È di pochi giorni fa la notizia dell’addio alla produzione dell’Ape Piaggio nello stabilimento di Pontedera. Il celebre motocarro, storico simbolo dell’Italia del dopoguerra, continuerà ad essere prodotto in India, dove le normative ambientali risultano meno stringenti. L’azienda ha dichiarato che le linee produttive saranno riconvertite alla realizzazione del Porter, ma le rassicurazioni non convincono, soprattutto alla luce delle promesse disattese del passato e delle linee di produzione prima bloccate e poi smantellate del tutto. Intanto, da lunedì scorso, oltre mille operai sono già in cassa integrazione. Lo stabilimento di Pontedera, un tempo orgoglio dell’industria del centro Italia, è oggi solo l’ombra di sé stesso, depredato e sfruttato dalla famiglia Colaninno, che ha finito per divorare non solo una fabbrica, ma un intero territorio.
Ma il problema va ben oltre Pontedera, la Piaggio o l’Ape. In un contesto segnato dalla crisi climatica, dalla necessaria riconversione industriale e da crescenti tensioni commerciali globali, il settore automotive – pilastro del manifatturiero europeo – affronta una crisi profonda, che non riguarda solo Piaggio o Stellantis, ma anche colossi come la Volkswagen. Siamo di fronte ad una chiara crisi di sovrapproduzione, aggravata da una domanda in calo e dalla difficoltà dei produttori europei nel riconvertire le produzioni e competere con i rivali cinesi, ormai leader globali della mobilità elettrica. In questo scenario, è evidente che la riconversione industriale, indispensabile e probabilmente già tardiva, non può essere lasciata in balia delle logiche del mercato. Non è accettabile che siano ancora una volta i lavoratori e le lavoratrici a pagarne il prezzo. Né si può far finta di ignorare la gravissima crisi ecologica in corso, continuando a promuovere un modello di “business-as-usual” che danneggia tanto l’ambiente quanto i diritti dei lavoratori e dei territori.
È urgente e necessario, invece, un forte intervento pubblico. Serve un piano strutturale che punti alla riconversione delle produzioni inquinanti verso la mobilità pubblica e di massa, investimenti che mettano al centro le persone, non i profitti, e quindi:
* Serie politiche redistributive, l’aumento della tassazione dei redditi da capitale e l’aumento degli scaglioni IRPEF;
* Aumenti salariali generalizzati, finanziati non attraverso riduzioni delle tasse sul lavoro, ma dai padroni;
* L’introduzione del salario minimo a 10€ l’ora indicizzato all’inflazione e del reato di omicidio sul lavoro;
* Riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario, per migliorare la qualità della vita, combattere la disoccupazione tecnologica e redistribuire il lavoro disponibile;
* Lo stop agli investimenti in armamenti e infrastrutture militari, destinando invece risorse al welfare, alla salute e all’istruzione;
* Lo stop a politiche di austerità e di privatizzazione, sempre a danno delle fasce sociali più deboli.
Insomma, lo Stato deve tornare ad essere un protagonista attivo nell’economia, con politiche che mettano al centro la giustizia sociale e ambientale. Per questo sosteniamo lo sciopero generale e generalizzato proclamato dall’USB il prossimo 13 dicembre. Tutti e tutte a Roma!