Traduciamo e pubblichiamo un articolo di Ilan Pappé, storico israeliano di fama internazionale, apparso per la prima volta lo scorso 21 giugno 2024 su sidecar di New Left Review.
Pappé ricostruisce, da profondo conoscitore della politica e della cultura della società israeliana, gli elementi che in questo momento testimoniano una malessere e un fermento profondi nello Stato d’Israele.
La crisi economica dell’entità sionista è conclamata, aggravata dall’enorme investimento – a lungo termine difficilmente sostenibile – per le spese militari e palesata dalla dipendenza assoluta in termini di risorse finanziarie e militari dall’alleato USA.
Non solo: Israele è attraversato da profonde tensioni tra i membri della stessa comunità ebrea israeliana, nella quale si fronteggiano due diverse visioni di Stato e di società, una più apertamente suprematista, nazionalista, reazionaria; l’altra più moderata ma ugualmente escludente nei confronti degli arabi e dei palestinesi.
Conflittualità interna alle classi dominanti, resistenza e ripresa di protagonismo del popolo palestinese, perdita di consenso e reputazione internazionale ai minimi storici per i vertici sionisti: il 7 ottobre ha palesato e velocizzato fattori di crisi – materiale, ideologica, politica – del progetto coloniale sionista che erano già in essere e covavano da tempo nella società israeliana.
Saranno il protagonismo delle giovani generazioni – di quelle ebree che in questi mesi hanno trovato il coraggio di “staccarsi” e ribellarsi allo Stato ebraico, e, soprattutto dei giovani palestinesi sui quali Pappé si sofferma – e la ricomposizione che riusciranno a produrre tra le classi oppresse e sfruttate, ad aprire, per i popoli che vivono la regione, la possibilità futura di una Palestina finalmente libera e decolonizzata.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe avevano già iniziato a manifestarsi, ma ora sono evidenti nelle sue stesse fondamenta. A più di 120 anni dal suo inizio, il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico in un Paese arabo, musulmano e mediorientale – si trova di fronte alla prospettiva di un crollo? Storicamente, il crollo di uno Stato può dipendere da molteplici fattori. Può essere la conseguenza di costanti attacchi da parte dei Paesi vicini o di una cronica guerra civile; oppure può dipendere dal collasso delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che accelera e poi, in breve tempo, fa collassare strutture che un tempo sembravano essere solide e incrollabili.
La difficoltà sta nell’individuare i primi segni. In questo articolo sosterrò che nel caso di Israele questi sono più chiari che mai. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, al suo esordio – che probabilmente culminerà nel tracollo del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perchè, quando Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una violenza feroce e senza freni per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.
1.
Un primo indicatore di questa crisi è la spaccatura della società ebraica israeliana, attualmente composta da due fronti rivali che non riescono a trovare punti in comune. La rottura nasce dalle anomalie nell’aver definito l’ebraismo come nazionalismo. Sebbene l’identità ebraica in Israele a volte sia sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta per la definizione del carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Una lotta che non si combatte solo sul terreno dei media e dell’informazione, ma anche nelle strade.
Uno dei due fronti può essere definito “Stato di Israele”. Comprende gli ebrei più laici, liberali e per lo più, ma non esclusivamente, della classe media europea e i loro discendenti, che sono stati essenziali nella creazione dello Stato nel 1948 e che sono rimasti egemoni fino alla fine del secolo scorso. Ma non facciamoci trarre in inganno: la loro difesa dei “valori democratici liberali” non intacca la loro adesione al sistema di apartheid imposto, in vari modi, a tutti i palestinesi tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista da cui gli arabi sono esclusi.
L’altro campo è lo “Stato di Giudea” che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode di un sempre maggior consenso all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha garantito la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza nelle alte sfere dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato di Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia estesa su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo, è determinato a ridurre al minimo indispensabile il numero di palestinesi e sta considerando il progetto di costruire un Terzo Tempio al posto della moschea di al-Aqsa. I suoi membri ritengono che ciò consentirà loro di restaurare l’epoca d’oro dei regni biblici. Per i membri dello Stato di Giudea gli ebrei laici, se si rifiutano di unirsi al loro sforzo, sono eretici quanto i palestinesi.
I due fronti avevano iniziato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Durante le prime settimane dopo l’assalto sembravano aver messo da parte le loro differenze per far fronte unico contro il nemico comune. Ma si trattava di un’illusione. Gli scontri si sono riaccesi ed è difficile capire cosa potrà eventualmente portare a una loro riconciliazione. L’esito più probabile si sta già concretizzando sotto i nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, che rappresentano lo Stato di Israele da ottobre hanno lasciato il Paese, un segnale che il paese sta per essere travolto dallo Stato di Giudea. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo.
2.
Il secondo segno è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche nel bel mezzo di continui conflitti armati; inoltre dipende sempre più dagli aiuti finanziari statunitensi. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora, la ripresa è fragile. È improbabile che la promessa di 14 miliardi di dollari da parte di Washington possa invertire questa tendenza. Al contrario, le pressioni economiche non potranno che peggiorare se Israele intensificherà la guerra contro Hezbollah in Libano e l’attività militare in Cisgiordania, proprio in un momento in cui alcuni Paesi – tra cui la Turchia e la Colombia – hanno iniziato ad applicare sanzioni economiche.
