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QUANDO SOFFRI PER LA TUA SALUTE MENTALE E LOTTI PER LIBERARTI

Nel 1930, Clément Fraisse (1901-1980), un pastore della regione francese della Lozère, fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico dopo aver tentato di incendiare la fattoria dei suoi genitori. Per due anni fu tenuto in una cella buia e stretta. Usando un cucchiaio, e poi il manico del suo vaso da notte, Fraisse incise immagini simmetriche nelle pareti di legno grezzo che lo circondavano. Nonostante le condizioni disumane in questi ospedali psichiatrici, Fraisse ha realizzato bellissime opere d’arte nell’oscurità della sua cella. Non lontano dalla Lozère si trova il monastero di Saint Paul de Mausole a Saint-Rémy-de-Provence, dove Vincent van Gogh era stato confinato quattro decenni prima (1889-1890) e dove completò circa 150 dipinti, tra cui diverse opere importanti (tra cui La notte stellata, 1889).

Pensavo sia a Fraisse che a Van Gogh quando ho visitato quello che era stato l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) di Napoli (Italia) a settembre per un festival che si svolgeva in questo ex manicomio criminale, che un tempo ospitava persone che avevano commesso reati gravi ed erano considerate pazze. Il vasto edificio, che si trova nel cuore di Napoli sul Monte di Sant’Eframo, fu prima un monastero (1573-1859), poi una caserma militare per il regime sabaudo durante l’unificazione dell’Italia nel 1861, e poi una prigione istituita dal regime fascista negli anni ’20. Il carcere è stato chiuso nel 2008 e poi, nel 2015, occupato da un gruppo di persone che in seguito avrebbero dato vita all’organizzazione politica Potere al Popolo!. Queste hanno ribattezzato l’edificio “Ex OPG – Je so’ pazzo”, ‘ex’ significa che l’edificio non è più un manicomio, e Je so’ pazzo si riferisce alla canzone preferita dell’amato cantante locale Pino Daniele (1955-2015), morto nel periodo in cui l’edificio veniva occupato:

Je so’pazzo, je so’ pazzo.
C’ho il popolo che mi aspetta.

Nella vita voglio vivere almeno un giorno da leone.

Oggi, l’Ex OPG è sede di sportelli legali e medici, una palestra, un teatro e un bar. È un luogo di riflessione, un centro popolare che ha lo scopo di costruire comunità e affrontare la solitudine e la precarietà del capitalismo. Si tratta di un’istituzione rara nel nostro mondo, in cui una società esausta è sempre più isolata e dove le persone, rinchiuse in una prigione di aspirazioni frustrate, sperano comunque di usare i loro miseri strumenti (un cucchiaio, il manico di un vaso da notte) per ritagliarsi i loro sogni e raggiungere il cielo stellato.

Persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non dispone di dati sufficienti sulla salute mentale, in gran parte perché le nazioni più povere non sono in grado di mantenere un resoconto accurato degli immensi problemi psicologici delle loro popolazioni. Di conseguenza, l’attenzione è spesso limitata ai paesi più ricchi, dove tali dati sono raccolti dai governi e dove c’è un maggiore accesso alle cure psichiatriche e ai farmaci. Un recente sondaggio condotto su trentuno paesi (per lo più in Europa e Nord America, ma anche in alcune nazioni più povere come Brasile, India e Sud Africa) mostra un cambiamento di atteggiamento e una maggiore preoccupazione per la salute mentale. Il sondaggio ha rilevato che il 45% delle persone intervistate ha selezionato la salute mentale come uno dei “maggiori problemi di salute che le persone devono affrontare oggi nel [loro] paese”, un aumento significativo rispetto al sondaggio precedente, condotto nel 2018, in cui la cifra era del 27%. Al terzo posto nella lista delle sfide per la salute c’è lo stress, con il 31% che lo sceglie come principale causa di preoccupazione. C’è un significativo divario di genere negli atteggiamenti nei confronti della salute mentale tra le persone giovani, con il 55% delle giovani donne che la sceglie come una delle principali preoccupazioni per la salute, rispetto al 37% dei giovani uomini (riflettendo il fatto che le donne sono colpite in modo sproporzionato da problemi di salute mentale).

Se è vero che la pandemia di COVID-19 ha aggravato i problemi di salute mentale in tutto il mondo, questa crisi è precedente al coronavirus. Le informazioni del Global Health Data Exchange mostrano che nel 2019 – prima della pandemia – una persona su otto, ovvero 970 milioni, in tutto il mondo aveva un disturbo mentale, con 301 milioni di persone che lottavano con l’ansia e 280 milioni con la depressione. Questi numeri dovrebbero essere visti come una stima, un quadro minimo della grave crisi di infelicità e disadattamento all’ordine sociale presente.

Ci sono una serie di disturbi che vanno sotto il nome di “disturbo mentale”, dalla schizofrenia alle forme di depressione che possono portare all’ideazione suicidaria. Secondo il rapporto 2022 dell’OMS, un adulto su 200 lotta con la schizofrenia, il che si traduce in media in una riduzione dell’aspettativa di vita da dieci a vent’anni. Nel frattempo, il suicidio, la principale causa di morte tra le persone giovani a livello globale, è responsabile di un decesso su 100 (si tenga presente che solo un tentativo su venti si traduce in un decesso). Possiamo fare nuove tabelle, rivedere i nostri calcoli e scrivere rapporti più lunghi, ma niente di tutto ciò può placare il profondo abbandono sociale che pervade il nostro mondo.

