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In passato, durante la fase di liberazione nazionale, quando i partigiani camminavano tra la gente nei borghi rurali o nelle piccole città, portavano avanti il loro messaggio con i palmi delle mani, i fucili sulle spalle, i giornali e gli opuscoli nelle borse. Data la prevalenza dell’analfabetismo nel mondo colonizzato, i partigiani, spesso, riunivano le persone attorno a piccoli focolai leggendo loro dei testi (da notare che la parola latina per “fuoco” è proprio focus). Questa letteratura di liberazione nazionale condivideva le teorie dello sfruttamento e dell’oppressione che avevano un senso per il popolo e lo incoraggiavano ad unirsi alla lotta, a modo suo.

I giornali e gli opuscoli non riportavano solo informazioni, ma anche importanti analisi sulle lotte in corso, in un intreccio di poesie originali, opere teatrali, storie e disegni. Queste opere creative venivano pubblicate accanto a testi didattici in riviste come El Moudjahid (I combattenti), giornale del Fronte di Liberazione Nazionale dell’Algeria, Cờ Giải Phóng (Bandiera della Liberazione), il giornale del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam, e Al Hadaf (L’Obiettivo), la rivista del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Nel suo racconto Umm Saad pubblicato su Al Hadaf, Ghassan Kanafani (1936-1972) narra la storia di una donna palestinese che incoraggia il figlio ad unirsi ai fedayeen (guerriglieri) e mostra che non può esistere una testa senza un cuore, che non può esistere la concettualizzazione del domani rivoluzionario senza un salto di immaginazione per compiere il viaggio. La cultura è lo spazio non solo per veicolare un messaggio, ma anche quello per visualizzare il futuro.

La cultura è un centro vitale della lotta. È dove le persone si incontrano e si riconoscono negli e attraverso gli altri, dove imparano cosa sono capaci di fare e dove, insieme, osano nell’immaginare come costruire un mondo diverso. L’arte da sola non cambia il mondo, ma senza dar vita all’immaginazione attraverso l’arte, ci rassegneremmo al presente. Gli artisti radicali alludono alla realtà, cercando di risvegliare la consapevolezza delle persone che, altrimenti, non avrebbero considerato questo o quell’aspetto delle loro relazioni con gli altri. È il ruolo dell’arte di concentrare l’attenzione delle persone e costruire la loro fiducia nella lotta contro la miseria inflitta alla maggior parte della popolazione globale. Costruire questa attenzione e questa fiducia apre la strada alle organizzazioni popolari che portano avanti questa nuova coscienza e costruiscono un mondo migliore. Lo slogan L’arte per l’arte, risalente al XIX secolo, è un grido di disperazione contro il vero scopo dell’arte nella nostra società: inspirare la bruttezza che ci circonda ed espirare la bellezza che ci stimola a cambiare quell’orrore.

L’ultimo dossier di Tricontinental: Institute for Social Research, Culture as a Weapon of Struggle: The Medu Art Ensemble and Southern African Liberation, adotta questa posizione sull’arte e sulla cultura. Medu (che in sesotho significa radici) era un collettivo fondato da artisti coinvolti nella lotta di liberazione del Sudafrica dal 1979 al 1985. Dei circa sessanta artisti che componevano il collettivo Medu facevano parte l’influente poeta Keorapetse William Kgositsile (primo poeta laureato del Sudafrica) e Mongane Wally Serote (poeta contemporaneo laureato del Sudafrica), lo scrittore Mandla Langa, i musicisti Jonas Gwangwa e Dennis Mpale, e gli artisti visuali Thamsanqa ‘Thami’ Mnyele and Judy Seidman. Il dossier intreccia interviste originali con molti degli artisti sopravvissuti e ricerche che riportano le voci di chi non è sopravvissuto alla brutalità al regime di apartheid. Situati in Gaborone (Botswana), questi artisti vengono da diverse tradizioni politiche, come il Black Consciousness Movement, l’African National Congress e il South African Communist Party, che sono stati ispirati da un’ampia tradizione di movimenti di liberazione nazionale dal Vietnam al Cile. Insieme, il collettivo Medu si fonda sull’idea di Frantz Fanon secondo cui “è nel cuore della coscienza nazionale che si eleva e si vivifica la coscienza internazionale. E questo duplice emergere non è altro, in definitiva, che il focolaio d’ogni cultura”.

