Fonte: L’espresso
di Fabrizio LoRusso
Domenica primo luglio il Messico affronta le elezioni più importanti della sua storia: sono quasi 89 milioni gli aventi diritto che votano per oltre 3400 funzioni pubbliche, tra cui la presidenza della repubblica, camera e senato, nove governi statali e migliaia di comuni. Nell’aria ci sono sentimenti contrapposti: paura e speranza allo stesso tempo. Per la prima volta è in testa da mesi in tutti i sondaggi un candidato popolare di sinistra, Andrés Manuel López Obrador (soprannominato AMLO per le iniziali). La paura nasce dalle guerre mediatiche sporche delle opposizioni che hanno paragonato Obrador con Chávez e, senza fondamenti, sbandierano lo spauracchio del Venezuela e riprendono antiche campagne di disprezzo contro di lui dipingendolo come “un pericolo” per il Messico. Lascio stare qui la discussione sui limiti e i progressi del Venezuela di Chávez, ma va osservato come in tutta l’America Latina miti e realtà sul Venezuela siano utilizzati da tutte le destre come spaventapasseri propagandistici contro qualunque candidato d’opposizione (come Gustavo Petro in Colombia, per esempio).
Ad ogni modo tanto nei sondaggi come nelle piazze pare prevalere la speranza, l’idea di un orizzonte di rinnovamento democratico e morale della vita pubblica e di cambiamento sociale ed economico che il probabile prossimo presidente ha saputo suscitare. AMLO è stato sindaco di Città del Messico nel 2000-2005 e candidato a presidente nel 2006 e nel 2012 per il partito di centrosinistra PRD (Partido Revolución Democrática). Il PRD ha seguito la parabola del PD italiano e, dopo una svolta centrista e neoliberista e una serie di abbandoni eccellenti che ne hanno sancito il declino inesorabile, è finito nelle mani delle destre e sostiene il giovane yuppy conservatore Ricardo Anaya, dato al secondo posto con venti punti sotto AMLO. Al terzo posto i sondaggi collocano José Antonio Meade, ex ministro tecnico ed economista “Chicago boy” duro e puro proposto dal partito di governo (PRI). Dal canto suo Lopez Obrador negli ultimi tre anni ha lavorato al consolidamento del Movimiento Regeneración Nacional (MORENA) un partito, di certo troppo centrato sul suo leader, che ha occupato lo spazio lasciato libero a sinistra e che catalizza il voto popolare (lavoratori e informali, contadini, alcuni movimenti e sindacati importanti) ma anche quello delle classi medie, specialmente nella capitale, e di una parte, più consistente che in passato, del settore imprenditoriale, oltre a una quota di voto antisistema e il consenso di buona parte degli intellettuali e degli artisti. C’è stato anche un avvicinamento e un incontro con alcuni movimenti di vittime, per esempio con i genitori dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa che si mantengono comunque fuori dal gioco dei partiti e dei candidati e continuano a esigere verità, giustizia, castigo ai colpevoli e la restituzione in vita dei ragazzi scomparsi ormai quasi 4 anni fa. Obrador ha promesso loro a fine maggio quello che, pochi giorni dopo, un tribunale ha ordinato allo stato messicano: la creazione di una commissione ad hoc per la giustizia nel caso Iguala-Ayotzinapa visto che le indagini sono state viziate da casi di tortura e manipolazioni della procura.
Già nel 2000 c’era stato un presunto “cambiamento”, con la vittoria del conservatore e cattolico PAN (Partido Accion Nacional) e del presidente Vicente Fox, per cui cominciò un’alternanza al potere dopo 71 anni di egemonia del PRI (Partido Revolucionario Institucional). Ma alternanza al potere non significa transizione democratica completa. Nel 2006 vinse con probabili brogli elettorali un altro candidato del PAN, Felipe Calderón, che con una falsa “guerra al narcotraffico” insanguinò il paese e lo condusse a conflitto armato interno che continua tuttora. La sua guerra si tradusse e si traduce in un annichilimento del tessuto sociale e dei movimenti che protestano contro le politiche neoliberiste, imposte manu militari. Nel 2012 il PRI tornò a governare e si capì chiaramente che PRI e PAN rappresentavano ormai sfumature poco diverse degli stessi settori dell’élite, ossia lo stesso gruppo di interessi legato al traffico d’influenze, alla spartizione del potere politico ed economico, e alle politiche neoliberiste più deleterie per la gran maggioranza della popolazione.
