“Certo, potremmo incespicare in un’oscurità senza sentieri, potremmo fermarci sull’orlo di un abisso spalancato, eppure non siamo spaventati, perché sappiamo che se vogliamo vedere l’alba dobbiamo passare attraverso la notte”.
Najiya Hanum (Turchia), Primo Congresso dei popoli d’Oriente, Baku, URSS, 1920.
È solo alla fine della sua vita Karl Marx lascia le coste dell’Europa e viaggia in un paese che si trova sotto una dominazione coloniale. Ciò accadde quando si recò in Algeria nel 1882. “Per i musulmani non esiste la subordinazione”, scrisse Marx a sua figlia Laura Lafargue. Per un “vero musulmano” la diseguaglianza è un abominio, ma questi sentimenti, riteneva Marx, “andranno in malora senza un movimento rivoluzionario”. Riteneva anche che un movimento dalla concezione rivoluzionaria avrebbe potuto svilupparsi facilmente lì dove era profondamente radicato un sentimento culturale contro la diseguaglianza. Marx non scrisse molto a proposito dell’Algeria o dell’Islam. Queste erano osservazioni rivolte da un padre a una figlia, ma in effetti ci dicono molto della sensibilità di Marx.
Il marxismo fondamentalmente si oppone all’idea che certe persone abbiano bisogno di essere governate poiché vengono considerate inferiori dal punto di vista etnico o sociale. Infatti il marxismo, dagli scritti giovanili di Marx in avanti, ha sempre considerato la libertà umana come un universale oggettivo. La schiavitù e la degradazione degli esseri umani nella schiavitù salariata risvegliarono in Marx un’indignazione profetica. In una importante dichiarazione rilasciata alla fondazione della Prima Internazionale nel 1865, Marx rivendicò che tutti i cittadini degli Stati Uniti “fossero dichiarati liberi e uguali, senza riserve” a avvisò gli Stati Uniti circa il fatto che un fallimento nel fare i conti fino in fondo con la cupa eredità della schiavitù avrebbe potuto “macchiare il paese con il sangue dei suoi abitanti”. Il grande intellettuale afroamericano W.E.B. Du Bois citò questa affermazione nella sua grande opera del 1935 Black Reconstruction in America, salutandola come un “audace” intervento. Uno dei passaggi più famosi nel Capitale di Marx (1867) sottolineava come “la rosea alba dell’era della produzione capitalista” non fosse da rinvenire nella banca antisettica o nella fabbrica. L’origine del capitalismo andava trovata – tra altri processi – “nell’estirpazione, nella messa in schiavitù, nella sepoltura delle popolazioni aborigine all’interno delle miniere, nell’inizio della conquista e nel saccheggio delle Indie Orientali, nella trasformazione dell’Africa in una conigliera per la caccia su scala commerciale di pelli nere”. Il capitalismo crebbe e fu sostenuto dalla degradazione dell’umanità in tutto il mondo. Non c’è da stupirsi, allora, se l’anticolonialismo avrebbe poi giocato un ruolo così importante all’interno del movimento marxista.
Una volta fuori dai confini della regione Nord-Atlantica, dall’Europa agli Stati Uniti d’America, le categorie del marxismo necessitano di essere “leggermente estese” e la narrazione del materialismo storico di essere migliorata – come sosteneva l’intellettuale caraibico Frantz Fanon. Altrimenti ci si sarebbe trovati ad adottare categorie che certo possedevano un’applicazione universale, ma che non erano applicate ovunque allo stesso modo. Pochi marxisti hanno adottato il vasto continente del materialismo storico e dialettico senza tradurlo nei contesti e nei problemi a loro propri. Questo è stato uno degli elementi più ricchi della tradizione marxista – e un elemento che è stato molto raramente preso in considerazione.
Nelle colonie, inoltre, la struttura dell’accumulazione capitalista e del furto determinò il fatto che queste regioni non avrebbero visto le proprie forze produttive sviluppate dal sistema capitalista; lo sviluppo sociale dei loro mezzi di produzione (incluse infrastrutture e macchinari) e della loro capacità umana sarebbe stato posto in secondo piano, per privilegiare le terre da cui provenivano i loro domini coloniali. Questa stagnazione dello sviluppo sociale pose delle sfide ai marxisti che operavano nelle regioni colonizzate, dove i loro compiti erano maggiori, e la loro difficoltà tale da generare confusione: essi dovevano rovesciare il dominio coloniale, sviluppare le forze produttive in un contesto ostile e far avanzare le relazioni sociali verso il socialismo. Questi processi dovevano essere sviluppati contemporaneamente, e per di più durante un costante attacco da parte delle forze imperialiste, che ha incluso la guerra aperta (come il Vietnam ha sperimentato per decenni), ma anche le tecniche della guerra ibrida (ad esempio sanzioni e blocchi economici).
Il Dossier 37 è un invito al dialogo, una conversazione sulla tradizione intrecciata di marxismo e liberazione nazionale – una tradizione che emerge dalla Rivoluzione d’Ottobre e che sviluppa le sue radici nei conflitti anticoloniali del XX e del XXI secolo, Questa è un’introduzione a una conversazione di ampio respiro che include molti differenti movimenti rivoluzionari, per la maggior parte radicati nei continenti di Africa, Asia e America Latina. Noi all’istituto Tricontinental per la ricerca sociale siamo interessati a ravvivare una discussione seria intorno a questa tradizione.
Quando viaggiò fuori dal territorio in cui Marx sviluppò inizialmente la sua teoria, il marxismo dovette fare i conti con quello che il leader sovietico Vladimir Lenin (1870-1924) nel 1920 chiamò “la vera essenza, lo spirito vivente del marxismo – un’analisi concreta di condizioni concrete”. Il contributo di Lenin in effetti aprì le porte per una valutazione del marxismo al di fuori dell’Europa. Nel comprendere il bisogno di una “analisi concreta di condizioni concrete” e di una interpretazione creativa del marxismo per adattarlo a differenti contesti sociali, Lenin non era solo. Julio Antonio Mella (1903-1929), intellettuale e rivoluzionario cubano, comprese che lo spirito del tempo era rivolto al socialismo: “In generale la causa del socialismo è la causa del momento: a Cuba, in Russia, in India, negli Stati Uniti e in Cina – ovunque”. Ma “l’unico ostacolo” per il socialismo stava “nel saperlo adattare alla realtà di ambienti differenti”. I marxisti non dovevano – così scriveva Mella – fare “una copia pedissequa di rivoluzioni compiute da altri popoli in altri climi”.
