Carə compagnə
Saluti dalla redazione di Tricontinental: Institute for Social Research
Per oltre un decennio, Alaa Abd el-Fattah è entrato e uscito dalle prigioni egiziane, mai libero dalle vessazioni dell’apparato militare statale. Nel 2011, durante l’apice della rivoluzione, Alaa è emerso come una voce importante della sua generazione e da allora – nonostante i tentativi del regime di soffocare la sua voce – è diventato una bussola morale. Il 25 gennaio 2014, per commemorare il terzo anniversario del rovesciamento del governo di Hosni Mubarak, Alaa e il poeta Ahmed Douma hanno scritto una commovente lettera dalla prigione di Tora, al Cairo. Questa prigione, che ospita Alaa e altri prigionieri politici, non è lontana dal bellissimo Nilo e – a seconda del traffico del Cairo – non troppo lontano dalla sede di Garden City di Mada Masr, che ha pubblicato la lettera. In città come il Cairo, le prigioni in cui vengono torturati prigionieri politici si trovano spesso in quartieri ordinari.
“Chi ha detto che siamo ineguagliabili? O che siamo una generazione incantata?” scrissero Douma e Alaa, riflettendo sull’idea che la rivolta del 2011 fosse in qualche modo eccezionale. E poi: “Siamo umani, ma nel buio desideriamo la luce”. La Rete araba per l’informazione sui diritti umani stima che dalla presa di potere del colonnello Abdel Fattah al-Sisi nel 2013, si contano 65.000 prigionieri politici in Egitto. Alaa è detenuto per una serie di accuse, ma la maggior parte di esse derivano da una risibile: organizzazione di una protesta durata circa quindici minuti. Per quei quindici minuti è stato imprigionato per gran parte dell’ultimo decennio.
L’ipocrisia occidentale
Il 20 dicembre 2021, meno di due settimane dopo che Blinken pronunciò queste parole, la Corte di sicurezza dello Stato egiziano ha condannato Alaa ad altri cinque anni di prigione insieme a Mohamed al-Baqer e Mohamed ‘Oxygen’ Ibrahim condannati a quattro anni ciascuno. A fine 2021, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price nelle sue dichiarazioni settimanali disse che gli Stati Uniti erano “delusi” da questi verdetti. Qualche settimana dopo, Ahmed Hafez, portavoce del ministero degli Esteri egiziano, rispose: “È inappropriato commentare o mettere in questione le sentenze dei tribunali egiziani”. E così finì la diatriba. Ogni anno, il governo degli Stati Uniti fornisce all’Egitto aiuti pari a 1,4 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali per la difesa militare; ogni anno, gli Stati Uniti fanno finta di trattenere circa 100 milioni di questi aiuti per la difesa dei diritti umani, ma alla fine dei conti questa parte viene comunque rilasciata all’Egitto per garantire la “sicurezza nazionale”. Si fa tanto rumore per i “diritti umani”, ma alla fine dei conti non viene espressa nessuna reale preoccupazione per l’oppressione dei processi democratici all’interno del paese. Douma e Alaa scrissero: “Nel buio desideriamo la luce”. Ma nel buio, i traffici di armi e la “sicurezza nazionale” fanno dimenticare ogni considerazione sulla democrazia e sui diritti umani.
La Primavera araba – il cui centro fu proprio piazza Tahrir al Cairo – oggi non è nient’altro che un cumulo di macerie. La Tunisia, dove l’intero processo iniziò, sta lottando contro un governo che ha sospeso le istituzioni democratiche in risposta alla crisi sociale che aveva preceduto la pandemia di Covid-19, che ovviamente l’ha esacerbata. Il 14 gennaio in occasione dell’anniversario del rovesciamento del presidente Zine el-Abidine Ben Ali nel 2011, il Partito dei Lavoratori della Tunisia ha organizzato una marcia a Tunisi da piazza della Repubblica alla Banca Centrale Tunisina con lo slogan No al populismo, no al fondamentalismo, no ai reazionari. Il Partito dei Lavoratori si oppone quindi sia al vecchio regime di Ben Ali, che agli islamisti e al presidente “populista” Kais Saied. Il partito sottolinea che la crisi economica, approfondita dalle politiche del Fondo Monetario Internazionale e all’origine della rivoluzione del 2011, rimane irrisolta. Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazioni per l’uso delle forze di sicurezza interne per reprimere i diritti politici fondamentali.