Questa patisce disuguaglianze estreme e una povertà strutturale (53 milioni di poveri), provocate dalle pessime condizioni del lavoro, sottopagato e privo di diritti, e da una politica fiscale che favorisce i ricchi e i grandi conglomerati imprenditoriali, incluse le multinazionali straniere. Il modello si basa su favori fiscali, bassi salari, svendita di risorse strategiche e sulla docilità dei lavoratori, perennemente sotto ricatto o de-sindacalizzati a forza, per attirare gli investimenti dall’estero, ed è sostenibile grazie alle rimesse dall’estero di oltre 12 milioni di migranti messicani, principalmente dagli USA, al turismo e ai flussi di business illeciti cogestiti da poteri pubblici e privati (droghe, armi, traffici di persone e organi, riciclaggio, estorsione, ecc…).
Alle disuguaglianze economiche insultanti vanno aggiunte quelle storiche di tipo etnico-razziale contro i popoli indigeni, quelle di classe e quelle di genere, di cui la violenza femminicida è l’aspetto più grave ed endemico. Se ti specchi nel Messico di oggi (purtroppo) vedi l’Italia del futuro, anzi in parte già quella del presente. Per questo c’è molto da imparare (anzi, da evitare) dalle decisioni politiche scellerate e dai modelli socioeconomici escludenti adottati negli ultimi trent’anni in Messico e basati sull’ideologia privatista.
La “tolleranza zero”, ossia la militarizzazione della politica economica e della sicurezza per proteggere investimenti ed espropriazioni di vario tipo, in quasi 12 anni ha provocato oltre 250mila morti ammazzati, 36mila desaparecidos, 360mila rifugiati interni per la violenza, la repressione di migliaia di conflitti sociali (1200 i conflitti legati solo all’attività d’estrazione mineraria) e una concentrazione della ricchezza senza precedenti, per cui il tema della giustizia sociale e della redistribuzione è uno dei cavalli vincenti di AMLO, insieme al discorso contro la “mafia del potere”, cioè i poteri forti e il piccolo gruppo di imprenditori e politici che controllano il paese, e a quello contro la corruzione e gli sprechi.
Il problema della corruzione è stato costruito politicamente, è stato politicizzato da AMLO e MORENA come parte del suo discorso di campagna elettorale e viene indicato come una delle cause, la principale, delle condizioni in cui versa la maggioranza della popolazione. Il presidente Peña Nieto, invece, quasi a giustificare i vari scandali in cui è stato coinvolto, in alcune dichiarazioni ha cercato di mostrare la corruzione come un difetto nazionale, come un tratto culturale che quindi ha poco a che vedere con le sfere del potere e la gestione dell’economia. Lo stesso si può dire del problema della povertà e delle disuguaglianze, questioni che apparivano “naturali”, congenite al sistema, quasi benefiche secondo i neoliberali perché favorirebbero lo sforzo individuale e la concorrenza. Obrador, che propone un piano riformista piuttosto moderato ma comunque di cambiamento rispetto agli ultimi trent’anni, è riuscito a collocare nell’agenda politica e mediatica e a svecchiare il tema della giustizia sociale, abbandonato da decenni nel dimenticatoio della politica messicana, ma rivendicato da numerosi movimenti sociali. La corruzione e gli sprechi, oltre all’abbandono di una politica sociale universalista e proattiva da parte dello Stato, sono stati posti al centro della problematica sociale, insieme al tema della violenza, che da quei fattori scaturisce, e al progressivo abbandono della strategia di militarizzazione. Restano un po’ vaghe alcune proposte, soprattutto sulla lotta alla corruzione, e le modalità in cui verranno coperte le maggiori spese sociali previste. AMLO ha proposto un’amnistia per delitti minori, non violatori dei diritti umani, legati al narcotraffico, ed è stato per molte settimane attaccato ferocemente dagli altri candidati, tutti favorevoli a mantenere i militari per le strade, ma alla fine AMLO pare averla spuntata e la discussione sulle vie alternative di risoluzione del conflitto armato e della fallita strategia di “lotta alle droghe” ha preso piede e ricomincerà subito dopo le elezioni. Cocreta è invece l’intenzione di rivedere i contratti delle grandi opere “sprecone”, come il nuovo aeroporto di Città del Messico, e la riforma educativa, che in realtà è una “buona scuola renziana” alla messicana che nasconde una riforma del lavoro degli insegnanti e la loro precarizzazione per indebolire la scuola pubblica e favorire criteri di mercato nell’istruzione.