Trascurare non è nemmeno la parola corretta. L’atteggiamento prevalente nei confronti dei disturbi mentali è quello di trattarli come problemi biologici che richiedono semplicemente cure farmaceutiche personalizzate. Anche se dovessimo accettare questo quadro concettuale limitato, esso richiede comunque che i governi sostengano la formazione degli psichiatri, rendano i farmaci convenienti e accessibili per la popolazione e incorporino il trattamento della salute mentale nel più ampio sistema sanitario. Tuttavia, nel 2022, l’OMS ha rilevato che, in media, i paesi spendono solo il 2% dei loro bilanci sanitari per la salute mentale. L’organizzazione ha anche scoperto che metà della popolazione mondiale – per lo più nelle nazioni più povere – vive in circostanze in cui c’è uno psichiatra per 200.000 o più persone. Questo è lo stato delle cose mentre assistiamo a un declino generale dei bilanci per l’assistenza sanitaria e a una carente formazione sulla necessità di un atteggiamento generoso nei confronti dei problemi di salute mentale. I dati più recenti dell’OMS (dicembre 2023), che coprono l’impennata della spesa sanitaria legata alla pandemia, mostrano che, nel 2021, la spesa sanitaria nella maggior parte dei paesi è stata inferiore al 5% del prodotto interno lordo. Nel frattempo, nel suo rapporto del 2024 Un mondo di debiti, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) mostra che quasi cento paesi hanno speso di più per onorare i propri debiti che per l’assistenza sanitaria. Sebbene queste siano statistiche inquietanti, non arrivano al cuore del problema.

Nel corso dell’ultimo secolo, la risposta ai disturbi di salute mentale è stata prevalentemente individualizzata, con trattamenti che vanno da varie forme di terapia alla prescrizione di diversi farmaci. Parte del fallimento nell’affrontare la gamma di crisi della salute mentale – dalla depressione alla schizofrenia – è stato il rifiuto di accettare che questi problemi non sono solo influenzati da fattori biologici, ma possono essere – e spesso sono – creati ed esacerbati dalle strutture sociali. La dottoressa Joanna Moncrieff, una delle fondatrici del Critical Psychiatry Network, scrive che “nessuna delle situazioni che chiamiamo disturbi mentali è stata dimostrata in modo convincente derivare da una malattia biologica”, o più precisamente, “da una specifica disfunzione di processi fisiologici o biochimici”. Questo non vuol dire che la biologia non abbia un ruolo, ma semplicemente che non è l’unico fattore che dovrebbe plasmare la nostra comprensione di tali disturbi.

Nel suo classico La società sana di mente (1955), Erich Fromm (1900-1980) si basò sulle intuizioni di Karl Marx per sviluppare una lettura precisa del panorama psicologico in un sistema capitalista. Le sue intuizioni meritano di essere riconsiderate (perdonate l’uso da parte di Fromm dell’uso maschile della parola ‘uomo’ e del pronome ‘suo’ per riferirsi a tutta l’umanità):

Il fatto che l’individuo sia sano o meno non è in primo luogo una questione individuale, ma dipende dalla struttura della sua società. Una società sana promuove la capacità dell’uomo di amare i suoi simili, di lavorare in modo creativo, di sviluppare la sua ragione e la sua oggettività, di avere un senso di sé che si basa sull’esperienza delle proprie forze produttive. Una società malsana è quella che crea ostilità reciproche, diffidenze, che trasforma l’uomo in uno strumento di utilità e di sfruttamento per gli altri, che lo priva del senso di sé, se non nella misura in cui si sottomette agli altri o diventa un automa. La società può avere entrambe le funzioni; può favorire il sano sviluppo dell’uomo e può ostacolarlo; In realtà, la maggior parte delle società fa entrambe le cose, e la domanda è solo fino a che punto e in quali direzioni viene esercitata la loro influenza positiva e negativa.

L’antidoto a molte delle nostre crisi di salute mentale deve venire dalla ricostruzione della società e dalla formazione di una cultura della comunità piuttosto che di una cultura dell’antagonismo e della tossicità. Immaginate se costruissimo città con più centri sociali, più luoghi come l’Ex OPG – Je so’ pazzo a Napoli, più luoghi in cui i giovani possano riunirsi e costruire connessioni sociali e la loro personalità e fiducia. Immaginate se spendessimo più risorse per insegnare alla gente a suonare e a organizzare giochi sportivi, a leggere e scrivere poesie e a organizzare attività socialmente produttive nei nostri quartieri. Questi centri comunitari potrebbero ospitare cliniche mediche, programmi per le persone giovani, assistenti sociali e terapistə. Immaginate le feste che tali centri potrebbero promuovere, la musica e l’allegria, il dinamismo di eventi come il Red Books Day. Immaginate le attività – la pittura murale, la pulizia dei quartieri e la piantumazione di giardini – che potrebbero emergere man mano che questi centri incubano le conversazioni sul tipo di mondo che le persone vogliono costruire. In realtà, non abbiamo bisogno di immaginare nulla di tutto questo: è già con noi nei piccoli gesti, che sia a Napoli o a Delhi, a Johannesburg o a Santiago.

“La depressione è noiosa, credo”, scriveva la poetessa Anne Sexton (1928-1974). “Farei meglio a fare un po’ di zuppa e illuminare la grotta”. Quindi prepariamo la zuppa in un centro comunitario, prendiamo chitarre e bacchette, balliamo e balliamo e balliamo fino a quando non arriverà a tutti e tutte l’irrefrenabile desiderio di unirsi alla guarigione della nostra umanità spezzata.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della trentanovesima newsletter (2024) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

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