Dinamiche politiche in Belgio e in Europa: le lotte per il cambiamento.
PAP BRUXELLES INTERVISTA MARC BOTENGA DEL PARTI DU TRAVAIL DE BELGIQUE (PTB), EUROPARLAMENTARE DEL GRUPPO GUE-NGL
La comunità di Potere al Popolo! include numerose persone emigrate che con il proprio impegno cercano di capovolgere la funzione della mobilità: da strumento di disponibilità della forza lavoro per il capitale, a spazio di circolazione delle lotte per i lavoratori. Questi militanti all’estero, organizzati in assemblee territoriali di Potere al Popolo!, mettono in piedi connessioni con le forze politiche dei Paesi in cui risiedono con la voglia di contribuire al rinforzamento della solidarietà internazionale.
Sul piano continentale esistono degli esempi di lotta e di sviluppo politico che vedono al centro della scena militante e istituzionale delle organizzazioni importanti come il PTB/PVDA in Belgio. Per comprendere meglio ciò che significa articolazione delle lotte a livello europeo, soprattutto da una prospettiva “interna”, ci siamo rivolti a Marc Botenga, europarlamentare belga che siede nel gruppo GUE/NGL. In questa lunga intervista, rilasciata prima dello scoppio della crisi del coronavirus, Marc sottolinea l’importanza politica di intrecciare le lotte su piano nazionale, europeo e internazionale. Inoltre, dall’intervista emerge con forza l’esigenza di rompere la falsa dicotomia che opporrebbe l’europeismo liberista al nazionalismo, opzioni politiche ritenute da Marc e da noi ugualmente devastatrici delle condizioni di vita delle classi popolari. Un’altra strada è possibile. Buona lettura!
Bruxelles, 6 marzo 2020
Prima delle elezioni europee di maggio 2019, invitammo Marc ad un evento per ragionare su quale deve essere il ruolo di un parlamentare (veste che avrebbe assunto qualche settimana dopo). Per Marc il compito di un rappresentante del popolo è quello di riportare nelle istituzioni le lotte della strada e delle fabbriche. È l’idea di rue-conseil-rue, che tradotto suona come strada-parlamento- strada. Da corollario, si evince che è necessario rafforzare le mobilitazioni sociali se si vuole dare voce alle lotte all’interno delle istituzioni competenti, affinché si crei quel rapporto di forza da cui ne traggano beneficio le classi popolari. Con lui abbiamo fatto un punto sullo stato attuale delle lotte in Belgio e in Europa.
Ci piacerebbe cominciare dall’ecologia e da Greta Thumberg, che ha attraversato anche per le strade di Bruxelles, al momento dello sciopero europeo per il clima, per dire no al Green New Deal proposto dalla Commissione europea. Una domanda pedagogica e una di prospettiva. Perché questa proposta del Green New Deal non ti ha convinto? Come PTB avete elaborato la controproposta del Red Red Green New Deal, di che si tratta?
La Commissione avrebbe dovuto avanzare una proposta giusta, pubblica ed efficace per affrontare l’emergenza climatica. Avrebbe dovuto proporre un cambiamento a livello dei consumi, ma sopratutto della produzione di energia per gestire l’emergenza. Invece, quello che propone è il Green New Deal (GND) che ha l’obiettivo di recuperare innanzitutto la competitività perduta dell’Unione Europea (UE) e di imporsi sullo scacchiere internazionale. La logica che soggiace a questo GND è quella della concorrenza e della crescita economica: invece che porre un limite all’inquinamento stesso, il GND offre per esempio alle multinazionali il meccanismo della “compravendita” dell’inquinamento. Le multinazionali verranno da un lato sovvenzionate per sviluppare delle tecnologie verdi e restare competitive, dall’altro saranno protette in modo tale da conservare il loro margine competitivo, come afferma il testo. Il cambiamento climatico viene visto come un’opportunità commerciale e non come problema a cui porre rimedio. Un’altra logica possibile per affrontare il problema è quella sociale ed è quella da noi sposata, mette al centro il clima e le persone. Abbiamo bisogno di una rivoluzione climatica che comporti una riduzione delle emissioni. La logica sociale vuole che non siano le persone a pagare per questa rivoluzione: un approccio di giustizia ambientale deve prevedere che il costo per la transizione non sia a carico delle persone, ma dei grandi responsabili dell’inquinamento. Concretamente è necessario prevedere un fondo per una transizione giusta che permetta investimenti nei trasporti pubblici (di qualità) e sull’ecologia. Anche l’UE, con il GND, propone un fondo di transizione, tuttavia non ha quasi scopi sociali. Oggi si ha bisogno di investimenti e c’è necessità di farli, tuttavia questi devono essere del pubblico per il pubblico.
