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Studenti Zero: perché le scuole chiuse in Campania (non) sono un caso

L’ordinanza n.86 del 30/10/2020 con cui De Luca richiude le scuole dell’infanzia non era, purtroppo, inaspettata.

Benché si preveda un termine – 14 Novembre – le scuole sono chiuse di fatto a tempo indeterminato. Manca anche il residuo rispetto per esigenze di programmazione didattica che vorrebbero certezze sui tempi piuttosto che ordinanze settimanali.

Abbiamo sottolineato più volte come la Campania sia stata una triste e vergognosa eccezione, in tal senso, in Europa (anche se forse ha solo precorso i tempi). Come mai?

Proviamo a dare qualche risposta con questo contributo.

In occasione della prima ondata, l’Italia anticipò di un paio di settimane gli altri paesi europei nella crescita dei contagi.

La chiusura delle scuole fu un provvedimento adottato, in seguito, anche da Spagna, Portogallo, Irlanda e Francia (che le ha poi riaperte prima della fine dell’anno scolastico).

All’arrivo della seconda ondata, l’orientamento degli Stati europei sulla scuola è stato unanime: finché sarà possibile, le scuole dovranno rimanere aperte.

Lo stesso Governo italiano ha fatto propria questa linea, con maggiori difficoltà, sia per il gioco delle parti con le Regioni, esito barbaro della riforma del Titolo V della Costituzione, sia per l’inconsistenza dei provvedimenti presi per mettere in sicurezza le scuole, che comunque, nonostante il (quasi) nulla fatto, sono, ad oggi, uno dei luoghi più sicuri.

Dietro la scelta di tenere le scuole aperte fino all’ultimo ci sono ragioni molto concrete.

Conta certamente il fatto che, con le misure adottate più o meno ovunque – mascherine, distanziamento, contingentamento, controllo temperatura – le scuole diventano luoghi più sicuri di altri a costi relativamente bassi.

Conta anche il fatto che, specialmente laddove esiste già un presidio sanitario nelle scuole, queste diventano delle utili “sentinelle” per l’intercettazione dei focolai.

La ragione principale, però, è un’altra. Le scuole aperte garantiscono la possibilità di mantenere il più possibile aperte le attività produttive. Possono restare aperti anche tutti quei servizi pubblici che non possono essere erogati “a distanza”.

Per paesi che devono, in questo momento, barcamenarsi tra l’esigenza di contenere la pandemia e quella di evitare il tracollo completo di economie già pesantemente indebolite, investire anche poco sull’apertura delle scuole significa effettuare un risparmio derivante dalle mancate spese per attività chiuse, casse integrazioni, congedi parentali straordinari e quant’altro.

Vuol dire, inoltre, ridurre almeno in parte l’inevitabile tensione sociale legata alle difficoltà di una nuova chiusura. Davanti a questo indubbio vantaggio anche l’effettiva “contagiosità” delle scuole diventa un elemento secondario.

Non a caso i dati forniti, relativamente a questo aspetto, mantengono un carattere di forte parzialità ed aleatorietà. Del resto sappiamo quanto sia tecnicamente difficile – in società non contingentate – sapere con esattezza dove sia avvenuto un contagio.

Questa è stata – finora – la scelta comunemente seguita dai principali paesi europei, Italia compresa. Come mai la Campania, con De Luca, ha seguito una strada diversa?

Non è un esercizio inutile spiegare questa differenza con la psicologia del personaggio.

Vincenzo De Luca, da classico bullo, prova una particolare soddisfazione a prendersela con le categorie più deboli.

Non a caso, a fronte dei toni di fuoco delle dirette, dello sguardo da duro e delle tac sventolate come cimelio, lo sceriffo campano non abbia poi chiuso davvero nemmeno mezzo saloon, ma, appunto, solo le scuole, insultando – per soperchieria – mamme e bambini, proprio come ci si aspetta da un personaggio gretto, vigliacco e sessista quale lui, ahinoi, è.

Ma l’aspetto principale, purtroppo, è un altro.

Una generale indifferenza ha accolto i provvedimenti di chiusura delle scuole, i parziali passi indietro sulla fascia 0-6 fino ad una nuovo stop che si presagisce a lungo termine.

Certo, ci sono state proteste anche accese ed inaspettate, e inoltre chi vive la scuola sa il malcontento con cui questa nuova sospensione è stata accolta.

Ma parliamo di un’insofferenza che di certo non si è espressa nelle forme e nei numeri delle “piazze dei commercianti”. Quelle piazze hanno fatto fare al presidente un passo indietro sul minacciato lockdown regionale a meno di 24 ore dal suo annuncio.

Nessuna grossa protesta, nessuna telefonata di attori economici importanti come puntualmente avviene quando De Luca annuncia di voler chiudere attività come bar, ristoranti o altro.

Le aule scolastiche campane sono piombate in un tragico silenzio, uniche in Europa, quasi senza trovare resistenza. Come mai?