Dai primi giorni della creazione di un partito comunista in Sud Africa anche i suoi membri discussero l’importanza dell’organizzazione all’interno della working class non europea. Nel 1934 Moses Kotane (1905-1978) – che guidò il partito dal 1939 fino alla sua morte – sostenne in una lettera indirizzata al Comitato Distrettuale di Johannesburg del partito che era fondamentale che “il partito diventasse più africanizzato” e che “prestasse un’attenzione particolare al Sud Africa, studiando le condizioni di questo paese e concretizzando le rivendicazioni delle masse sfruttate a partire da informazioni di prima mano”.
Il marxista italiano Antonio Gramsci (1891-1937) scrisse ironicamente sull’Avanti! (dicembre 1917) che la rivoluzione in Russia era una rivoluzione contro il Capitale, cioé una rivoluzione contro le previsioni effettuate da Marx nella sua opera principale. Ma non era del tutto così. Le rivoluzioni negli Stati avanzati da un punto di vista capitalistico non ebbero luogo per molte ragioni, e le principali rivoluzioni che hanno avuto successo sono avvenute all’interno di società contadine – quelle che Lenin chiamava “l’anello più debole” dell’ordine capitalista. Anche questa era un’elaborazione contenuta nella teoria di Marx al culmine del suo sviluppo, che considerava l’ideologia tanto quanto la struttura. Il lato soggettivo del piano era ostacolato da una serie di processi: lo sviluppo della propaganda contro il socialismo, la crescita di un apparato repressivo, la presa di una “aristocrazia operaia” sul movimento dell’intera classe lavoratrice. E tutto ciò nonostante il fatto che le condizioni oggettive per una rivoluzione producessero crisi a cascata. Quel lato soggettivo – l’agitazione tra le masse, l’esistenza di un partito, lo sviluppo di un marxismo creativo – si sviluppò per molte ragioni negli anelli più deboli, dalla Russia nel 1917 a Cuba nel 1959.
Un rivoluzionario non deve ripetere Lenin, scriveva Mella; un rivoluzionario deve seguire l’indicazione di Lenin di essere creativo con il marxismo. Un rivoluzionario non dovrebbe trattare il marxismo come una teologia – seguendolo alla lettera – né dovrebbe trattare ogni caso singolo come eccezionale. Il punto è comprendere la natura dell’universalità capitalista accanto alla ricca storia di ogni nazione, sviluppando una comprensione dialettica dell’universale e del particolare, e comprendere il carattere generale delle relazioni sociali capitaliste accanto alle modalità specifiche con cui esse sono comparse in ciascun luogo. Questo è quello che fece Lenin, e che contribuì allo svolgimento della rivoluzione in Russia.
Società contadine come quelle di Messico e India, di Cina e Sud Africa hanno assimilato la traduzione del marxismo dal contesto della fabbrica a quello dei campi effettuata da Lenin. Egli elaborò le contraddizioni del capitalismo in Russia, il che gli permise di capire come alcune sezioni della classe contadina nel vasto impero zarista avessero un carattere proletario, in quanto lavoratori agricoli che non possedevano terra in proprio. Sulla base di questa idea Lenin sostenne un’alleanza tra i lavoratori e i contadini contro lo zarismo e i capitalisti. Grazie al suo coinvolgimento nella lotta di massa e allo studio teorico Lenin comprese che i socialdemocratici – la sezione più liberale della borghesia e dell’aristocrazia – non erano in grado di guidare una rivoluzione borghese, per non parlare del movimento che avrebbe condotto all’emancipazione dei contadini e degli operai.
Ciò fu fatto nello scritto del 1905 Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica: forse il primo grande trattato marxista che ha dimostrato la necessità di una rivoluzione socialista, anche in una nazione “arretrata”, in cui gli operai e i contadini si sarebbero dovuti alleare per rompere le istituzioni della loro schiavitù. In questo testo vediamo Lenin evitare l’idea che la rivoluzione russa avrebbe potuto superare lo sviluppo capitalista (come sostenevano i narodniki, i populisti) o che avrebbe dovuto attraversare il capitalismo (come sostenevano i liberaldemocratici). Nessuno dei due cammini era possibile, né necessario. Un genere limitato di capitalismo aveva già compiuto il suo ingresso in Russia – un fatto che i populisti non riconoscevano – e avrebbe potuto essere superato grazie a una rivoluzione operaia e contadina – un fatto che i liberaldemocratici mettevano in questione. In ogni caso il capitalismo non avrebbe fatto avanzare le forze produttive, compito che spettava inevitabilmente ai socialisti. La rivoluzione del 1917 e l’esperimento sovietico confermarono il punto di Lenin.
Avendo stabilito che le élites liberali delle nazioni più povere non sarebbero state capaci di guidare una rivoluzione operaia e contadina, e neanche una rivoluzione borghese, Lenin diresse la sua attenzione alla situazione internazionale. Mentre si trovava in esilio in Svizzera osservò come i socialdemocratici si arrendevano al bellicismo nel 1914 e consegnavano la classe lavoratrice alla guerra mondiale. Frustrato per questo tradimento, Lenin scrisse all’inizio del 1916 l’Imperialismo, in cui sviluppò una chiara concezione della crescita del capitale finanziario e delle imprese monopoliste, come anche del conflitto inter-capitalista e inter-imperialista. Fu in questo testo che Lenin esplorò i limiti dei movimenti socialisti in Occidente – dove l’aristocrazia operaia costituiva una barriera per la militanza socialista – e il potenziale della rivoluzione in Oriente – dove si trovavano gli “anelli deboli” della catena imperialista. Una disamina così lucida dell’imperialismo rese possibile il fatto che Lenin sviluppò poi una posizione molto forte circa i diritti delle nazioni all’autodeterminazione – si trovassero esse all’interno dell’impero zarista o di un qualunque altro impero europeo. Qui troviamo il nocciolo dell’anticolonialismo dell’Unione Sovietica, che si sarebbe poi sviluppato nel Comintern (Internazionale Comunista) dal 1919 al 1943. Fu questo che attirò militanti anticoloniali dalle Indie Orientali alle Ande.