Per quanto riguarda la produzione di energia in Europa chiediamoci ora: come la produciamo? Noi del PTB proponiamo un Red Green Deal, ossia un piano ambizioso di investimenti pubblici destinati ai settori pubblici per l’appunto, e che siano socialmente giusti e soprattutto a favore delle energie rinnovabili. Siamo infatti convinti che non può essere la logica del profitto a decidere sulle questioni dei servizi pubblici o sul tipo di energia che uno Stato vuole o meno. Pensiamo che l’energia debba essere una competenza del settore pubblico: per la transizione ecologica a livello energetico, c’è da chiedersi se lo Stato vuole essere attore di questo cambiamento fondamentale, oppure se vuole lasciare le sorti di un settore così importante nelle mani delle multinazionali (praticamente di 5-7 monopoli). Queste ultime, ben consapevoli degli effetti della propria produzione, non debbono decidere ancora una volta anche sulle modalità della transizione. Gli Stati stanno lasciando il potere decisionale nelle mani delle multinazionali che inquinano. Lo dice anche Greta.
In Italia, coloro che si battono per un pianeta da salvaguardare, si trovano a lottare contro gli abusi delle multinazionali, che intrattengono relazioni sia con la criminalità organizzata che con lo Stato. La dura repressione da parte dello Stato ha colpito la coordinatrice nazionale di Potere al Popolo Nicoletta Dosio, che è stata in carcere e poi ai domiciliari per un’azione contro il TAV.
La repressione dei movimenti sociali l’abbiamo vissuta anche in Francia, sia con i Gilet Jeunes sia con il movimento per le pensioni. Ciò dimostra che in Europa c’è una propensione forte alla repressione dei movimenti sociali e questo è molto pericoloso.
Hai appena introdotto quindi la questione delle mobilitazioni per le pensioni in Francia. Dalla controriforma sulle pensioni a punti bloccata grazie alle proteste che ci sono state nel 2018, alla pensione minima richiesta, la rivendicazione sociale incentrata sulle pensioni è sentita moltissimo qui in Belgio. In Francia, Macron vuole portare a casa questa riforma a tutti i costi al punto di ricorrere al famigerato articolo 49-3 [3]. Mélanchon dice che l’impiego di questo strumento è stato suggerito dalla Commissione europea. Anche il PTB ha detto che l’UE è un attore fondamentale nella distruzione di questa prestazione sociale, e che ci sarebbe l’intenzione di privatizzare le pensioni su scala europea. Puoi approfondire questa tendenza e cosa credi si possa fare per ostacolarla?
