Il titolo di questa newsletter, “Ho il cuore in gole”, è tratto da Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon (1952). In un capitolo intitolato “L’esperienza vissuta del Nero”, Fanon scrive della disperazione che produce il razzismo, dell’immensa ansia di vivere in un mondo che ha deciso semplicemente che certe persone non sono umane o non lo sono abbastanza. Alle vite di queste persone, figli di un dio minore, viene assegnato un valore inferiore a quello delle vite dei potenti e dei possidenti. Una divisione internazionale dell’umanità fa a pezzi il mondo, gettando masse di persone nel fuoco dell’angoscia e dell’oblio.
Quello che sta accadendo a Rafah, la città più meridionale di Gaza, è orribile. Dall’ottobre 2023, Israele ha ordinato a 2,3 milioni di palestinesi di Gaza di spostarsi verso sud, mentre le forze armate israeliane hanno costantemente spostato i loro cannoni attraverso le zone umide di Wadi Gaza fino ai confini di Rafah. Chilometro dopo chilometro, mentre l’esercito israeliano avanza, la cosiddetta zona sicura si sposta sempre più a sud. A dicembre, con grande crudeltà il governo israeliano ha affermato che la tendopoli di al-Mawasi (a ovest di Rafah, lungo il Mar Mediterraneo) era la nuova zona sicura. Con una superficie di soli 6,5 chilometri quadrati (la metà dell’aeroporto londinese di Heathrow), la presunta zona sicura all’interno di al-Mawasi non è neanche lontanamente sufficiente a ospitare l’oltre un milione di palestinesi che si trovano a Rafah. Non solo è assurdo che Israele dice che al-Mawasi è un rifugio; secondo il diritto bellico una zona sicura deve essere concordata da tutte le parti.
Non solo Israele ha iniziato a bombardare Rafah, ma ha anche inviato frettolosamente dei carri armati per occupare l’unico valico di frontiera attraverso il quale i pochi camion al giorno erano autorizzati a entrare. Dopo aver letteralmente sequestrato il confine di Rafah, Israele ha impedito completamente l’ingresso degli aiuti a Gaza. Affamare i palestinesi è da tempo una politica israeliana, che ovviamente è un crimine di guerra. Impedire l’ingresso degli aiuti a Gaza fa parte della divisione internazionale dell’umanità che ha determinato non solo questo genocidio, ma anche l’occupazione delle terre palestinesi a Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania dal 1967 e il sistema di apartheid all’interno dei confini definiti da Israele dopo la Nakba (“Catastrofe”) del 1948.
Un’occupazione impone una condizione strutturale di violenza agli occupati. Per questo motivo il diritto internazionale riconosce a chi è occupato il diritto di resistere. Nel 1965, nel pieno della lotta della Guinea Bissau contro il colonialismo portoghese, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 2105 (“Attuazione della Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali”). Vale la pena leggere attentamente il paragrafo 10 di questa risoluzione: “L’Assemblea Generale… [riconosce] la legittimità della lotta dei popoli sotto il dominio coloniale per esercitare il loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza e invita tutti gli Stati a fornire assistenza materiale e morale ai movimenti di liberazione nazionale nei territori coloniali”. Qui non c’è ambiguità. Coloro che sono occupati hanno il diritto di resistere e, di fatto, tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite sono obbligati da questo trattato ad assisterli. Invece di vendere armi alla potenza occupante, che è l’aggressore nel genocidio in corso, gli Stati membri delle Nazioni Unite – in particolare quelli del Nord globale – dovrebbero aiutare i palestinesi.
L’intenzione di commettere un genocidio è facilmente dimostrabile nel contesto dei bombardamenti di Israele. Nell’ottobre 2023, il presidente israeliano Isaac Herzog ha dichiarato che “un’intera nazione è responsabile” degli attacchi del 7 ottobre e che non è vero che “la popolazione civile non ne era consapevole e non ne era coinvolta”. L’CIG ha sottolineato questa dichiarazione, tra le altre, in quanto esprime l’intento e l’uso da parte di Israele di una “punizione collettiva”, un crimine di guerra genocida. Il mese successivo, il ministro israeliano per gli Affari di Gerusalemme e il Patrimonio culturale, Amichai Eliyahu, ha dichiarato che sganciare una bomba nucleare su Gaza era “un’opzione”, poiché “non ci sono non-combattenti a Gaza”. Prima della pubblicazione della sentenza della CIG, Moshe Saada, membro del parlamento israeliano del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha affermato che “tutti i gazawi devono essere distrutti”. Gli tandard internazionali dimostrano che questi sentimenti corrispondono all’intenzione di commettere un genocidio. Come per “apartheid” e “occupazione”, l’uso del termine “genocidio” è del tutto accurato.
L’ultima volta che sono stato in Palestina, ho parlato con dei bambini delle loro aspirazioni. Quello che mi hanno raccontato mi ha ricordato una sezione de I dannati della terra: “A dodici, tredici anni i contadini conoscono il nome dei vecchi che hanno assistito all’ultima insurrezione e i sogni nei douars [agglomerazioni di tende], nei villaggi non sono i sogni di lusso o di promozione agli esami che fanno i bambini delle città, ma sogni di identificazione a questo o quel combattente, la storia della cui morte eroica provoca ancor oggi copiose lacrime”.
I bambini di Gaza ricorderanno questo genocidio almeno con la stessa intensità con cui i loro nonni ricordano il 1948 e i loro genitori l’occupazione che incombe su questo stretto pezzo di terra fin dalla loro infanzia. I bambini in Sudafrica leggeranno queste righe di Fanon in isiZulu e ricorderanno coloro che sono caduti per inaugurare, trent’anni fa, un nuovo Sudafrica.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della ventesima newsletter (2024) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.