Sulle Ande, José Carlos Mariátegui (1894-1930) scrisse in ‘Anniversario e bilancio’ (Amauta, 1928): “Di sicuro non vogliamo che il socialsmo dell’America Latina sia una copia o un’imitazione. Deve essere una creazione eroica. Dobbiamo dare vita a un socialismo indio-americano con una nostra realtà, un nostro proprio linguaggio”. Cosa fece Mariategui? Si lesse Marx e Lenin e studiò a fondo la realtà sociale della regione andina. La teoria leniniana dell’alleanza operai-contadini fornì un’aggiunta fondamentale al marxismo di Mariategui. Una rivoluzione socialista nel contesto di una società agraria non sarebbe stata possibile senza un’insurrezione contadina contro la morsa del latifondismo. Nel caso del Perù, questa rivolta contadina attinse alle antiche idee di comunità (ayllu) in cui gli indios rifiutavano l’individualismo: come scrisse Mariategui nei Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana (1928), “il comunismo continua ad essere l’unica difesa per gli indios”. L’agente del cambiamento all’interno delle classi produttive del Perù doveva includere le comunità indigene rurali, che erano predominanti. Cercare rivoluzionari solo all’interno del minuscolo settore industriale di Lima avrebbe significato presentarsi alla battaglia contro il capitale con una mano legata dietro la schiena. Siamo di fronte a un’eco dell’appello di Lenin per l’unità tra operai e contadini, ma in questo caso con le comunità indigene inserite nel quadro.
Le comunità indigene rurali erano in grado di produrre un movimento socialista? Negli anni ‘20, quando Mariategui stava sviluppando il suo pensiero, la moda intellettuale prevalente nel considerare le comunità rurali era l’indigenismo, nel senso di un movimento culturale che faceva rivivere e celebrava le forme culturali dei popoli indigeni d’America, ma senza cercare di esplorare il loro potenziale trasformativo. L’indigenismo privava i popoli indigeni della loro forza e li vedeva romanticamente come produttori di cultura ma non di storia. Mariategui reinterpretò questa traduzione in modo più vibrante, e come risorse per la trasformazione sociale guardava allo stesso tempo verso le antiche forme Inca di proprietà comune e produzione in comune e verso le lotte contro i latifundistas del suo tempo. “Quando un popolo è tradizionalmente comunista”, scrisse riferendosi al socialismo Inca, dissolvere i loro sistemi comunitari non li trasforma in piccoli proprietari terrieri, ma consegna la loro terra ai grandi proprietari terrieri. “Una socieètà non può essere trasformata artificialmente, e ancora meno una società contadina profondamente legata alle proprie tradizioni e alle proprie istituzioni legali”, scrisse nei Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana. “Deve essere formata attraverso un processo spontaneo e più complicato”, in cui le vecchie tradizioni sono fatte rivivere all’interno di un sistema democratico.
Il socialismo andino di Mariategui non fu mai un ripristino del passato, di un comunismo premoderno dell’antico mondo Inca: “È chiaro che ci interessa più quello che è sopravvissuto della civiltà Inca che non quello che è morto”, scrisse nel 1928. “Il passato del Perù ci interessa nella misura in cui può spiegare il presente del Perù. Le generazioni che costruiscono pensano al passato come a un’origine, mai come a un programma”. In altre parole, il passato è una risorsa e non una destinazione – ci ricorda di quello che è possibile, e le sue tracce ci mostrano che elementi del vecchio comunitarismo possono essere impiegati nella lotta contro i rapporti coloniali della proprietà privata nel presente. Quando il marxismo è arrivato nel Terzo Mondo ha dovuto essere agile e preciso: imparare dal contesto, capire i modi in cui il capitalismo si trasforma in luoghi nuovi, esplorare le vie della trasformazione sociale per guidare la storia.
In posti come le Ande il marxismo avrebbe subito una morte precoce se non avesse preso seriamente le condizioni concrete in cui si trovavano i lavoratori e gli altri oppressi, così come le aspirazioni sociali di auto-determinazione nazionale. I tentacoli dell’imperialismo si stringevano saldamente contro la sovranità di paesi come il Perù, soffocandoli con crediti e navi da guerra, costringendo i popoli a vite di estrema miseria. Migliorare le condizioni di lavoro e di vita ed essere parte di un movimento anticoloniale in paesi come il Perù significò per i movimenti che si ispiravano al marxismo unire la lotta per la liberazione nazionale a quella per il socialismo. Dovette premere sia sui movimenti che rimanevano nell’orizzonte del capitalismo – quelli che cercavano di migliorare le condizioni di vita – sia su quelli che richiedevano una maggiore rappresentazione nel governo – che cercavano cioè di entrare in sistemi che rimanevano sotto controllo imperiale. Furono questi istanze emancipatorie – attingendo tanto ad antiche idee messianiche quanto al sindacalismo rivoluzionario, all’anarchismo e al marxismo – a legare insieme nelle colonie e nelle semi-colonie le correnti del nazionalismo anti-coloniale e del socialismo, fino a formare quello che chiamiamo marxismo di liberazione nazionale.
Qui è importante fare una pausa e affrontare un fatto che spesso non è considerato quando si guarda al mondo del marxismo. Molti di coloro che divennero marxisti nel mondo coloniale non avevano mai letto Marx. Lessero Marx in vari pamphlet economici e sempre in questa forma fecero il loro incontro con Lenin. A Cuba, per esempio, operai come Carlos Baliño (1848-1926) presentarono Marx ai loro compagni. I libri erano troppo costosi, spesso difficili da reperire – e in ciò il ruolo della censura era un componente centrale. Persone come Baliño, Li Dazhao (1888-1927) in Cina, Josie Palmer (1903-1979) in Sud Africa, Muzaffar Ahmed (1889-1973) in India, Yusuf Salman Yusuf, o Fahd (1901-1949) in Iraq e Dolores Cacuango (1881-1971) in Ecuador provenivano tutti da contesti umili, con scarso accesso alle tradizioni intellettuali da cui è emersa la critica marxista. Ma conoscevano ciò che in essa vi era di essenziale.