Partendo dalla seconda parte della domanda c’è da dire ad esempio che la CGT, sindacato francese, ha creato una cassa di resistenza in solidarietà con chi era in sciopero. Il PTB e i sindacati belgi si sono recati in Francia per partecipare alle manifestazioni perché questo tipo di riforme ha una forte dimensione europea. Faccio subito chiarezza: la competenza è nazionale, quindi la riforma è nazionale. La Commissione europea certamente esercita pressione sugli Stati membri affinché cambino il sistema pubblico, ma sono i governi nazionali che nelle sedi europee si mettono d’accordo per trovare una logica comune che verrà implementata in ogni Paese secondo le proprie caratteristiche nazionali. La logica dell’UE è la stessa dei governi nazionali: non deve sorprendere visto che i partiti dominanti a livello nazionale lo sono anche a livello europeo. La logica è quella della privatizzazione delle pensioni, che è in linea con quella della mercificazione dei servizi già portata avanti in passato per altri servizi: banche, trasporto (aereo e ferroviario), energia ecc. Per quanto riguarda le pensioni, la loro strategia comune è la seguente: il sistema pensionistico pubblico, con il suo finanziamento, va cambiato. Meglio, va distrutto: l’idea è di passare da un sistema di contributi previdenziali a un sistema a punti. Questo sistema a punti è aleatorio e arbitrario poiché sarà l’ammontare di punti e non di contributi versati a stabilire quando e come si andrà in pensione. Ma i contributi previdenziali e i punti non sono sinonimi: per sapere quanto valgono i punti si dovranno tenere in considerazione anche le condizioni economico- finanziarie del Paese in quel momento (ad esempio, se lo Stato decidesse, come nel 2008, di salvare le banche, ci sarebbe un buco nelle finanze pubbliche e le nostre pensioni si abbasserebbero). Se queste riforme fossero realizzate, la fiducia verso il sistema pensionistico pubblico si perderebbe determinando uno spostamento verso il risparmio pensionistico privato (prospettiva decisamente allettante per le assicurazioni private o per le banche).
Come hai anticipato, in Belgio nel 2018 siamo riusciti a respingere questo progetto di mercificazione delle pensioni. Il PTB era parte del movimento, popolare e sindacale, che c’è stato contro le pensioni a punti e contro il passaggio dell’età pensionabile dai 65 ai 67 anni. Il governo alla fine ha dovuto abbandonare la pensione a punti. Adesso dobbiamo concentrarci sulla rivendicazione per avere una pensione minima pubblica a 1500€ per tutti e tutte: si tratterebbe di una prestazione solidale della sicurezza sociale. Ad oggi la situazione belga è tale per cui le pensioni sono più basse del costo di una stanza in una casa di riposo. Inoltre, ricordiamo che mediamente un uomo percepisce all’incirca una pensione di 1200€ mentre una donna di 800€. A me pare assurdo! Una pensione minima a 1500€ sarebbe un provvedimento necessario ed è una rivendicazione totalmente realizzabile. Lo strumento che abbiamo scelto per far sì che questo accada è l’iniziativa di legge popolare. Finora abbiamo sottoposto al parlamento una settantina di leggie, ma ne sono state discusse appena un paio. La discussione poi, se così si può definire, è sempre ridicola perché si conclude in due secondi, il tempo di dire no. Se noi vogliamo che questa proposta venga almeno discussa, abbiamo bisogno del sostegno del movimento e di tutte le firme che abbiamo potuto raccogliere. Adesso vogliamo raggiungere la quota di 250 mila firme, anche se ne servono molte di meno.
È importante “osare vincere” facendo proposte che siano radicali – con l’appoggio delle mobilizzazioni popolari – e al contempo completamente realizzabili che ti permettono di rafforzare il movimento. Questa lotta ce lo sta dimostrando: strada- parlamento-strada ci sta permettendo di ottenere delle vittorie e di rafforzare il movimento.
Abbiamo parlato di pensioni, facciamo ora un punto sul tentativo di contenere i salari da parte del padronato su scala europea, tramite la pratica del dumping sociale.