In tema di diritti AMLO, ma non gli esponenti di MORENA, s’è mostrato sicuramente “timido”, conservatore, perché su aborto, matrimonio ugualitario e legalizzazione della marijuana ha annunciato che ci saranno dei referendum popolari e non ha espresso una posizione personale chiara. I diritti non sono negoziabili, gridano giustamente le basi, ma in molti paesi, in contesti dove la Chiesa ha un’influenza determinante, come l’Italia o l’Irlanda, alcuni provvedimenti sono passati anche grazie al voto diretto o a pressioni forti da parte dei movimenti. Nel caso di Obrador sarebbe stato difficile perché MORENA ha stabilito per queste elezioni un’alleanza molto discutibile con un partitino di destra, Partido Encuentro Social, che è un’emanazione delle chiese evangeliche e minaccia di aumentare la sua rappresentanza in parlamento fino a bloccare la spinta riformatrice. I suoi esponenti principali si dichiarano conservatori in termini sociali ma riformisti in economia, secondo le linee di MORENA, ma è tutto da vedere e molti militanti di sinistra sono rimasti delusi dalla scelta tattica del partito. Così anche i movimenti sociali più autonomi che, indipendentemente dal governo di turno, più o meno dialogante, dovranno portare avanti i temi come i diritti umani, l’abbandono delle popolazioni indigene e la possibilità di una trasformazione dal basso che in campagna elettorale sono stati quasi assenti. Nella coalizione di Obrador, “Juntos haremos historia” (insieme faremo storia), entra anche il PT, Partido del Trabajo, che ha poco a che vedere con il più famoso PT brasiliano ed è in realtà un “partito satellite” che ha sostenuto AMLO ad ogni elezione. A destra il PAN si è alleato con la ex sinistra del PRD, anche se quest’ultimo ha opinioni diametralmente opposte e sicuramente più aperte sul diritto alla decisione delle donne, sui matrimoni tra persone dello stesso sesso e la legalizzazione delle droghe. Queste elezioni sono state segnate, indubbiamente, dal pragmatismo elettorale.
Buona parte dei media italiani, quando si tratta di America Latina, va a tentoni e infarcisce di stereotipi e approssimazioni depistanti i propri articoli, per cui sento di poter rigettare senza timori gli accostamenti che cominciano ad emergere tra Donald Trump e il probabile prossimo presidente messicano. E rigetto anche il paragone tra il defunto presidente venezuelano Hugo Chávez e il politico messicano, ereditato dallle campagne elettorale del 2006. AMLO è stato accusato di essere un populista e un radicale, anche se le sue proposte economiche sono semplicemente keynesiane e piuttosto moderate, orientate alla giustizia sociale, al fomento del mercato interno in un contesto di globalizzazione economica e sono sostenute da un team di economisti di alto livello. Nel suo futuro governo ci saranno probabilmente vari esponenti del mondo delle imprese e AMLO negli anni ha moderato il suo discorso, anche perché il Messico è un paese in cui l’asse politico è spostato molto a destra e in cui i settori più retrogradi della Chiesa e dell’imprenditoria la fanno da padroni. Si parla quindi con MORENA di riformismo e recupero della politica industriale, non di radicalismo, e magari di post-neoliberalismo, non tanto di anticapitalismo. AMLO non vuole cancellare il NAFTA, trattato di libero commercio dell’America del nord, per esempio, né “uscire dalla globalizzazione” o fare guerre commerciali, ma di certo il suo focus è lo sviluppo del Messico con giustizia sociale e sostiene che la “migliore politica estera è quella interna” per sottolineare come i gravissimi problemi interni siano da porre tra le priorità. Le sue proposte economiche sono riassunte qui-1 e qui-2.