Lo impararono a spizzichi e bocconi, spesso da agenti del Comintern (Fahd trasse la sua educazione marxista dall’agente Piotr Vasili), o grazie a soggiorni all’Università Comunista dei Lavoratori d’Oriente, in Unione Sovietica. Non venivano da famiglie borghesi e non ricevevano sovvenzioni dai loro genitori, né ebbero l’opportunità di studiare il marxismo nella sua ampiezza e trovare un loro percorso attraverso borse di studio. Arrivarono al marxismo dalla catena di montaggio e dai campi, dalle prigioni dei dominatori coloniali e dalle organizzazioni nazionaliste in cui affluirono. Attinsero a quello che avevano imparato e svilupparono le loro teorie sia riguardo all’imperialismo sia riguardo al capitalismo a partire da quelle letture e dalla loro esperienza. Leggevano quello che potevano trovare e da lì prendevano quello che poteva aiutarli a sviluppare una teoria e una pratica adeguate alla loro realtà sociale. Mao Zedong espresse questa attitudine nello scritto Rettificare lo stile di lavoro del partito (1942): “I nostri compagni nella scuola di partito non dovrebbero considerare la teoria marxista come un dogma inerte. È necessario padroneggiare la teoria marxista e applicarla, padroneggiarla al solo scopo di applicarla”. Si trattava di uomini e donne che approdarono al radicalismo attraverso la loro vicinanza al popolo, intuendo che l’anticolonialismo doveva fare parte dei loro riferimenti, ma che ciò doveva valere anche per la rivoluzione sociale. Espellere i colonizzatori ed eleggere la borghesia al loro posto non sarebbe stato abbastanza. Entrambi dovevano sparire. Questo è il motivo per cui molti di questi radicali formarono partiti a sinistra di quelli nazionalisti borghesi, ma non così tanto da non poter partecipare insieme alle azioni della lotta anticoloniale. Baliño e Mella formarono il Partito Comunista di Cuba nel 1925; ispirandosi all’opera di José Martì (1853-1895), Baliño e Mella fusero un nazionalismo anticoloniale con la loro idea di socialismo, ciò a cui aspiravano. Si trattava di una prospettiva condivisa nel mondo delle colonie. La maggior parte di movimenti marxisti nel mondo coloniale dovettero scontrarsi con il problema posto dalla presenza della borghesia nazionale – se vederla addirittura come parzialmente progressiva o, invece, come strutturalmente reazionaria una volta salita al potere. Su queste linee i partiti si dividevano, e su di esse il Comintern discuteva fino all’alba.
Il Comintern cercò di essere elastico, ma la limitata conoscenza del mondo di cui disponeva nei primi anni della sua esistenza comportò, alla fine, un carattere fin troppo dogmatico per risultare sempre utile. Intorno alla fine degli anni ‘20, il Comintern propose la creazione di una Black Belt Republic nella regione meridionale degli Stati Uniti, di una Repubblica dei nativi in Sud Africa, e di una Repubblica India lungo la regione andina del Sud America. Vedendo le cose da Mosca, pareva che la teoria delle nazionalità potesse essere facilmente trasportata in terre così distanti.
Per quanto riguardava il Sud America, questa teoria venne discussa alla prima Conferenza Comunista Latino Americana, tenutasi a Buenos Aires nel giugno 1929. Vi furono accesi dibattiti, in cui le posizioni sostenute dal Comintern trovarono l’opposizione di Mariategui e dei suoi compagni. “La costruzione di uno stato autonomo a partire dalla razza india” – scrisse Mariategui in Il problema della razza in America Latina, un testo preparato per la conferenza del 1929 – “non porterebbe alla dittatura del proletariato indio, né alla formazione di uno stato indio senza classi”. Quello che ne sarebbe risultato sarebbe stato uno “stato borghese indio con tutte le contraddizioni interne ed esterne degli altri stati borghesi”. Una opzione migliore sarebbe stata quella di un “movimento di classe rivoluzionario delle masse indigene sfruttate”, che costituiva per loro l’unica via per “aprire un cammino verso la reale liberazione della loro razza”. Il dibattito sugli obiettivi e sulla strategia divenne così accesso che questa fu l’unica Conferenza Comunista Latino Americana a essere tenuta. “Il proletariato indio aspetta il suo Lenin”, scrisse Mariategui citando Luis Valcàrel nel prologo di Tempesta sulle Ande (1927). Né Valcàrel né Mariategui intendevano un Lenin in quanto tale, bensì una teoria che potesse emergere dal movimento per guidarli contro le rigide strutture del passato e del presente. Non sempre fu questa la lezione che venne imparata. Ma oggi è questa la nostra lezione.
Nelle colonie e nelle semi-colonie i rivoluzionari dovettero porsi il problema di una mancanza nello sviluppo delle forze produttive. Pochi vedevano l’intervento delle potenze coloniali come un fattore di progresso per il loro sviluppo sociale, dal momento che solitamente queste potenze coloniali europee collaboravano con i peggiori elementi delle società coloniali al fine di mantenere il loro potere: l’aristocrazia, i latifondisti, il clero, gli intellettuali conservatori. Spesso la politica coloniale significò un pesante intervento sullo sviluppo sociale, che congelava le vecchie forme gerarchiche e ne creava di nuove nel nome della tradizione. Allo stesso tempo la politica coloniale impoveriva la società; saccheggiava la ricchezza sociale e la dirottava verso gli stati nord-atlantici; e creava una desertificazione sociale in aree che in precedenza conoscevano ricche dinamiche culturali e avevano il potenziale per uno sviluppo sociale.
I nazionalisti borghesi affrontavano tali problemi negandoli, e glorificando le tradizioni, si trasse di forme precoloniali o di forme fabbricate durante il colonialismo. Questo genere di revivalismo non faceva altro che peggiorare il pantano, soffocando lo sviluppo dell’economia colonizzata e della sua società. Le rivolte operaie e contadine spinsero i nazionalisti borghesi a comprendere che, se il compito di ottenere l’indipendenza politica era centrale, non poteva essere separato dalla rivoluzione sociale e della rivoluzione contro le condizioni economiche e culturali poste in essere dalle potenze coloniali. Queste potenze lavoravano a stretto contatto con l’aristocrazia latifondista e con la borghesia per soffocare la società.
