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[TORINO] CARCERI ISRAELIANE E PRIGIONIERE E PRIGIONIERI POLITICI: STRUMENTI DI REPRESSIONE DEL PROGETTO COLONIALE SIONISTA

17 aprile h 18.30 in Casa del Popolo Estella, Via Martinetto 5h, Torino

Il 17 aprile ricorre la Giornata di solidarietà con i prigionieri palestinesi, una occasione per confrontarci e continuare a portare alla luce il ruolo delle carceri israeliane, della detenzione amministrativa, delle torture e dei maltrattamenti inflitti quotidianamente dalla polizia e dall’esercito israeliano al popolo palestinese, da oltre 75 anni, quali strumento di repressione ed elemento imprescindibile del suo progetto coloniale sionista.

Più di 8000 persone, tra uomini, donne e bambini palestinesi, attualmente presenti nelle carceri israeliane, ci dà il senso della misura, mostrandoci in maniera netta e chiara come la detenzione sia la quotidianità per ogni palestinese, sia che l’abbia vissuta personalmente sia che abbia, o abbia avuto, almeno un amico o un familiare in carcere; e questo avviene non dal 7 ottobre scorso: Israele uccide, imprigiona e tortura, con violenze fisiche e psicologiche, da oltre 75 anni uomini, donne e bambini palestinesi .

Non abbiamo alcuna contezza invece del numero di prigionieri nella Striscia di Gaza degli ultimi 6 mesi.

Come denuncia un rapporto del 2023 di Save the Children, sono tra i 500 e i 1000 i minori della Cisgiordania presenti nelle carceri israeliane e Israele è l’unico paese al mondo che fa processare i minori da tribunali militari. Tanti di loro sono accusati di “lancio di pietre” e rischiano fino a 20 anni di carcere. Molti altri bambini invece sono rinchiusi insieme alle loro madri in carcere.

Le violenze nelle carceri israeliane sono portate avanti anche sulle donne: le testimonianze delle violenze che le donne palestinesi denunciano da decenni, nelle carceri e fuori, ad opera dello stato di Israele sono innumerevoli . E’ di febbraio 2024 il rapporto Onu che porta alla luce quanto gli stupri e le aggressioni si siano ancora ulteriormente intensificate dallo scorso ottobre.

E anche quando non fisicamente nelle carceri israeliane, il popolo palestinese vive in quella che può essere considerata la più grande prigione al mondo (per riprendere il titolo di un noto libro dello storico Ilan Pappè, The Biggest Prison on Earth): checkpoint e controlli all’ingresso e all’uscita anche per recarsi a lavoro, territori assediati da muri, filo spinato e colonie sempre più aggressive che sottraggono i territori e sfruttando anche le risorse primarie.

Il progetto di pulizia etnica che va avanti da oltre 75 anni e che si configura come un genocidio che sta avvenendo proprio sotto ai nostri occhi, viene portato avanti anche attraverso politiche di apartheid, che si concretizzano anche in trattamenti giuridici differenziati; il che rende ogni palestinese detenuto, un prigioniero politico.

Far parte della resistenza palestinese è per i palestinesi imprescindibile, sia che essa si declini in resistenza armata, sia che si agisca attraverso forme di resistenza non violenta, sia per il solo fatto naturale di esistere, di essere nati su quel territorio e per tale motivo essere considerati un ostacolo al processo di colonizzazione ed espropriazione israeliano.

Come spiega magistralmente la psichiatra psicoterapeuta Samah Jabr nel suo libro “Dietro i fronti”, la resistenza è uno strumento fondamentale per chi vive sotto occupazione.

Non è un caso che spesso chi viene arrestato resta detenuto ad oltranza senza neppure conoscere i motivi del suo arresto: è la c.d. detenzione amministrativa, che consente l’arresto senza che vengano specificati ai detenuti e ai loro avvocati i motivi della misura. Tale fenomeno coinvolge migliaia di persone e ne abbiamo potuto cogliere più direttamente gli effetti nella vicenda che ha visto coinvolto Khaled El Qaisi, studente italo-palestinese, trattenuto per mesi nelle carceri israeliane senza neppure conoscere i capi d’accusa .

Negli scorsi mesi, il paese in cui viviamo, è stato anche protagonista di un’altra vicenda emblematica che riguarda il tema del carcere e la repressione della resistenza palestinese. Il 29 gennaio 2024 le autorità italiane hanno arrestato all’Aquila Anan Yaeesh, palestinese residente in Italia, per il quale il governo israeliano ha avanzato all’Italia la richiesta di estradizione.

Le accuse nei confronti di Anan sono da subito apparse fumose; ciononostante, il Ministro Nordio ha deciso di firmare un arresto preventivo. Anan è accusato di finanziare la Brigata Tulkarem, gruppo di Resistenza armata nato nel campo profughi di Tulkarem in Cisgiordania, attivo contro le incursioni dei militari israeliani. Il 13 marzo scorso, la Corte di Appello di L’Aquila ha emesso una sentenza all’interno della quale si può chiaramente leggere che Anan è inestradabile perché in Israele c’è il rischio che subisca trattamenti “crudeli, disumani o degradanti” in quanto cittadino palestinese, con ciò mettendo in evidenza atti di tortura e condizioni disumane che caratterizzano le carceri israeliane. È evidente che tale processo è squisitamente politico e mira a reprimere e criminalizzare la resistenza palestinese come richiesto dallo stato d’Israele. Un diritto alla resistenza sostenuto anche dall’ONU. Con gli stessi capi di imputazione, oltre ad Anan, sono stati imprigionati nelle carceri italiane anche Ali e Mansour.

È molto importante continuare ad esprimere solidarietà al popolo palestinese ma è anche fondamentale prendere una posizione politica chiara e netta contro Israele e contro i governi occidentali complici di oltre 75 anni di apartheid e del genocidio in corso che abbiamo sotto ai nostri occhi.

Abbiamo deciso all’interno del contesto del genocidio in atto a Gaza, di occuparci anche di carcere e repressione perché pensiamo che sia utile per approfondire lo sguardo su come da decenni lo Stato di Israele usa indiscriminatamente tutte le armi a disposizione, da quelle più direttamente militari e repressive a quelle amministrative e coercitive per occupare , perseguitare e annullare la vita stessa di una intera popolazione.

Ne parliamo con:
Sami Hallac – Unione Democratica Arabo Palestinese (UDAP)
Anwar – Qumi – Collettivo femminista arabo-palestinese
Avv. Flavio Rossi Albertini – Comitato Free Anan
Cecilia Pusineri e Stefania Piras – Psicologia per la Palestina

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