Trump è un imprenditore multimilionario xenofobo, razzista, protezionista, misogino, bellicoso e fascista. Non credo esista la minima possibilità di comparazione con Lopez Obrador, che è un leader sociale, ha lavorato con le popolazioni indigene per anni ed è noto per il suo stile di vita morigerato e austero. C’è chi li ha accostati perché sarebbero due leader nazionalisti e sovranisti, quindi anche vicini al populismo destrorso europeo alla Salvini, alla Le Pen e compagnia bella. Direi che Obrador non è più nazionalista di qualunque altro leader liberal-democratico in Europa. Anche Macron è nazionalista, e pure Teresa May o la Merkel o il brasiliano Lula. E’ un vizio abbastanza comune, nemmeno troppo marcato in Messico rispetto ai paesi europei. Se in Italia, in Svizzera o in Francia arriva una compagnia mineraria canadese o americana che vuole sventrare dieci picchi alpini o inondare sei comuni storici per fare una diga e per estrarre oro e litio, pagando l’1% di tasse, come accade nel 15% del territorio messicano svenduto negli ultimi 20 anni, credo che ci sarebbe qualche reazione “nazionalista” con e proteste immediate e massicce da parte dei governi e della società…
E’ un esempio forse tendenzioso (eppure realista!), ma aiuta a mostrare come la vena “sovranista” in America Latina in realtà venga da lontano e, semplificando un po’, sia parte della tradizione delle sinistre anti-imperialiste e della denuncia delle “vene aperte dell’America Latina”, per dirla come Galeano. Però si tratta qui di un contesto, quello del Sud del mondo, in cui, dopo secoli di colonialismo, esiste un brutale sfruttamento delle risorse e del lavoro da parte delle imprese, nazionali e straniere. In questo AMLO è stato critico verso tutti i settori “rapaci” e le minoranze di potere in Messico, tra cui spiccano quelle nazionali molto più di quelle foranee. In questo senso è antisistema, ma non è mai stato “antipolitico”, anzi, la sua proposta torna a politicizza rimette al centro temi che i suoi oppositori vedono come “vecchi” perché conviene non parlarne: il lavoro, la povertà, le cause profonde della delinquenza e la emigrazione, la giustizia sociale, l’uguaglianza nel rispetto delle libertà. Il PRI e il PAN, seguendo i dettami neoliberali, hanno subordinato la società e i diritti umani al verbo dell’economia e del mercato, mentre la sinistra messicana sfida questo pensiero unico. MORENA fa una critica di questo da un punto di vista più moderato e socialdemocratico, lo zapatismo e le comunità che costruiscono l’autonomia lo fanno partendo da un modello sociale, politico ed economico alternativo e sostenibile di sviluppo a livello locale per un superamento del capitalismo. La candidata espressione dell’EZLN e del Congreso Nacional Indigena, Marichuy Patricio, ha condotto una campagna elettorale, volta a ottenere le firme sufficienti e presentarsi come candidata indipendente, in tutto il paese con pochissime risorse risvegliando coscienze, solidarietà, reti e consensi con un’agenda anticapitalista e di rivendicazione della visione del mondo e della costruzione dell’autonomia da parte delle comunità dei popoli originari.
In materia di politica internazionale Obrador e MORENA si dichiarano rispettosi dei principi storici della diplomazia messicana dell’autodeterminazione e della non ingerenza, quindi ben diversi rispetto ai Trump e ai Salvini. Non è vicino nemmeno a Chavez, che era un militare e, al contrario di AMLO, era a favore delle nazionalizzazioni e aveva un discorso nettamente antimperialista “classico”. AMLO non rifiuta l’intervento statale in economia e nel recupero di settori strategici ma lo fa nell’ambito di un “liberalismo temperato” che non rifiuta l’investimento pubblico ma nemmeno quello privato. Il latinoamericanismo bolivariano e l’integrazione a sud del Rio Bravo non sembrano essere le priorità del nuovo governo, almeno in una fase iniziale, però AMLO ha ricevuto il sostegno da alcuni dei leader ed ex presidenti della stagione dei governi progressisti latinoamericani come l’ecuadoriano Rafael Correa, la brasiliana Dilma Rousseff e l’argentina Cristina Fernandez, e anche da parte del colombiano, sconfitto lo scorso giugno, Gustavo Petro, dal leader di Podemos, Pablo Iglesias, e da quello della France Insumise, Jean-Luc Melenchon. Se proprio dobbiamo comparare figure, comunque eterogenee tra loro e legate a contesti storici e politici ben diversi, sarebbe più utile (e meno fuorviante o ideologicamente tendenzioso) stabilire un vincolo tra l’americano Bernie Sanders e AMLO oppure (meglio) tra il brasiliano Luiz Ignacio Lula da Silva e AMLO. Non si tratta di figure particolarmente radicali o anticapitaliste, piuttosto riformiste, critiche o socialdemocratiche, con un enfasi sulla giustizia sociale, la lotta alle disuguaglianze e la partecipazione democratica. La corrispondente del quotidiano francese Liberation, Emmanuelle Steels ha parlato di un Bernie Sanders messicano per la simpatia popolare, le campagne tra la gente e la vena critica sulle distorsioni del neoliberalismo e la concentrazione di potere e ricchezza nelle mani dell’1%, mentre da tempo sono in rete i paragoni, credo più azzeccati e sostenuti dalla voce dell’economista Paul Krugman, con Lula, ex presidente sindacalista del Brasile tra il 2002 e il 2010 che riuscì a politicizzare il tema della povertà e in pratica potette implementare politiche sociali che sottrassero alla miseria 40 milioni di persone. Anche Lula, come Obrador, fu candidato due volte prima di vincere al terzo tentativo.