Il socialista egiziano Salama Musa (1887-1958) è emblematico di questa precoce coscienza rivoluzionaria nelle colonie. Musa fu colpito dalle gerarchie della sua società e dall’apparente futilità dei suoi tempi. Fu nel socialismo – una parola che tradusse in arabo come ishtirakia – che trovò una risposta per la sua epoca. Per Musa vi erano due ostacoli al progresso: le potenze coloniali (principalmente l’Inghilterra) e il tradizionalismo. Entrambi impedivano alla società egizian di tirarsi fuori dal suo vicolo cieco, fatto di sistemi educativi atrofizzati, fame diffusa, e un pensiero religioso che si mascherava da ideologia egiziana autentica. Musa non era convinto che la Nahda, l’illuminismo del mondo arabo, sarebba bastata, dal momento che non sembrava in grado di sfuggire al tradizionalismo e al peso del colonialismo. Cosa intendeva Musa quando scriveva nell’ Al yawm wa al-ghad (1928): “Per quanto il sole sorga a Oriente, la luce viene da Occidente”? Intendeva che l’Occidente era la sorgente della ragione? Non era la ragione che veniva da Occidente, bensì l’Occidente che – grazie al furto delle risorse altrui e alla conseguente capacità di svilupparsi da un punto di vista sociale – aveva prodotto quegli sviluppi nel pensiero (il marxismo, il socialismo fabiano) con cui bisognava confrontarsi in posti come l’Egitto. Non era necessario seppellirsi in una tomba di nativismo, né di adottare l’ideologia dei padroni coloniali. Il punto era trovare riferimenti e concetti in quanto di meglio aveva prodotto il pensiero, al fine di sviluppare la critica della società in cui ci si trovava. Ciò fu quanto Musa provò a fare in I nostri doveri e i compiti dei paesi stranieri (1930), Gandhi e la rivoluzione indiana (1934) e Egitto: il posto in cui cominciò la civiltà (1935). L’idea di “arretratezza” (takhalluf) non fu abbandonata facilmente. Ai rivoluzionari non bastava criticare il pensiero occidentale per il suo disprezzo nei confronti delle colonie; il loro compito consisteva nello sviluppo di una teoria e di una pratica che facessero uscire dalla dura realtà della situazione coloniale. Hassan Hamdan (1936-1987), noto come Mahdi Amel, affrontò direttamente questo problema. In Colonialismo e arretratezza, pubblicato nel giornale del Partico Comunista Libanese al-Tariq nel 1968, Mahdi Amel scrisse: “Se davvero volete che veda la luce un pensiero marxista che realmente ci appartenga e che sia in grado di vedere la realtà da una prospettiva scientifica, non dovremmo cominciare con il pensiero marxista e poi applicarlo alla nostra realtà, ma piuttosto cominciare con la nostra realtà come momento fondativo”. Se si comincia la propria analisi con lo sviluppo storico della società e delle sue risorse culturali, “solo dopo il nostro pensiero può diventare veramente marxista”. La realtà della condizione coloniale doveva essere esplorata, e il marxismo doveva essere rielaborato in modo da prendere in considerazione quella situazione. Gli arabi portano lo stigma di essere “arretrati”, scrisse Mahdi Amel. Come se l’unica cosa di cui sono capaci sia il fallimento. Ma la rovina degli arabi non derivava da un qualche aspetto essenziale della loro cultura, bensì da ciò che li aveva colpiti. Un secolo di dominazione coloniale aveva alterato la struttura della politica e dell’economia, così come quella della società. Il vecchio notabilato arabo era allineato a un nuovo mondo, o del tutto assorbito al suo interno, in cui si trovava solo a rappresentare forze che risiedevano altrove. Le nuove élites che stavano emergendo rappresentavano forze esterne, non le loro popolazioni. Quando Parigi starnutiva, loro prendevano il raffreddore. L’ambasciatore degli Stati Uniti divenne più importante delle autorità elette. L’esperienza di quanto veniva definito “arretratezza” non era colpa degli arabi, suggeriva Mahdi Amel; si trattava del modo in cui le loro vite erano state strutturate. Il marxismo, sosteneva, avrebbe dovuto prendere questa idea seriamente in considerazione.
Amilcar Cabral, del Partito Africano per l’Indipendenza di Guinea e Capo Verde (PAIGC) comprese l’interconnessione tra le forme di resistenza politica, economica e culturale. “Dobbiamo ricordarci che produrre, avere lo stomaco pieno, praticare una politica sana e fare la guerra non è abbastanza”, disse in un seminario di quadri del PAIGC nel 1969. Riguardo alla resistenza culturale, Cabral delineò il seguente compito: “mentre liquidiamo la cultura coloniale e gli aspetti negativi della nostra propria cultura nel nostro spirito, al nostr interno, dobbiamo creare una nuova cultura, anch’essa basata sulle nostre tradizioni, ma rispettando tutto quello che il mondo ha guadagnato al giorno d’oggi e che può servire al popolo”. All’interno di questo progetto di creazione di una nuova cultura fuori dai residui del colonialismo, nella tradizione marxista di liberazione nazionale si svilupparono esperienze diverse e molto ricche. Da Cuba all’Indonesia – entrambi cruciali per la costruzione del marxismo di liberazione nazionale – l’organizzazione della cultura aiutò a chiarificare e costruire un cammino che partiva dalla dominazione coloniale e imperialista e si snodava in avanti. Più o meno a quest’epoca lo studioso pakistano Hamza Alavi (1921-2003) approntò la sua teoria del modo di produzione coloniale; il marxista egiziano Samir Amin (1931-2018) produsse studi sul modo di produzione tributario; e in India fiorì un dibattito sui modi di produzione. L’idea di base condivida da questi intellettuali era che il sistema imperialista non avrebbe permesso lo sviluppo delle forze produttive nelle colonie. Mahdi Amel vedeva l’arretratezza non in termini culturali, ma nei termini del modo in cui l’ordine globale era stato strutturato: il Sud doveva fornire materie prime e mercati, mentre il Nord doveva produrre le merci finite e appropriarsi della maggior parte della ricchezza sociale. La sensazione di “arretratezza” rifletteva quest’ordine. La confusione politica nel Sud era collegata anche alla sua subordinazione economica. Tutti questi pensatori – con maggiore o minore successo – cercarono di fornire una spiegazione teorica a questo stato di cose. Non era sufficiente focalizzarsi sulla subordinazione culturale; bisognava produrre una teoria e una pratica che promuovessero la trasformazione politica, economica, sociale e culturale.