La chiusura delle scuole ha conseguenze economiche enormi in società in cui il mondo del lavoro è altamente evoluto. Parliamo di tassi di occupazione generale e femminile elevati, lavoro precario, nero, grigio a livelli marginali, settori economici ad alto valore aggiunto.

Di converso, laddove il tasso di occupazione è basso e quello di occupazione femminile trascurabile, e dove impera il lavoro senza diritti e senza tutele, la chiusura delle scuole fa meno notizia di una porta che sbatte.
Mentre il tasso di occupazione medio in Italia si aggira(va) intorno al 60% nel 2019 (fonte: elaborazione del Sole 24 Ore su dati ISTAT e MEF), quello medio campano era di circa 20 punti inferiore, con punte negative del 35% in comuni come Castelvetere (BN) o Castelvolturno (CE), col 37% circa.

Nel secondo trimestre 2020, vigente il blocco dei licenziamenti, il tasso di occupazione in Campania era del 39,8%, a fronte del 57,5% nazionale.

Il divario tra Italia e Campania prende una consistenza ancora più drammatica se si guarda al tasso di occupazione femminile.

A fronte del 48,4% italiano (in Europa nel 2019 era al 67,3%, fonte Eurostat), la Campania fa registrare, nel secondo trimestre 2020, un drammatico 28,3%.

Per dirla breve, meno di una donna su tre, in Campania, lavora.

È utile chiarire i criteri utilizzati dall’ISTAT per definire una persona “occupata”.

E’ sufficiente che abbia lavorato almeno un’ora nella settimana della rilevazione, anche non retribuita se l’impresa è di un familiare.

Per lavoro non si intende “rapporto di lavoro”, con contratto etc, ma qualunque attività che preveda un corrispettivo in denaro o in natura.

È purtroppo immaginabile, dunque, che dentro quelle percentuali ci siano fette consistenti di lavoro nero, grigio, sottopagato. Del resto la possibilità di avere un lavoro stabile, contrattualizzato e regolare aumenta quanto più è elevato il titolo di studio posseduto.

Un figlio dottore

L’Italia conta circa due laureati su dieci nell’insieme della popolazione attiva, e nell’UE a 27, la cui media è circa il 40%, a fare peggio è solo la Romania.

In Campania, con 625.000 laureati su circa 5.800.000 abitanti, la percentuale scende all’11%, uno su dieci.

Dei 625.000, poco più della metà sono donne.

In sintesi, la Campania conta una donna laureata – e quindi con maggiori possibilità di trovare un lavoro regolare – ogni venti abitanti.

Forse anche meno, se consideriamo il forte tasso di emigrazione proprio tra i laureati campani, che vanno a cercare lavoro altrove. Ma attestiamoci sul dato ufficiale e applichiamolo a quello precedente, sull’occupazione. Il combinato dei due dati ci dice che, di quel 28,3% che lavora, pochissime hanno un lavoro stabile.

Desertificazione industriale

Un’indagine IRES-CGIL dello scorso Gennaio 2020 – prima del Covid, quindi – stimava in circa 21.000 i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazione aziendale (chiusure, licenziamenti, cig).

Benché la Campania resti la regione più industrializzata del Meridione, gli ultimi anni hanno visto entrare in forte crisi il settore metalmeccanico a partire dalle produzioni di punta (Alenia, Dema, Whirlpool). Anche l’agroalimentare, altra “punta di diamante” dell’industria regionale, non naviga in buone acque, portandosi dietro tutte le fragilità tipiche di questo comparto.

Chi volesse fare un giro delle aree industriali regionali poserebbe lo sguardo su una desertificazione in corso che non conosce soste.

In questo contesto, possiamo dirci senza timore di sbagliare che le poche persone che lavorano in Regione sono precarie, sottopagate, a nero o a grigio o comunque in contesti lavorativi fragili.

In una situazione socio-economica di questo tipo, che non esageriamo a definire drammatica, la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado si impone incontrando molte meno resistenze che altrove.

Moltissime donne sono a casa, disoccupate.

Quando lavorano entrambi i genitori magari è in contesti precari, per poche ore, saltuariamente.

Anche in casi di lavoro regolare è molto facile attingere ad un welfare informale fatto di parenti, nonni o altre persone affini che, purtroppo, sono nelle condizioni per badare ai più piccoli, per giornate intere.

Il welfare della disperazione

È questa, la forma spontanea di resistenza al baratro che consente ad un personaggio come De Luca di chiudere tutte le scuole – unico caso, finora, in Europa – (quasi) senza colpo ferire.

La strutturale debolezza del mondo del lavoro in Campania – devastato da quarant’anni di ristrutturazioni – dà a De Luca la forza per prendere provvedimenti contro le fasce più deboli della popolazione, i bambini e le famiglie.

Sulla miseria e sul sottosviluppo il presidente appena rieletto costruisce il suo potere. Del resto lui è lo sceriffo, e nel Far West le scuole non sono mai esistite.

La chiusura delle scuole ha un duplice aspetto.

