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[CUNEO] GRANDA, LA PROVINCIA CHE TRAINA LA CRESCITA (E LO SFRUTTAMENTO)

Cuneo è una provincia che economicamente cresce in modo piuttosto costante. Nella Granda, i problemi che affliggono l’Italia come la stagnazione economica e l’elevata disoccupazione, in teoria, non esistono o sono molto ridotti. Praticamente tutti i giornali locali si spendono nella narrazione delle virtù del nostro micromondo economico: i problemi sono altri, come l’identificazione di “Fleximan” o le ultime sulla situazione Balocco – Ferragni.

Esiste però altro. Questa crescita non si genera dal nulla.Giacomo (nome di fantasia) è un lavoratore regolarmente immigrato, che da diversi anni lavora in un’azienda manifatturiera locale posseduta e amministrata da un imprenditore italiano, la classica PMI. Lo stipendio è basso, lo pagano in parte in nero, in quasi venti anni di lavoro non gli hanno mai conferito i dispositivi di protezione individuale. Nonostante ciò, non si lamenta. Arriva la sua famiglia dal suo Paese di origine: chiede più spesso di poter usufruire delle ferie a cui – in teoria – ha diritto. Gliele rifiutano. Chiede almeno di poter evitare gli straordinari, che dovrebbero essere sempre volontari, ma lo sa, “questo mese c’è tanto da produrre, tanto da fare”. L’imprenditore, indispettito quindi dalle assurde pretese, inventa un escamotage per licenziarlo, accusandolo tramite lettera di richiamo di aggressione fisica (dopo aver chiamato la polizia che, pur non avendo assistito ai fatti denunciati dal datore, decide cautelativamente di mandarlo a casa). Giacomo ha una fedina penale immacolata, più di dieci anni all’attivo nell’impresa. Deciderà di rivolgersi ad un sindacato, nonostante – lo sanno tutti i lavoratori della sua impresa – questo spesso significhi licenziamento alla prima occasione utile.

Il grado di tutela dei diritti del lavoratore all’interno di questa fabbrica è pessimo: poco tempo prima, un altro lavoratore immigrato subisce un infortunio grave (si rompe i legamenti del ginocchio in seguito alla caduta su un bancale). DPI ovviamente non pervenuti. Viene curato in ospedale ma, nonostante le perplessità dei medici che intuiscono l’infortunio lavorativo, afferma che l’incidente non è avvenuto al lavoro, per il terrore di perdere il posto. Per non infastidire i datori, rientra prima che il recupero fisico sia completato, zoppicando vistosamente in un ambiente lavorativo tutt’altro che sicuro. Altri lavoratori decidono di denunciare l’infortunio: è il caso di Michele (nome di fantasia) un lavoratore di una cooperativa che collabora con una grande impresa. Michele si infortuna gravemente cadendo da una scala (trauma cranico e toracico, lussazione della spalla) ma viene costretto dai suoi capi a non chiamare l’ambulanza: fortunatamente, un operaio assunto dalla grande impresa, capendo la situazione di Michele, riesce a chiamare i soccorsi. Michele, il quale, a lavoro in corso, aveva denunciato più volte la pericolosità dell’ambiente ai capi, starà in ospedale per circa un mese e mezzo, segnalando ai sanitari la situazione in cui è avvenuto l’infortunio. L’indagine da qui derivante dimostrerà la violazione di diverse norme relative al conferimento e all’uso dei DPI da parte della cooperativa. A termine del rapporto di lavoro, il contratto di Michele non viene rinnovato. Da agosto l’INAIL ha deciso che l’infortunio doveva chiudere, nonostante il parere contrario degli ortopedici al ritorno all’attività lavorativa. Ad oggi, Michele non ha un reddito.

Ora, che ci crediate o meno, questi non sono neanche gli esempi peggiori che riguardano la realtà lavorativa cuneese. Esiste la questione dei braccianti agricoli, accennata da alcuni giornali online (v. Wired, Il caporalato nell’agricoltura del nord Italia è un problema sempre più grave, 16/4/2022), ma decisamente poco approfondita. Ci sono senzatetto che sono braccianti stagionali, ma vengono pagati talmente poco da non potersi permettere un affitto (e verranno sistematicamente cacciati dalle zone più gentrificate delle nostre cittadine pensando così di rimuovere il problema, si veda il caso di corso Giolitti). Frequentemente lo spaccio viene visto come l’unica alternativa per restare a galla. Per altri, che magari grazie alla famiglia possiedono delle reti di salvataggio, si apre la strada della precarietà: la conta dei soldi per arrivare a fine mese, la speranza che il contratto a termine venga esteso, o se è in nero che “mi continui a tenere”, sempre con il rischio neanche troppo remoto di finire per strada.

Quando un lavoratore, italiano o immigrato che sia, rifiuta di denunciare un infortunio o la lesione dei suoi diritti per paura di perdere il posto, ha davanti anche questi possibili scenari. Qualsiasi reale tutela del diritto del lavoratore non può che essere una farsa, fintanto che queste situazioni restano possibili.

Bisogna agire, organizzarsi. Bisogna cambiare questa realtà.

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