Nel 1948 le Nazioni Unite fondarono un’agenzia speciale per l’America Latina, la Commissione Economia per l’America Latina (CEPAL), il cui lavoro nel corso dei due decenni successivi avrebbe inaugurato la “scuola della dipendenza” nello studio dello sviluppo ineguale. Il Cepalismo – l’approccio del Cepal – analizzò gli ostacoli strutturali che impedivano lo sviluppo dell’America Latina. Raul Prebisch, il primo direttore del CEPAL, sosteneva che i paesi dell’America Latina fossero intrappolati in un ciclo di dipendenza nei confronti delle vecchie potenze coloniali. In quanto produttori di beni primari e mutuatari di capitale, gli stati dell’America Latina si trovavano in una posizione subordinata. I termini in cui era organizzato il commercio tra gli stati dell’America Latina e le vecchie potenze coloniali avvantaggiavano queste seconde, dato che i prezzi dei beni primari – ad esempio il cibo nelle prime fasi di lavorazione – toccavano il loro picco più rapidamente rispetto ai prezzi dei beni lavorati e dei servizi. Né Prebisch né la maggior parte del suo team erano marxisti, ma non c’è dubbio che la tradizione della teoria della dipendenza influenzerà una generazione di marxisti e di nazionalisti di sinistra in tutto il Sud America. Due decenni dopo l’importante manifesto della Cepal scritto da Prebisch nel 1948, una giovane generazione di marxisti – che includeva Ruy Mauro Marini, Theotonio dos Santos e Andre Gunder Frank, – sviluppò la teoria della dipendenza, un’arena cruciale per la crescita del marxismo di liberazione nazionale. Questi teorici presero posizione contro le posizioni che circolavano in precedenza, secondo cui l’America Latina giaceva in una condizione feudale o semi-feudale – e dunque necessitava di una scarica di capitalismo per mettersi in moto verso la modernità. La scuola della dependencia (dipendenza), attingendo al cepalismo, era dell’opinione che il sistema-mondo capitalista avesse assorbito l’America Latina nella sua orbita, in una posizione subordinata, non nel ventesimo secolo ma già dall’inizio del periodo della colonizzazione. Accanto alla scuola della dipendenza ci fu il lavoro di persone come Samir Amin, che sosteneva che il capitalismo stesse creando una polarità a livello mondiale tra i vecchi centri coloniali e le vecchie periferie colonizzate. Nel 1956 Amin sostenne che il processo di accumulazione del capitale su scala mondiale aveva dato forma all’agenda politica della periferia e aveva costretto le nazioni della periferia ad adattarsi ai bisogni e agli interessi del centro. Questo è il meccanismo che Amin chiamava “adeguamento unilaterale”. Significava che la cornice politica degli stati che si erano recentemente resi indipendenti era già stata costretta a piegarsi a un rapporto di dipendenza nei confronti della globalizzazione capitalista. La possibilità di un’uscita dalla globalizzazione capitalista e dall’illusione dello sviluppo sembrava remota senza una piena rottura dei tentacoli dell’adeguamento unilaterale, una rottura che Amin chiamò delinking.
Fu questa tendenza – dal cepalismo alla teoria del delinking di Amin – che fornì gli strumenti teorici alle lotte di liberazione nazionale da Cuba (1959) al Burkina Faso (1983) ed ai processi rivoluzionari in corso ai nostri giorni in paesi come la Bolivia e il Venezuela. Nel 1966 il governo cubano ospitò una serie di stati rivoluzionari e di movimenti di liberazione nazionale per la Conferenza della Tricontinental. Le discussioni rimasero soprattutto sul piano politico; i discorsi spaziavano dalla difesa dei conflitti armati delle forze di liberazione nazionale, dal Vietnam alla Guinea Bissau, fino alla denuncia della riproduzione della povertà ad opera dell’imperialismo guidato dagli USA. Si parlò poco di teoria marxista o dell’ordine economico mondiale. Esso era dato per scontato. Alle forze di liberazione nazionale era chiaro che il marxismo fosse il loro punto di riferimento e che le varie versioni della teoria della dipendenza fossero la cornice comune a cui fare riferimento. I discorsi di Fidel Castro degli anni ’60 mostrano come facesse affidamento sullo spazio teorico che andava dal cepalismo al delinking, dalla teoria della dipendenza alla rottura dell’adeguamento unilaterale.
Questa diffusa lettura dello sviluppo e del sottosviluppo costituiva la base di istituzioni e piattaforme come quella del Movimento dei paesi Non Allineati (1961), in cui confluivano paesi che avevano differenti configurazioni di classe. Questa unità di visione è evidente nella risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1974 a proposito del Nuovo Ordine Economico Internazionale, che si impegnò a ridisegnare le relazioni mondiali in modo da superare lo scambio ineguale nel commercio, nello sviluppo e nella finanza. Per questa visione marxista del mondo era centrale rompere l’imperialismo della finanza, sotto forma ad esempio del debito. La crisi del debito dei primi anni ’80 impedì agli stati da poco indipendenti di definire le proprie agende politiche. Castro avrebbe detto spesso – come fece nel 1985 quando inaugurò un movimento mondiale contro il debito globale – che doveva essere fondato un nuovo ordine economico internazionale, al fine di “eliminare le relazioni diseguali tra le nazioni ricche e le nazioni povere ed assicurare al Terzo Mondo il suo diritto inalienabile a scegliere il proprio destino, libero dagli interventi imperialisti e da quei parametri del commercio internazionale che generano sfruttamento”.
Come gli altri marxisti coinvolti nella liberazione nazionale, Castro non si faceva illusioni sulla borghesia e le oligarchie del Sud – persone il cui allineamento di classe era a fianco dell’imperialismo, più che contro di esso. La loro non era una liberazione nazionale che avrebbe trasferito il potere alla borghesia e alle oligarchie, bensì una lotta che avrebbe fatto accelerare le forze rivoluzionarie, per andare oltre lo stato borghese. Dal momento che nella periferia le classi più rivoluzionarie erano spesso quelle più escluse, rispedirle nei campi e nelle fabbriche dopo che avevano fornito la base politica per una ricostruzione delle relazioni sociali sarebbe stato un tradimento della storia.
I dibattiti sulla teoria della dipendenza e sullo scambio diseguale hanno spaziato da Santiago (Cile) a Nuova Delhi (India). Per i marxisti di questa parte del mondo – la periferia, seguendo la geografia della teoria della dipendenza – era importante studiare da vicino il processo di accumulazione su una scala globale (come indica il titolo del libro di Amin), ma anche le relazioni di classe interne ai loro paesi che riflettevano relazioni internazionali di potenza. Un marxismo creativo era la necessità del momento, ma lo era pure il sospetto della borghesia nazionale, che avrebbe spesso usato il proprio status di periferia per lo sfruttamento dei propri lavoratori contro la borghesia metropolitana. I disallineamenti nel comunismo internazionale tra URSS, la Repubblica Popolare Cinese, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e la Repubblica Popolare Socialista d’Albania prendevano piede con queste discussioni in gioco; ed ebbero un profondo impatto sui movimenti di sinistra del Sud del mondo.
In India, per esempio, il dibattito interno al movimento comunista tra il 1951 e il 1964 fu deciso e approfondito. Una sezione (la minoranza) sosteneva che, al tempo, la borghesia indiana avrebbe potuto essere alleata della classe lavoratrice indiana e dei contadini, in virtù della propria condizione periferica. Un’altra sezione (la maggioranza del movimento comunista) era dell’idea che la borghesia indiana non fosse alleata né dei lavoratori né dei contadini, e che l’URSS fosse sì una nazione amica ma non una sorgente di teoria e prassi rivoluzionarie. Questo dibattito portò alla spaccatura del 1964 del movimento comunista indiano, da cui nacquero il Partito Comunista d’India o CPI, che rappresentava la posizione minoritaria, e il Partito Comunista d’India (Marxista) o CPI(M), che rappresentava la maggioranza.
