedono lo scambio di rappresentanti per mantenere la pace. Queste idee provenienti dal mondo antico, compreso il diritto romano, hanno influenzato i primi scrittori europei di diritto internazionale consuetudinario: Hugo Grotius (1583-1645), Cornelis van Bijnkershoek (1673-1743) ed Emer de Vattel (1714-1767). È stata questa comprensione globale della necessità della cortesia diplomatica a formare l’idea dell’immunità diplomatica.

Nel 1952, il governo della Jugoslavia propose alla Commissione di diritto internazionale (ILC), istituita dalle Nazioni Unite, di codificare le relazioni diplomatiche. Per assistere l’ILC, l’ONU nominò relatore speciale Emil Sandström, un avvocato svedese che aveva presieduto il Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (1947). L’ILC, con l’assistenza di Sandström, redasse degli articoli sulle relazioni diplomatiche, che furono studiati ed emendati dagli 81 Stati membri dell’ONU. Nel 1961, durante una riunione di un mese a Vienna, tutti gli Stati membri parteciparono alla Convenzione sulle relazioni diplomatiche. Tra i 61 Stati firmatari vi erano l’Ecuador e Israele, oltre agli Stati Uniti. Tutti e tre i Paesi sono quindi tra gli Stati fondatori della Convenzione di Vienna del 1961.

L’articolo 22.1 della Convenzione di Vienna recita: “Le stanze della missione sono inviolabili. Senza il consenso del capomissione, è vietato agli agenti dello Stato accreditatario accedere alle stesse”.

Durante un briefing al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul recente attacco di Israele all’ambasciata iraniana in Siria, il vice ambasciatore cinese Geng Shuang ha ricordato ai suoi colleghi che 25 anni fa, il bombardamento della Jugoslavia da parte della NATO guidata dagli Stati Uniti ha provocato un attacco all’ambasciata cinese a Belgrado. All’epoca, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton si scusò per l’attacco, definendolo un “evento isolato e tragico”. Non sono arrivate scuse simili da Israele o dall’Ecuador per le loro violazioni alle ambasciate iraniana e messicana. Geng Shuang ha dichiarato alla Camera: “La linea rossa del diritto internazionale e le norme fondamentali delle relazioni internazionali sono state violate più volte. E anche la linea di fondo morale della coscienza umana è stata urtata più volte”. Durante il briefing, l’ambasciatore dell’Ecuador José De la Gasca ha condannato l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco. “Nulla giustifica questo tipo di attacchi”, ha dichiarato. Pochi giorni dopo, il suo governo ha violato la Convenzione di Vienna del 1961 e la Convenzione sull’asilo diplomatico dell’Organizzazione degli Stati Americani del 1954 arrestando Jorge Glas nell’ambasciata messicana, un atto che è stato prontamente condannato dal Segretario generale delle Nazioni Unite.

Queste violazioni delle protezioni delle ambasciate non sono nuove. Ci sono molti esempi di gruppi radicali – di destra e di sinistra – che hanno attaccato le ambasciate per esprimere un punto di vista politico. Tra questi, la presa di controllo dell’ambasciata statunitense a Teheran nel 1979, quando alcuni studenti tennero in ostaggio 53 membri del personale per 444 giorni. Ma ci sono anche diversi esempi di governi che sono entrati con la forza nei locali delle ambasciate straniere, come nel 1985, quando il regime sudafricano dell’apartheid inviò le sue forze all’ambasciata olandese per arrestare un cittadino olandese che aveva aiutato l’African National Congress (ANC) e nel 1989, quando l’esercito statunitense invasore perquisì la residenza dell’ambasciatore del Nicaragua a Panama City. Nessuno di questi interventi è passato senza sanzioni e senza la richiesta di scuse. Né Israele né l’Ecuador, tuttavia, entrambi firmatari della Convenzione di Vienna del 1961, hanno fatto alcun gesto di scuse. Né l’Iran né la Siria hanno relazioni diplomatiche con Israele e il Messico ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Ecuador sulla scia dei recenti eventi.

La violenza attraversa il mondo come una nuova pandemia, non solo a Gaza, ma anche in questo conflitto in corso in Ecuador e nella bruttezza delle guerre nella Repubblica Democratica del Congo orientale, in Sudan e nella continua situazione di stallo in Ucraina. La guerra spezza lo spirito umano, ma invoca anche un enorme istinto a scendere in piazza per impedire che venga premuto il grilletto. Sempre più spesso, questo grande sentimento contro la guerra si scontra con l’ira dei poteri che arrestano chi s’impegna per la pace e li trattano – e non i mercanti di morte – come criminali.

L’Iran ha una gloriosa tradizione poetica che risale ad Abu Abdallah Rudaki (858-941) e poi risplende nel Diwan di Khwaja Shams al-Din Muhammad Hafiz Shirazi (1320-1390), che ci ha regalato questo amaro pensiero: nel mondo di polvere non brilla nessun essere umano; è necessario costruire un altro mondo, fare un nuovo Adamo.

In questa tradizione poetica persiana si inserisce Garous Abdolmalekian (nato nel 1980), le cui poesie sono sature di guerra e del suo impatto. Ma, anche tra i proiettili e i carri armati, c’è un forte desiderio di pace e amore, come nel suo Poema per la quiete (2020):

Mescola il tè con una canna di fucile
Risolve il puzzle con una canna di fucile
Gratta i suoi pensieri con una canna di fucile

E a volte
si siede di fronte a se stesso
e tira fuori i ricordi dei proiettili
dal suo cervello

Ha combattuto in molte guerre
ma non è all’altezza della sua stessa disperazione

Queste pillole bianche
lo hanno reso così incolore
che la sua ombra deve alzarsi
per prendergli l’acqua

Dovremmo accettare
che nessun soldato
è mai tornato
dalla guerra
vivo

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della quindicesima newsletter (2024) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

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