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[Indonesia] Chi sono i traditori?

Di questi tempi tutta la nostra attenzione è giustamente dedicata alla pandemia che stiamo vivendo e ai suoi effetti, presenti e futuri: tutto il resto sembra essere congelato, scivola sullo sfondo e viene relegato alle ultime pagine dei giornali. Il mondo, tuttavia, continua a muoversi: la Terra gira intorno al Sole, l’inverno lascia spazio alla primavera e gli stati continuano a processare i loro nemici, veri o presunti che siano.

L’abbiamo visto il 17 marzo, con l’Italia già pienamente confinata, quando il Tribunale di Torino ha decretato che Maria Edgarda Marcucci (Eddi) doveva essere considerata “socialmente pericolosa”, e dunque essere sottoposta a misure di “sorveglianza speciale” – una sorveglianza molto simile al confino impiegato dal fascismo – in virtù della sua militanza politica, spesa tra l’Italia e il Kurdistan.

Ora lo vediamo all’altro capo del pianeta, in Indonesia. Anche lì, infatti, mentre milioni di persone affrontano il virus, il lockdown e le conseguenze di entrambi, si attende l’esito di un importante processo politico: dopo 8 mesi di carcere – di cui 73 giorni in isolamento, in una cella senza finestre e con musica patriottica a tutto volume giorno e notte – venerdì 24 aprile Surya Anta saprà se è colpevole di tradimento nei confronti della nazione indonesiana. Insieme a lui sono Dano Tabuni, Charles Kossay, Ambrosius Mulait, Isay Wenda e Arina Elopere, tutti arrestati tra la fine di agosto e l’inizio di settembre dell’anno scorso e tutti con lo stesso capo d’accusa. Surya è un noto militante dei movimenti sociali indonesiani, tra i coordinatori del People’s Liberation Party (Partai Pembebasan Rakyat) e portavoce dell’Indonesian People’s Front for West Papua – e proprio l’ultima è la qualifica più importante per capire la sua situazione.

West Papua è l’espressione con cui ci si riferisce alle due province più orientali dello sterminato territorio indonesiano: siamo appena sotto l’Equatore, e parliamo di una regione grande più dell’Italia e che occupa metà dell’isola della Nuova Guinea. Dopo essere stata colonia olandese per oltre un secolo, negli anni ’60 è stata annessa dall’Indonesia (a sua volta ex-colonia olandese) e occupata militarmente. Da allora è in corso quello che alcuni osservatori internazionali hanno definito un “genocidio in slow-motion”, portato avanti dalle forze armate indonesiane, le quali agiscono anche come una sorta di milizia privata per difendere gli interessi della multinazionale mineraria americana Freeport-McMoran: oltre il 25% del suo fatturato, infatti, dipende dallo sfruttamento della miniera d’oro più grande del mondo e del secondo giacimento di rame del pianeta, presenti sull’isola. Stretta tra occupazione militare, subordinazione politica e devastazione ambientale, la popolazione però resiste da decenni e lotta per ottenere l’indipendenza, supportata da un movimento internazionale di cui fanno parte anche gruppi indonesiani – tra i quali quello di cui Surya è il portavoce.

Ad agosto del 2019 la tensione latente è esplosa di nuovo, quando è diventato virale un video in cui si vede la polizia indonesiana fare irruzione a colpi di lacrimogeno in un dormitorio universitario a Surabaya, seconda città del paese, per punire un gruppo di studenti papuani che pare abbiano oltraggiato la bandiera della nazione gettandola per terra, per giunta il giorno in cui si celebra l’indipendenza dall’Olanda (17 agosto). La polizia chiama gli studenti “scimmie”, “maiali”, “animali”, mostrando in piena luce tutto il razzismo che accompagna l’occupazione e scatenando settimane di proteste, decine di morti a West Papua e manifestazioni, scontri e arresti in tutta l’Indonesia. Il 31 agosto, a Jakarta, dopo una pacifica manifestazione in supporto a West Papua è stato arrestato Surya Anta e negli stessi giorni anche i cinque compagni che stanno affrontando il processo con lui; Surya è l’unico indonesiano del gruppo, nonché il primo non-papuano a essere processato con l’imputazione di makar (tradimento, sedizione, ribellione) – già nel 2016 si era attirato le ire del governo, scusandosi pubblicamente per la repressione a cui i papuani sono sottoposti da parte delle autorità indonesiane e chiamando a un referendum per decidere finalmente l’indipendenza della regione, ovvero ciò che gli abitanti chiedono da cinquant’anni e che le autorità indonesiane, in tutte le loro forme, da cinquant’anni negano.