Uno dei maggiori teorici del CPI(M) era EMS Namboodirapad (1909-1998). EMS, come era conosciuto, fu un radicale nella lotta di liberazione indiana e uno dei leader del Congress Socialist Party, una porzione del gruppo per la liberazione anticolonialista del Congresso. Nato in quello che sarebbe poi diventato lo stato di Kerala, EMS e altri membri del Congress Socialist Party si unirono al Partito Comunista d’India. Nel 1957, EMS guidò il Partito Comunista d’India alla vittoria nelle elezioni nazionale nel Kerala. Furono messi in gioco profondi cambiamenti strutturali nel Kerala; e ciò suscitò le ire della borghesia, il cui principale partito politico, il Congresso – in collusione con la CIA – finì per rovesciare il ministero di EMS nel 1959. Il lavoro duro e innovativo dei comunisti li rimise in carica nel Kerala dal 1967 al 1969, con EMS primo ministro. EMS guidò il CPI(M) per quattordici anni come segretario generale del partito dal 1978 al 1992. Durante questo periodo, studiò e scrisse materiale proprio sulla storia e sulla politica indiane. Sosteneva la tesi per cui era necessario coinvolgere le tradizioni e la storia indiane da una prospettiva marxista, per tracciare concetti e dinamiche essenziali per la rivoluzione indiana. In altre parole, il materialismo storico e il materialismo dialettico non potevano essere adottati dalla tradizione europea senza una loro seria ricostruzione.
Dal suo minuto di dissenso del 1939 di fronte alla relazione sul Comitato per l’inchiesta sulle proprietà in Malabar, ai suoi saggi degli anni Settanta su casta e classe, EMS ha esplorato il metodo marxista per interpretare la storia e la società dell’India. Secondo il materialismo storico, la narrazione della storia descritta da Marx, la società di è mossa attraverso due fasi: dalla schiavitù al feudalesimo, e successivamente dal feudalesimo al capitalismo. Niente di tutto ciò è avvenuto in India. Come EMS scrisse in The Indian National Question: “In contrasto a questa trasformazione bifase – da schiavistico a feudale e da feudale a capitalistico – l’India è rimasta ancorata allo stesso vecchio ordine nel quale la stragrande maggioranza della popolazione stava tra gli oppressi e tra le caste di retrovia. Questo è il significato di quello che Marx chiamava la società “immobile” dell’India, dove i villaggi non erano toccati dalle guerre e dagli sconvolgimenti dei livelli più in alto.
La società divisa in classi e l’egemonia del brahmanesimo hanno comportato il peggiore dei danni sulla società indiana. Il sistema delle caste non solo ha mantenuto le masse oppresse in schiavitù; ma l’egemonia ideologica del brahmanesimo ha anche significato una perdurata stagnazione della scienza, della tecnologia e infine delle forze produttive. Questo processo ha indebolito l’India, lasciando aperta la porta al colonialismo europeo. Come scrisse EMS nel 1989, “la sconfitta delle caste oppresse sotto le mani della signoria brahmanica, e del materialismo sotto l’idealismo, costituì l’inizio della caduta della civiltà e cultura indiane, e condusse in ultima istanza alla perdita di un’indipendenza nazionale”.
Sin dall’ottavo secolo, dal tempo di Adi Shankara, la stagnazione della storia indiana è stata incapsulata in una società feudale basata sulle caste. Questo ordine di casta, attraverso le sue giustificazioni religiose, era in grado di contenere le proprie contraddizioni. Ciò significa che, nonostante lungo la storia indiana siano state poste sfide all’ordine delle caste con la ribellione, nessuna di queste rivolte è stata in grado di assalire frontalmente le caste e di rompere la loro gerarchia in modo significativo.
Né il colonialismo britannico né la borghesia indiana nello stato post-coloniale hanno avuto un qualche reale interesse a smantellare le caste. La conversione dei signori feudali in padroni capitalisti, e quella dei servi della gleba in proletariato agricolo, non hanno spezzato la spina dorsale del feudalesimo. Le trasformazioni hanno semplicemente sovrapposto le relazioni sociali capitalistiche su quelle basate sull’ordine delle caste. “In India”, scrisse EMS, “molte delle forme di sfruttamento del sistema precapitalistico stanno continuando, alcune di esse seguendo la forma originale, altre in forme mutate. Ed esiste, al fianco di esse, un nuovo sistema di sfruttamento che è il risultato dello sviluppo capitalista”. Il proletariato agricolo ha sperimentato un severo impoverimento a causa dei vecchi rapporti feudali: il povero nei campi è diventato più povero mentre i vecchi usi feudali permettevano ai proprietari di trasferire tutto il peso dell’agricoltura sui loro lavoratori, raccogliendone ogni profitto. Che, in ogni caso, è stato reinvestito nella modernizzazione agricola in minima parte. Le formazioni sociali precapitaliste coltivate dal colonialismo e dalla borghesia nazionale furono sistematicamente compromesse dai movimenti popolari per l’India indipendente. EMS ha tracciato le potenzialità interne alla società indiana, individuando le opportunità e i freni per il progresso sociale. Consapevole della particolare oppressione di casta e della religione onnipresente nella società indiana, EMS ha combattuto contro l’organizzazione popolare che seguiva questi solchi. Uno non può lottare contro l’oppressione delle caste nel solco di una casta; al contrario, questa oppressione doveva essere combattuta coordinando il popolo in organizzazioni unite di classe, che comprendessero e enfatizzassero il ruolo particolare delle caste nella società indiana. Come scrive nel suo saggio Once Again on Castes and Classes (1981):
Dovevamo e dobbiamo tuttora combattere una battaglia su due fronti. Schierati contro di noi da un lato troviamo coloro che ci contestano un nostro presunto “abbandono dei principi del nazionalismo e del socialismo”, dal momento che difendiamo cause “settarie” come quelle delle caste oppresse e delle minoranze religiose. Dall’altro lato, ci sono quelli che, difendendo le masse delle caste oppresse, di fatto le isolano dalla corrente principale dell’unità delle lotte proletarie, che sarebbero irrispettose delle caste, delle comunità e via così.