Dagli anni 80 i salari non seguono più l’aumento della produttività e questo ha accentuato le disuguaglianze: una fetta sempre più grande della ricchezza prodotta da noi forza-lavoro continua ad andare nelle tasche delle aziende, senza essere reinvestita nella società reale. La ricchezza è ridistribuita in modo sempre più disuguale e questo determina un aumento del numero dei lavoratori poveri (le cifre ufficiali parlano di 1 su 10). È normale che una resistenza si sviluppi e che non si accolga a braccia aperte la narrativa della Commissione europea che afferma che in Europa sarebbe diminuita la disoccupazione: ma di che tipo di lavoro sta parlando? È pagato decentemente? Il lavoratore diventa più povero anche per la mercificazione dei servizi che deve pagare: la vita è quindi più cara e gli stipendi non seguono l’aumento dei prezzi. Il dumping sociale s’inserisce in questo quadro come uno strumento che aggrava questa situazione, imponendo una concorrenza al ribasso fra classi lavoratrici di diversi Paesi. Il dumping sociale permette ad alcune aziende di utilizzare i lavoratori contro altri lavoratori facendo un gioco a partire dalla differenza di stipendio lordo o di contributi. Il distacco a livello europeo permette ad un’azienda di spostare per un periodo determinato uno o più lavoratori in un altro Paese. La libera circolazione assoluta dei servizi permetterebbe di applicare la legge del Paese d’invio, e il problema per i lavoratori è che in quel determinato Paese gli stipendi sono più bassi. Alcune aziende, supponiamo un’azienda belga, hanno avuto l’intuizione di mettere una sede fittizia in uno di quei Paesi dove il costo del lavoro è più basso, potendo così assumere lavoratori con un contratto slovacco, facendoli poi lavorare in Belgio come distaccati, a un costo minore.
A livello europeo ci sarebbero delle direttive per limitare questo dumping sociale, e anche una nuova direttiva impone di pagare il lavoratore distaccato con lo stipendio previsto dalla normativa del Paese dove opera effettivamente il distaccato. Ma se la direttiva tutela da un punto di vista del salario, non lo fa per quel che vale per i contributi. Una serie di Paesi cercano di rendersi competitivi abbassando i propri contributi previdenziali: la Romania è arrivata a portare i contributi delle aziende alla sicurezza sociale dal 35% al 2,25% del costo del lavoro. Si tratta di un gioco al ribasso sulla sicurezza sociale. Cosa diceva per esempio il governo belga precedente ? Ovviamente ha detto che bisogna abbassare i contributi previdenziali, anche in Belgio, per adeguarsi alla concorrenza straniera. Con tutto quello che implica: diminuendo i contributi previdenziali versati dall’azienda, facendo questa concorrenza verso il basso, le casse della sicurezza sociale si svuotano e quest’ultima viene distrutta. In Europa sarebbe necessario imporre a tutte le aziende che vogliono “usufruire” di questo meccanismo di libera prestazione dei servizi, di pagare gli stessi stipendi e contributi del paese dove lavorano, con contributi di preferenza anche più alti. La concorrenza tra aziende rimane, ma in questo modo si baserebbe sulla qualità, non sulla concorrenza a danno dei diritti dei lavoratori e del cosidetto costo del lavoro come invece accade.
Questa tematica, insieme a quella delle pensioni, ci insegna come sia presente una strategia europea d’indebolimento delle conquiste sociali. L’altro effetto che l’Europa diventi palco di un crocevia di scambi e di lotte che si articolano in questo momento.
Per collegarci alla questione europea e alle lotte che si sviluppano al suo interno, tu sei sempre stato molto attento a queste dinamiche, ad esempio per quel che riguarda le recenti lotte delle lavoratrici e dei lavoratori di Ryanair e Amazon: sarebbe interessante capire lo stato attuale di queste lotte e quali sono gli attori principali. Inoltre, d’accordo che queste questioni abbiano una dimensione europea, ma esiste una sorta di omogeneizzazione circa l’organizzazione e i risultati a questo livello?