Medu, come gli altri collettivi artistici radicati nella liberazione nazionale, prese ispirazione dalle lotte popolari, come la lotta per ottenere il controllo della terra, la creazione di un progetto anticoloniale internazionale (il movimento panafricano) e la costruzione di un progetto di liberazione nazionale (come articolato nella Carta della libertà sudafricana del 1955). Queste erano le risorse che diedero fiducia agli artisti del Medu, che hanno dipinto e cantato tra le persone che hanno preso parte agli scioperi di Durban nel 1973 e alla rivolta di Soweto nel 1976.

Da questa energia e da queste loro pratiche, Medu produsse una teoria dell’arte incentrata su tre principi chiave: l’arte è un’arma necessaria nella lotta; l’arte dovrebbe essere prodotta in collettivi che lavorano insieme al popolo; l’arte deve essere fatta per essere compresa dal popolo. Questi tre principi sono stati articolati nei loro dibattiti interni e nei loro incontri come il Simposio su Cultura e Resistenza e il Festival delle Arti (tenuto nel luglio del 1982 a Gaborone), che ha riunito tra le centinaia e le migliaia di lavoratori culturali provenienti dal Sudafrica e non, per portare avanti la battaglia culturale contro l’apartheid sudafricano. Insieme, Medu ha costruito un corpo distinto del pensiero e della teoria dell’arte socialista.

Poi, nella notte del 13 giugno del 1985, un distaccamento militare dello Stato di apartheid del Sudafrica attraversò i confini con il Botswana e piombò nelle case di molti artisti ed attivisti in esilio. Due delle dodici persone assassinate quella notte erano membri del Medu, tra cui l’artista visuale e cartellonista Thami Mnyele. Le capacità del gruppo nel far progredire il loro lavoro e di evolvere il loro pensiero furono distrutte.

I regimi di apartheid temono la spinta propulsiva dell’arte e dell’immaginazione. Rispondono con violenza.

Trentotto anni dopo, continua la guerra contro l’arte e la cultura, come ci testimonia la furia genocida dell’apartheid sionista contro la Palestina. Tra i tanti artisti uccisi durante i bombardamenti, troviamo il pittore Heba Zagout (1984-2023), il muralista Mohammed Sami Qariqa (1999-2023), il poeta e romanziere Hiba Abu Nada (1991-2023) e il poeta Refaat Alareer (1979-2023). La poesia di Alaeer Se devo morire, scritta durante la guerra, ha avuto una profonda risonanza tra le persone di tutto il mondo da quando è stato assassinato dalle forze di occupazione israeliane il 7 dicembre.

Se devo morire
che questo porti speranza
che questo sia un racconto

Gli israeliani conoscono il potere delle parole. Il generale Moshe Dayan disse che leggere la poesia di Fadwa Tuqan (1917-2003) era come “affrontare venti commando nemici”. Nella poesia Martiri dell’Intifada, Tuqan scrive dei lanciatori di pietre palestinesi. La poesia stessa è una pietra lanciata ad israele:

Hanno tracciato la rotta verso la vita
l’hanno intarsiata di corallo, di agata e di giovane forza
hanno innalzato i loro cuori
sui palmi di carbone, di brace e di pietra
e con questi hanno lapidato la bestia del cammino
questo è il tempo di essere forti, sii forte
la loro voce è rimbombata alle orecchie del mondo
e il suo eco si è dispiegato fino ai confini del mondo
questo è il tempo di essere forti
e loro sono diventati forti
e sono morti in piedi
illuminando il cammino
scintillanti come le stelle
baciando le labbra della vita.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della cinquantesima newsletter (2023) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

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