Ma il collante dell’unità non deve dissolvere i problemi di umiliazione sociale sperimentate dalle classi oppresse, dalle donne, dagli adivasis (comunità tribali), o da coloro che soffrono la violenza delle gerarchie di classe insieme alla violenza di altri tipi di gerarchie. Queste questioni andavano discusse. Occorsero molti decenni al movimento comunista indiano per combattere nel delicato equilibrio tra un bisogno di unità tra sfruttati e una particolare attenzione per alcuni tipi di oppressioni sulle faglie delle divisioni sociali. Le via organizzativa iniziale proposta dal comunismo indiano era di usare le strutture di organizzazione di classe per attaccare apertamente l’oppressione delle caste, il plebiscitarianismo religioso e lo sciovinismo feudale maschile. Ma presto divenne chiaro che non era abbastanza.
La classe lavoratrice non è composta di anonimi corpi di lavoratori. È costituita da persone con un retroterra di gerarchie sociali e umiliazioni che richiedono uno sforzo specifico per essere combattute. Ecco perché alla fine il comunismo indiano ha sviluppato delle piattaforme organizzative dagli anni Ottanta in poi, come l’All-India Women’s Democratic Association (AIDWA) e il Tamil Nadu Untouchability Eradication Front, che concentrava la propria attenzione su alcune specifiche gerarchie che era il caso di combattere all’unisono con le richieste di classe della sinistra. Il punto è chiarito da Brinda Karat, una leader del CPI(M) e ex-presidente dell’AIDWA:
Una concezione meccanica della classe è spesso problematica. Quando Marx diceva “lavoratori di tutto il mondo unitevi”, non parlava gli uomini lavoratori. Siamo incapaci di unire le varie forme del doppio fardello che le donne lavoratrici sopportano, come parte integrale della nostra lotta. Tutte le rivoluzioni vittoriose hanno mostrato il ruolo critico che le donne lavoratrici nella rivoluzione. Sappiamo che la rivoluzione di Febbraio in Russia cominciò dalle massicce manifestazioni delle donne lavoratrici.
A parte il genere, nella nostra esperienza in India ci sono sezioni interne alle classi lavoratrici che affrontano un’oppressione aggiunta e una discriminazione sulla base della casta, con un’ampia porzione dei cosiddetti intoccabili, i Dalit, relegata allo scalino più basso della scala sociale. Le caste operano come strumento per l’intensificazione dell’estrazione di plusvalore per i Dalit. Un esempio simile è quello dell’assalto ai diritti delle comunità Adivasi (un gruppo tribale), con la sottrazione da parte di imprese di terre e foreste, e con la distruzione di storie, culture, lingue e stili di vita. In India nessuna lotta di classe può vincere senza fronteggiare al tempo stesso la gerarchia ereditaria del sistema delle caste, che è contro i Dalit o riguarda questioni specifiche dei lavoratori Adivasi. Penso che questo fatto sarebbe altrettanto rilevante sulla questione della razza, sulla discriminazione religiosa o contro gli immigrati di altri paesi.
Questi aspetti sono cresciuti nell’ultimo secolo e le lotte di classe che li ignorano di danneggiano e indeboliscono, scoprendo il fianco a legittime accuse di essere razziste o a favore delle caste. Così, la coscienza di classe deve necessariamente includere la coscienza degli sfruttamenti particolari che i lavoratori potrebbero incontrare, a causa della loro casta o della loro razza o del loro genere.
Mentre le lotte in India si misuravano con la loro stessa complessità, in Brasile Heleith Saffioti (1934-2010) si è immersa a fondo tra le acque del movimento per la liberazione durante il periodo della lunga dittatura (1964-1985), per comprendere quello che chiamava il “nodo”. Le maglie del capitalismo, del razzismo e del patriarcato, spiegava, si stringono in uno stretto “nodo”, che pesa assai sulla capacità delle forze sociali di avanzare un programma di emancipazione. Come conseguenza dell’imperialismo, alcune parti del mondo – soprattutto i continenti di Africa, Asia, Sud America – sono state trattenute in una situazione permanente di deflazione salariale. I lavoratori in queste aree del pianeta erano impossibilitati ad alzare i loro salari e i loro standard di vita a livelli accettabili. Questa deflazione dei salari ha reso la questione della riproduzione sociale virtualmente impossibile, con il costo sociale della riproduzione della classe lavoratrice e dei contadini – già allora largamente precaria e informale – che ha gravato sempre più sulle donne. Saffioti, nel suo famoso Women and Class Society, sosteneva che le donne nelle nazioni a capitalismo avanzato non potevano emanciparsi, poiché il capitalismo anche in quei paesi si fondava sulla struttura familiare – cioè sulle donne – per poter sostenere i costi della riproduzione sociale. Se era questa la situazione in quei paesi, la pressione sulle donne del Sud [del mondo] era molto maggiore. La società di classe, scriveva Saffioti, è fondata su gerarchie sociali di genere, razza e etnia, e accesso alle risorse. La convinzione che non ci possa essere socialismo senza femminismo era la guida del lavoro di Saffioti. Né può esserci socialismo senza combattere razzismo e intolleranza religiosa. Il “nodo” doveva essere posto a verifica direttamente con la tradizione marxista.
LEGGERE IL MARXISMO DELLA LIBERAZIONE NAZIONALE
Uno dei limiti della comprensione convenzionale del marxismo, è il concetto per cui la “teoria” viene elaborata in Europa e in Nord America, mentre la “prassi” prende luogo nel Sud del mondo. Ci si aspetta che i rivoluzionari del Sud scrivano trattati, manuali, appunti veloci sui loro movimenti, ma non che contribuiscano al marxismo in forme sostanziali. La domanda che viene spesso sollevata è: cos’hanno scritto Mao Zedong, Ho-chi Minh e Che Guevara di reale importanza? I manuali di guerriglia rivoluzionaria sono utili, sostiene questa prospettiva, ma non sono decisivi nei confronti di una comprensione delle mutazioni capitalistiche e imperialistiche. In parte si tratta di arroganza. Per il resto è mancanza di comprensione del ritmo di lavoro che i nostri movimenti richiedono per i nostri intellettuali e leader.
Decenni fa, Perry Anderson scrisse che “il tratto caratteristico ma nascosto del marxismo occidentale come sistema è che… è il prodotto di una sconfitta”. Ma il marxismo nel Sud del mondo non è stato del tutto sconfitto in quanto movimento politico. Continua a lottare in avanti, con la sua guida radicata in queste lotte, non ancora condannato ad allontanarsi dai fronti di battaglia. I testi non saranno sempre elaborati in una maniera teoreticamente elevata, scritti come sono al lume di candela mentre il fragore della protesta scroscia intorno a loro. Il lavoro deve essere preso sul serio e studiato per il suo stile e per i suoi contenuti, per le innovazioni innestate in quei testi che, in forme creative, portano avanti il pensiero rivoluzionario.