La sua vicenda, poi, oltre a essere esemplare in sé, ci fornisce una chiave di lettura della situazione complessiva nel quarto paese più popoloso al mondo (nonché più grande paese musulmano), di cui spesso, lontano com’è, rischiamo di dimenticarci. Il 19 dicembre, in una delle udienze del processo, Surya ha provocatoriamente chiesto alla corte: “siamo nell’epoca del colonialismo, in quella del fascismo, del Nuovo Ordine di Suharto, o viviamo nella Reformasi?”. Reformasi è l’espressione con cui si indica il movimento che ha portato alla caduta del generale Suharto – il dittatore salito alla guida del paese dopo aver sterminato oltre un milione di comunisti tra il 1965 e il 1966 e rimastovi fino al 1998 – e, per estensione, anche il periodo successivo, fino ai giorni nostri. Al regime di Suharto è da attribuire l’occupazione di West Papua, in aggiunta al corredo di nefandezze che negli stessi anni avremmo visto, ad esempio, in Cile: la svendita del paese agli interessi delle multinazionali straniere, la negazione dei diritti dei lavoratori, la persecuzione di qualsiasi movimento di sinistra. Reformasi è quindi il termine che dopo il 1998 ha incarnato la speranza che a un trentennio di dominazione potesse seguire un periodo di maggior giustizia sociale e di effettiva democrazia, in cui il popolo potesse realmente decidere del suo destino e avere la capacità di incidere sulla sua vita, cambiandone le condizioni in meglio. In realtà – come dimostra anche la vicenda di Surya – poco sembra essere cambiato: l’Indonesia è diventata formalmente una democrazia, certo, ma gli esponenti di molti partiti sono riconducibili al blocco di potere dell’epoca precedente, all’esercito o alla destra religiosa dell’Islam più conservatore – senza contare che non una parola è stata spesa sui massacri del 1965-66, i cui esecutori hanno goduto fino ad oggi di una completa impunità.

Uno sguardo alle evoluzioni più recenti della politica indonesiana ci restituisce plasticamente questa situazione. Nel corso degli ultimi mesi, infatti, i due esponenti di punta della vita pubblica del paese hanno compiuto qualcosa di inedito: Joko Widodo, all’esordio del suo secondo mandato da presidente, ha accolto nel governo Prabowo Subianto, suo principale avversario alle ultime elezioni, come ministro della Difesa. Vale a dire che la destra economica (Widodo è un imprenditore) ha accolto nel suo seno la destra militare-religiosa (Prabowo è un ex-generale, genero di Suharto, la cui candidatura è stata spalleggiata da gruppi islamisti radicali), ricomponendo la classe dirigente del paese intorno a quello che è sempre stato il suo obiettivo – la prosecuzione del proprio dominio, l’accaparramento di ricchezze, la negazione di qualsiasi tipo di giustizia sociale – e dimostrando che le tensioni e la contrapposizione che hanno animato la campagna elettorale erano solo una farsa. Ora i due stanno lavorando a braccetto a un pacchetto di legge noto come Omnibus, che nelle intenzioni dovrebbe attirare nel paese investitori dall’estero. Se scorriamo le oltre mille pagine del testo, però, ci troviamo tutto quello che anche in occidente di solito si cela sotto queste belle parole, e che non a caso ha portato le principali centrali sindacali indonesiane a scendere in piazza tra gennaio e febbraio: ridurre o eliminare le indennità di licenziamento dei lavoratori, ridurre o eliminare i permessi e i congedi pagati, ampliare le possibilità di licenziamento ed eliminare la possibilità di appello dei lavoratori coinvolti, rendere più “flessibile” l’orario di lavoro, ridurre i permessi ambientali e edilizi necessari all’avvio di un’impresa, calcolare i salari minimi su base territoriale ed eliminarli per alcuni settori (con il rischio di creare vere e proprie “zone economiche speciali”). Adesso, in Indonesia come in larga parte del mondo, tutto è sospeso per l’arrivo del coronavirus, comprese le proteste: ma è molto probabile che quando tutto si scongelerà, anche le ultime credenziali di Widodo si scioglieranno come neve al sole. Nel 2014, quando fu eletto per la prima volta, il presidente si presentava come riformatore, uomo vicino al popolo, colui che avrebbe fatto gli interessi della gente comune e della giovane democrazia indonesiana. Con la stessa narrazione ha vinto nuovamente nel 2019, favorito dalla farsesca contrapposizione con la destra di Prabowo, certo più sgradevole a vedersi. Ma tanta gente ha smesso di crederci, a partire dagli abitanti di West Papua, che inizialmente avevano riposto molte speranze in lui e che ad agosto hanno avuto la conferma che nulla è cambiato. Come loro gli studenti, che a settembre del 2019 hanno manifestato in decine di migliaia – pagando un caro prezzo: almeno due morti e cinquecento feriti – contro il tentativo di porre sotto controllo governativo l’autorità preposta a lottare contro la corruzione e di criminalizzare i rapporti sessuali prematrimoniali, limitare il diritto di aborto e reintrodurre il crimine di “offesa al presidente”. Ora anche i lavoratori vedono cadere ogni maschera, e la vera contrapposizione diviene visibile in piena luce: non quella tra una destra e l’altra, ma quella tra il popolo con tutte le sue anime – donne, studenti, lavoratori, minoranze – e chi gli nega il potere.

Come nel caso di Eddi Marcucci, a noi più familiare, ci siamo chiesti chi fosse, in realtà, a dover essere considerato “socialmente pericoloso”, se la donna che protesta contro una guerra e chi la finanzia o i giudici che condannano questa donna, così ora ci domandiamo: chi è il traditore, e cos’è la nazione che viene tradita?

 

In questa situazione la lotta e il destino di Surya e dei suoi compagni diventano ancora più importanti, poiché rappresentano uno dei fronti – certo uno dei più avanzati – su cui si sta giocando la lotta per la giustizia sociale in Indonesia. Aspettiamo la sentenza di venerdì 24, sapendo che, comunque andrà, la nostra solidarietà ai “sei di Jakarta” non verrà meno!

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