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Sulle elezioni in Emilia Romagna

Proviamo a dire la nostra, facendo qualche ragionamento sui dati, anche se a leggere giornali e social pare che l’ondata di emotività non sia ancora passata.

In Emilia Romagna non ha vinto la sinistra e non ha perso la destra. Certamente Salvini ha subito una battuta d’arresto, anche a causa della candidatura impresentabile della Borgonzoni, ma la Lega e Fratelli d’Italia non solo confermano i voti che il centrodestra ha sempre preso nei suoi momenti migliori, ma li radicalizzano a destra (con Forza Italia che ne esce distrutta), riuscendo comunque ad egemonizzare i temi della campagna elettorale.

Anche il dato dell’astensione deve far riflettere: nonostante l’esposizione mediatica incredibile di questa tornata regionale, vista come “la madre di tutte le battaglie”, si registra una delle partecipazioni più basse di sempre, il 67,6%, per una regione in cui fino a poco tempo fa votavano tutti.

Ma soprattutto in Emilia-Romagna non ha vinto la sinistra.

Ha vinto Bonaccini, che è il rappresentante di un sistema corporativo e clientelare di un PD che governa la Regione da sempre, e che è riuscito ancora una volta ad assicurare voti. Un sistema, come quello delle cooperative, che sfrutta duramente manodopera migrante e giovanile, che sulla riviera romagnola impiega lavoro nero, che inquina il territorio e specula sul cemento.

Ha vinto un sistema politico-mediatico che ha giocato sulla paura, ha creato le Sardine, le ha sbattute tutti i giorni in TV e su Repubblica, il principale quotidiano del paese, ed è riuscito a produrre un effetto di galvanizzazione che ha dato al PD quell’“anima” di cui aveva bisogno per vincere.

Hanno vinto il maggioritario e il bipolarismo, ovvero il sistema meno democratico possibile, con i 5 Stelle (clamoroso il loro tonfo, dal 27,5% delle politiche al 3,5% di ora) e tutte le forze a sinistra del PD che sono state fatte a pezzi dal “voto utile” e dal “voto disgiunto”. Se per vincere basta un voto in più del proprio avversario, ecco che tutti i candidati che non sono i primi due vengono immediatamente depotenziati come “altri”. Ancora di più laddove il distacco tra i primi due si preannuncia ridotto. Ancora di più in una campagna elettorale trasformata in un referendum su fascismo e “antifascismo” nella regione antifascista per eccellenza.

Di fatto è questo l’unico effetto che le Sardine hanno prodotto. Non hanno, dentro la componente del centrosinistra, nemmeno dato maggiore forza alla sua parte “sinistra”. La lista di Elly Schlein, ex PD, molto visibile mediaticamente, ha preso il 3,7%, praticamente gli stessi voti della SEL di 5 anni fa, nonostante avesse inglobato Possibile, associazioni, centri sociali e altre reti di base della sinistra. Anche i temi ecologici non hanno avuto alcun impatto.

Insomma, siamo in presenza di un “ritorno alla normalità”: il campo elettorale si chiude intorno a due schieramenti neoliberisti che variano solo per qualche sfumatura tematica e per le cordate di potere che li sostengono, con PD e Lega che assorbono in totale il 66% dei voti, oltre 2 votanti su 3.

Dal nostro punto di vista, che è innanzitutto quello di giovani, precari, lavoratori, emigranti, c’è ben poco da gioire. Salvini è stato sconfitto, ma il problema è solo rinviato. E soprattutto, nessun progetto di sinistra è in grado di rappresentare le classi popolari è all’orizzonte.

Se questo accade nella regione “rossa” per eccellenza… figuratevi cosa può accadere nel resto d’Italia con le altre regionali (basti guardare la Calabria)!

Veniamo a noi, ovvero alla sinistra che si richiama apertamente alle lotte, al socialismo, al comunismo. Qui lo scenario è sconfortante. Non c’è tragedia da fare, perché questo trend va avanti da anni ormai. Ma il voto non fa che certificare una dura realtà, che riguarda non Potere al Popolo o qualche altro partito, ma tutti quelli che si oppongono al capitalismo.

La sinistra anticapitalista, in tutte le sue forme, non esiste. Esistono lotte settoriali, o locali, e comunque molto meno che in passato. Esiste un lavoro territoriale di alcune associazioni o collettivi, e comunque meno che in passato. Quello che però sicuramente non esiste è la rappresentanza mediatica e politica di certe idee.

Anche movimenti più grossi e trasversali nei contenuti – pensiamo a quello che ha portato milioni di giovani in piazza per la giustizia climatica – riescono con fatica a produrre conflitto e a sedimentare processi organizzativi che vadano al di là della spinta e della risonanza che l’apparato mediatico produce.

Quello che non esiste per le masse, sia a livello di movimenti che di partiti, è un orizzonte che rimetta al centro la possibilità della trasformazione complessiva di questa società, rendendola un’opzione pensabile e percorribile.

Noi ci abbiamo provato in ogni modo. Avevamo una candidata giovane e preparata, un programma serio e concreto, abbiamo fatto una bella campagna elettorale, siamo stati nelle periferie, nelle fabbriche. Non potevamo umanamente fare di più.

Certo, le elezioni regionali sono le più difficili per noi. Si tratta di competizioni in cui non si beneficia né del voto d’opinione, tutto d’orientamento politico, che caratterizza le elezioni politiche nazionali, né tantomeno del lavoro di prossimità che premia chi è più presente sui territori nelle amministrative.
Inoltre ci presentavamo in sole 5 province su 9, a causa di una legge elettorale che impone una quantità spropositata di firme da raccogliere, già di per sé escludente per le forze più giovani e meno strutturate.
Così come è chiaro che la sproporzione di mezzi economici e mediatici conta eccome, e siamo stati penalizzati dal “voto utile” e dal “voto disgiunto”.

Ma nella sostanza sarebbe cambiato poco. Il vero nodo è un altro ed è politico. Come far sì che le classi popolari di questo paese si possano autorappresentare, possano superare l’accettazione rassegnata, l’accontentarsi del “meno peggio”, il rifugio pragmatico in chi pensano possa “risolvergli il problema”, ed entrare autonomamente sulla scena.

Non è un problema semplice, non ci sono scorciatoie. Non basta trovare un leader (la cui costruzione, com’è evidente oggi, richiede una preliminare accettazione da parte del sistema mediatico). Non è nemmeno questione di semplice “unità” fra le liste alternative, che porterebbe comunque all’1%. Non è nemmeno risolvibile con la formula “tornare alle lotte”, perché in quelle lotte ci siamo ogni giorno.

È probabilmente un insieme di fattori soggettivi e oggettivi. C’è da crescere soprattutto nel radicamento territoriale, nell’esempio concreto, nella rete di Case del Popolo, nell’essere ancora più presenti nei conflitti sociali. C’è da crescere nelle competenze, nel programma, nella capacità di comunicazione. C’è da formare una generazione.

E c’è da sperare che le contraddizioni di questo paese, che da anni vengano rinviate o occultate, arrivino finalmente al pettine, mettendo migliaia di persone di fronte a una scelta vera sulle loro vite.

Noi due anni fa abbiamo iniziato questo lavoro. Abbiamo bisogno di darci tempo, di migliorarlo. Intanto abbiamo usato le elezioni per rafforzare i legami con le lotte di questa regione, per aggregare nuove persone. E da oggi continueremo a combattere in Emilia Romagna contro il Partito Trasversale degli Affari.

Grazie a tutte le 8048 persone che hanno scelto di sostenerci!
Una lunga marcia inizia sempre con piccoli passi.

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