Ci sono voluti un golpe blando o “impeachment” contro Dilma Rousseff, al potere dopo Lula dal 2010 al 2016, e un golpe giudiziario contro lo stesso Lula per fermare le politiche redistributive e sociali dei governi del Partido dei Lavoratori (PT). D’altro canto Lula favorì il mondo dei grandi affari, fiorentissimi in Brasile in un’epoca di boom delle esportazioni di materie prime e delle relazioni commerciali con la Cina, e il modelo estrattivista e neosviluppista, non sostenibile nel lungo periodo. Lopez Obrador e il programma di MORENA sembrano essere più attenti alle tematiche ambientali, in teoria, anche se propongono un contradditorio e intenso sfruttamento delle riserve di idrocarburi e la costruzione di nuove raffinerie per recuperare la sovranità energetica e far abbassare i prezzi della benzina. Anche Lula nel 2001 utilizzò, come AMLO nel 2012 e quest’anno, slogan di “pace e amore”, per una “repubblica amorosa” e la riconciliazione di fronte agli attacchi costanti delle destre e al contesto di violenza politica che caratterizza le elezioni. In Messico ci sono stati in 9 mesi di precampagne e campagne elettorali 133 omicidi politici contro 48 candidati e 85 funzionari già in carica, il massimo storico in un paese di suo abbastanza abituato ai regolamenti politico-criminali e alle riconfigurazioni dei poteri locali o regionali. Come Lula, anche Obrador propone una politica orientata al fomento culturale e accademico e il suo programma mostra un’attenzione particolare verso i giovani, per i quali propone borse formative di apprendistato per il lavoro o per continuare gli studi con lo slogan “becarios sì, sicarios no” (borsisti sì, sicari no), e gli anziani, per i quali si propone di aumentare le pensioni minime e andare verso un’universalizzazione dei sistemi pensionistici e sanitari che oggi garantiscono una copertura molto scarsa.
Infine direi che hanno sicuramente la stessa presa sulle masse grazie all’uso di metafore, narrative e discorsi molto vicini alla gente comune, e sono molto più comodi nelle piazze e nei comizi che nei dibattiti televisivi, che però gradualmente hanno appreso a “gestire”. Il politico messicano non ha legato la sua immagine a leader stranieri ma a personaggi storici messicani come Benito Juarez, presidente indio liberale che lottò contro gli invasori francesi, Francisco I. Madero, iniziatore della Rivoluzione Messicana, e Lazaro Cardenas, presidente tra i più popolari del secolo scorso che governò dal 1934 al 1940 e sottrasse l’industria petrolifera alle compagnie americane e inglesi per creare l’impresa nazionale messicana PEMEX, ma senza dimenticare i padri della patria dell’epoca dell’indipendenza dagli spagnoli, Hidalgo e Morelos, e i rivoluzionari Francisco Villa ed Emiliano Zapata. Non è stato accostato spesso a Lula, né in campagna elettorale sono apparsi riferimenti diretti, soprattutto per via delle vicende giudiziarie dell’ex presidente brasiliano che è favorito nei sondaggi per le presidenziali di ottobre, ma sta conducendo una lotta dalla prigione per avere diritto a candidarsi e liberarsi dalle accuse di corruzione che l’hanno portato in carcere in base alle sole prove testimoniali e in un contesto di ritorno in auge delle destre reazionarie brasiliane.