Avviene senza colpo ferire in società con indici di sviluppo inferiori alla media nazionale ed europea, con forti disuguaglianze tra classi e tra sessi. Ha come effetto proprio quello di aumentare il divario tra la Regione e il resto d’Europa, tra le classi, tra i sessi.

L’OCSE ha stimato che tre mesi di scuola persi comportano sei punti in meno nei test PISA, quelli usati per la valutazione comparata delle competenze degli studenti europei, nonché per le famigerate prove INVALSI.

Chi scrive non è fan di questi test, che sono stati negli anni oggetto di numerose critiche. Si tratta, in tal caso, di un indicatore, né più né meno utile dei precedenti già usati, e come tale lo useremo.

Nel Sud Italia, e in Campania in particolare, gli scostamenti in negativo rispetto alla media nazionale sono già alti in tutte e tre le aree (Italiano, Matematica, Inglese).

In Matematica, in particolare, quasi 6 studenti su 10 in secondo superiore non raggiungevano, nel 2019, i traguardi previsti dai programmi.

Sulla disuguaglianza territoriale e sociale si è molto discusso, tanto da costringere l’INVALSI ad introdurre un coefficiente di correzione in tal senso. è certo che l’origine del distacco risalga, tra le altre cose, alla prima infanzia, in particolare alla disparità di offerta di asili tra Campania (62 comuni su 100 ne sono privi) e resto d’Italia.

Torniamo alla stima OCSE e facciamo un calcolo.

In Campania la scuola è stata chiusa dal 9 Marzo al 7 Giugno scorso, poi riaperta in ritardo (24 settembre, in alcune province anche dopo) e richiusa dopo circa 3 settimane.

Allo scadere dell’ultima ordinanza saranno 3 mesi di chiusura netti – 4 punti in meno – ma è ovvio che, a meno di marce indietro che non avverranno spontaneamente, la chiusura sarà prorogata almeno fino alle vacanze di Natale (4 mesi).

Molti, De Luca in testa, contesterebbero questo calcolo sostenendo che la scuola non è chiusa, ma organizzata a distanza.

Non entreremo nel merito di una discussione sul valore didattico delle videoconferenze e sull’importanza della relazione “corpo a corpo” nella scuola. Attestiamoci ad un dato bruto, ufficiale, dell’UNICEF: durante il primo lockdown un terzo degli studenti al mondo non è stato raggiunto dalla didattica a distanza.

In Italia (fonte: Fondazione Di Vittorio) meno di un terzo degli insegnanti è riuscito a raggiungere tutti i suoi alunni.

La didattica a distanza ha aumentato la dispersione e l’inadempienza rispetto all’obbligo scolastico. Ciò è accaduto in particolare a partire da Maggio, quando ci furono le prime, graduali riaperture e a rimanere chiusa fu solo la scuola.

Esattamente quello che sta succedendo adesso in Campania.

Infatti il tasso di assenza, in particolare negli ultimi anni del primo ciclo, è schizzato paurosamente verso l’alto.

De Luca governa una Regione con problemi, legati al mondo del lavoro e alla società nel suo complesso, atavici.

La situazione socioeconomica di arretratezza consente di prendere “indenni” provvedimenti tanto drastici quanto inutili come la chiusura completa delle scuole a tempo indeterminato. Questa stessa chiusura ha come effetto immediato quello di peggiorare, a breve-medio termine, tutti gli indicatori, quindi la situazione socioeconomica nel suo complesso.

Quando quest’incubo finirà avremo una Regione con meno lavoro, di qualità minore, meno diplomati, meno laureati, meno donne inserite in percorsi di studio o lavoro, più abbandono, più dispersione, più criminalità.

Tutto questo “solo” perché un presidente di Regione ha perso otto mesi in fanfaronate e bandi utili solo a garantirsi la rielezione facendo mangiare, sull’epidemia, i soliti noti.

Ci ha condotto alla prevista seconda ondata con un sistema sanitario forse peggiore di quello che avevamo a Marzo. Ha preso un provvedimento inutile e dannoso come la chiusura delle scuole al solo scopo di mostrare piglio deciso e durezza. L’obiettivo era continuare la sua campagna elettorale permanente.

Da quest’incubo possiamo uscire se ci svegliamo.

La distruzione di ciò che resta del welfare non è un destino inevitabile. Alla pandemia si risponde con più sanità, più scuola, più trasporti, più progetti educativi.

Il lockdown generalizzato, probabilmente inevitabile quando arriverà, sarà solo la conseguenza dell’inettitudine criminosa con cui i nostri governanti hanno gestito la crisi in questi mesi.

Non smettiamo di pretendere più infermieri, più medici, più strutture sanitarie, e contemporaneamente scuole aperte, più insegnanti, più spazi per l’istruzione, più trasporto pubblico.

La devastazione e l’ansia che ne consegue non sono un destino già scritto. Riappropriamoci di ciò che ci spetta, facciamolo subito!

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