In Marocco, la situazione è terribile. Il regime politico incentrato sul re Mohamed VI viene chiamato il Makhzen (un termine che significa “magazzino”, riferendosi al luogo in cui i subordinati del re vengono pagati). Il re detiene ricchezze per un valore che va tra 2,1 e 8 miliardi di dollari – in un paese dove quasi una persona su cinque vive sotto la soglia di povertà e dove il disagio sociale è aumentato durante la pandemia. Nel 2015, dopo che il movimento del 20 febbraio scosse la società nel 2011, ho visitato l’ufficio di Rabat dell’Associazione marocchina per i diritti umani dove mi hanno parlato della mancanza di libertà politiche di base. Come i coraggiosi difensori dei diritti umani in altri paesi, i marocchini che ho incontrato elencavano i nomi delle persone che erano state ingiustamente arrestate e tracciavano un quadro della difficoltà di costruire uno stato in cui vengano rispettati “verità e diritti”.
L’oppressione monarchica marocchina
Durante gli ultimi anni, il Makhzen ha cercato di strangolare il principale partito di sinistra del Marocco, la Via Democratica. Ha represso e diffamato gli attivisti di Via Democratica che cercano di organizzarsi in pubblico, e sta impedendo al partito di usare luoghi pubblici per tenere il suo quinto congresso quest’anno [leggi qui il comunicato di solidarietà di Potere al Popolo ai compagni marocchini]. Nonostante gli ostacoli, gli attivisti di Via Democratica hanno iniziato il nuovo anno chiamando le forze popolari a unire le lotte; inoltre chiede il rispetto delle libertà e dei diritti umani e il rilascio dei prigionieri politici, compresi i membri del Movimento Rif, che ha mobilitato centinaia di migliaia di persone per chiedere diritti sociali e giustizia dopo che nel 2016 un venditore di pesce è stato ucciso da un compattatore di rifiuti della città. La Via Democratica si oppone alla repressione del Makhzen e sostiene l’autodeterminazione del popolo saharawi.
Nel 1975, lo stato marocchino ha annesso il Sahara occidentale, ma ha poche basi legali per questa occupazione. Nell’agosto 2020, il governo degli Stati Uniti ha firmato gli Accordi di Abramo, il che significa che il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti riconoscono Israele (e di fatto l’occupazione permanente della Palestina) in cambio di accordi sulle armi e del riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione del Sahara occidentale da parte del Marocco. Il Fronte Polisario (il movimento di liberazione del popolo saharawi) si oppone a questi accordi, mentre le tensioni lungo il confine tra Marocco e Algeria continuano a crescere. Dopo che la Via Democratica ha espresso la sua posizione coraggiosa contro gli Accordi di Abramo, è aumentata la repressione da parte del Makhzen.
La tirannia non è il nostro destino…
Omar Radi, come Alaa, siede nella sua cella nella prigione di Oukacha a Casablanca. Ci manda un messaggio: “La tirannia non è il nostro destino; raggiungeremo la libertà, anche se ci vuole molto tempo. Inoltre, se è giunta la mia ora di pagare il prezzo a nome di questa dannata nuova generazione nata prima del Vecchio e del cosiddetto Nuovo Regime, allora sono pronto a pagarlo con tutto il mio coraggio, e andrò incontro al mio destino con un cuore calmo, sorridente e con la coscienza pulita”.
Omar, Alaa, Fatima, Ahmed, e altri prigionieri politici in tutto il mondo non andranno incontro al loro destino. Noi saremo sempre al loro fianco. Noi siamo qui. Finché saremo vivi, resteremo in piedi.
Calorosamente,
Vijay