La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich che drena costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma che, per il resto, sembra incapace di gestire il suo dipartimento. Intanto, il conflitto tra lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta spingendo parte dell’élite economica e finanziaria a spostare i propri capitali fuori da Israele. Coloro che stanno considerando di trasferire i loro investimenti costituiscono una parte significativa di quel 20% di israeliani che paga l’80% delle tasse.
3.
Il terzo elemento da considerare è il crescente isolamento internazionale di Israele, che diventa gradualmente uno “Stato paria”. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ne sono un riflesso le prese di posizioni, senza precedenti, della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale. In passato, il movimento globale di solidarietà con la Palestina è stato in grado di stimolare le persone e farle partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a far avanzare la prospettiva di sanzioni internazionali. Tra i membri dell’establishment politico ed economico della maggior parte dei Paesi, il sostegno a Israele non è cambiato.
In questo contesto, le recenti decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale – cioè che Israele potrebbe esser colpevole di un genocidio, che deve fermare la sua offensiva a Rafah, che i suoi leader devono essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di dare ascolto alle posizioni maturate in seno alla società civile globalmente e non di dar seguito, semplicemente, all’opinione delle élite. I tribunali non hanno frenato gli attacchi brutali contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania, ma hanno contribuito alle crescenti critiche rivolte allo Stato israeliano, sempre più spesso provenienti dall’alto oltre che dal basso.
4.
Il quarto segnale, strettamente collegato al terzo, è il cambio di rotta tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi, molti sembrano ora disposti a tagliare il loro legame con Israele e il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà con la Palestina. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo garantivano a Israele un’efficace immunità dalle critiche. La perdita, almeno parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la reputazione globale del Paese. L’American Israeli Public Affairs Committee (AIPAC) può ancora contare sui sionisti cristiani per fornire assistenza e rimpolpare le fila dei suoi membri, ma non sarà più la stessa temibile organizzazione senza una significativa componente ebraica. Il potere della lobby si sta consumando.
5.
Il quinto fattore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza militare potente, che ha a disposizione armi all’avanguardia. Tuttavia, i suoi limiti sono stati messi a nudo il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato, poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito a un assalto coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di dipendere disperatamente da una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco a sorpresa in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni e missili balistici e guidati. Il progetto sionista è legato più che mai alla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli statunitensi senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud del Paese.
La percezione dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi è ormai diffusa tra la popolazione ebraica del Paese. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarli in massa. Il loro coinvolgimento militare non modificherà di molto l’assetto sul campo di battaglia, ma è sintomatico della portata di dubbi e pessimismo che riguardano l’esercito e che, a loro volta, hanno approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.
6.
L’ultimo indicatore, infine, è il rinnovato fervore tra le giovani generazioni palestinesi. Questi sono molto più uniti, organicamente connessi e chiari sulle loro prospettive rispetto alla classe politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo, questa nuova generazione avrà un’influenza immensa sull’andamento della lotta di liberazione. Le discussioni in corso tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che essi hanno a cuore l’istituzione di un’organizzazione realmente democratica – un’OLP rinnovata o completamente nuova – che persegua una visione di emancipazione antitetica alla campagna per il riconoscimento dello Stato palestinese portata avanti dell’Autorità Palestinese. I giovani sembrano preferire la soluzione di un solo Stato al modello dei due Stati ormai screditato.
Saranno in grado di dare una risposta efficace al declino del sionismo? È una domanda a cui è difficile rispondere. Al collasso di un progetto statuale non sempre segue un’alternativa migliore. Altrove in Medio Oriente – in Siria, in Libia e nello Yemen – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere processi come questo. In questo caso, si tratterebbe di una decolonizzazione, e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà post-coloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può indirizzarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, un intreccio esplosivo di questi fattori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando accadrà, dovremo sperare che un forte movimento di liberazione sia in grado di riempire il vuoto.
Per oltre 56 anni, quello che è stato definito “processo di pace” – un processo che non ha portato a nulla – è coinciso in realtà con una serie di iniziative israelo-statunitensi alle quali i palestinesi sono stati chiamati a reagire. Oggi la “pace” deve essere sostituita dalla decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione della regione, alla quale gli israeliani dovranno reagire. Sarebbe la prima volta, almeno da molti decenni, che il movimento palestinese assumerebbe la guida nell’esposizione delle proprie proposte per una Palestina post-coloniale e non sionista (o quel che sarà il nome della nuova entità). Nel farlo, guarderà probabilmente all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale dove gruppi religiosi secolarizzati si sono gradualmente trasformati in gruppi etno-culturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.
Che le persone accettino l’idea o la temano, il crollo di Israele è ormai prevedibile. Questa possibilità dovrebbe modellare il dialogo a lungo termine sul futuro della regione. Verrà inserita nell’agenda quando ci si renderà conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico in un Paese arabo sta lentamente volgendo al termine. Il successo è stato tale da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ormai di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con violenza la loro volontà su milioni di indigeni che non hanno mai rinunciato a lottare per l’autodeterminazione e la libertà della loro terra. Nei prossimi decenni i coloni dovranno abbandonare questo approccio e dimostrare la loro volontà a vivere come cittadini uguali in una Palestina liberata e decolonizzata.