Come si diceva per le pensioni, la dimensione europea delle lotte va cercata (anche perché quelle di un Paese ispirano altre lotte in altri Paesi europei). In Croazia per esempio, i sindacati son riusciti a raccogliere 750 mila firme per far cancellare la riforma sulle pensioni. Al di là delle pensioni, anche per la salute ci sono dei movimenti che si guardano anche se non ancora con un’articolazione reale (parlo del Belgio, Francia, Germania, Spagna). A partire dagli anni 70 e 80, il capitale si è unito e organizzato su scala europea e mondiale; anche le istituzioni europee sono state disegnate dalle classi dominanti. Il loro livello di coesione e di unità politica, seppur con varie discussioni e fratture interne, è comunque superiore all’unità che potrebbe esserci nel movimento operaio e sindacale in Europa. Ciò non significa, però, che non stiamo facendo dei passi in avanti.
Giustamente per Ryanair e Amazon, abbiamo visto scioperi contemporanei nelle aziende di diversi paesi: è importante conoscersi tra colleghi e colleghe della stessa azienda in paesi diversi, altrimenti sarebbe difficile articolare e vincere le lotte. Se questo non dovesse accadere si permetterebbe al padrone di mettere una sede contro l’altra. Anche per l’AUDI, quando la direzione minacciava di chiudere lo stabilimento di Bruxelles, c’è stato un movimento in Germania per mantenere aperta la sede belga: e così è stato! Questo per dire che sicuramente oggi non riusciamo ad organizzarci a livello dei 27 paesi, ma forse domani, se riusciamo già a prendere in considerazione 7 o 8 Paesi ed a tenere insieme le lotte, allora potremo vincere. Chi lavorava per Ryanair non aveva diritto al sindacato, né allo sciopero. Convivevano statuti diversi all’interno della stessa azienda e dello stesso aereo. Le lavoratrici e i lavoratori si sono uniti al di là delle lingue, delle nazionalità, degli statuti, dei contratti e hanno costretto la Ryanair a fare un passo indietro. La lotta continua, però quel fatto è molto significativo. I movimenti che si sviluppano nella stessa azienda in paesi diversi permettono grandi passi in avanti.
Per quanto riguarda gli attori che le conducono, non tutte le lotte hanno gli stessi attori. In Belgio il sindacato è molto importante vista la percentuale di sindacalizzazione. È anche vero che alla Ryanair il sindacato non c’era, ciononostante i sindacati hanno sostenuto la lotta dall’Italia al Belgio. Il movimento per il clima ha visto attori diversi dal sindacato. Ritengo però che anche per loro la connessione col sindacato è importantissima perché se si ha un movimento che non ha come soggetto la classe lavoratrice, allora si perde la parte centrale della società e delle lotte.
In diversi paesi, il ruolo del sindacato non è lo stesso e i sindacati hanno un loro programma specifico; la questione è come si può lavorare e lottare assieme con varie organizzazioni e altre persone. Senza il mondo del lavoro però non ci sarà cambiamento e se non lo coinvolgiamo noi, allora lo lasceremo a coloro che fanno demagogia sociale (come il partito fascista nelle Fiandre che ha adottato una retorica sociale alle elezioni – lo vedremo dopo). I risultati sarebbero drammatici.
Vorremmo fare riferimento a uno dei tuoi ultimi interventi sul trattato di libero commercio fra UE e Vietnam. Quanto pesano attualmente questi trattati in Europa e quali sono i rischi per la popolazione?
I primi accordi di libero commercio che si sono stipulati tra UE e USA, e tra UE e Canada hanno in comune il voler distruggere le regole e le norme di protezione che abbiamo qui e lì. Ad esempio, nel quadro dell’accordo europeo Green New Deal, gli accordi di libero commercio con l’Africa hanno lo scopo di accaparrarsi le materie prime locali per produrre batterie in Europa (batterie che comunque non sono così pulite). Questo nuovo partenariato con l’Africa servirà per avere un accesso garantito alle risorse: come ha detto Joseph Borrel, il ministro degli esteri europeo, l’Africa è il nostro backyard. Siamo davanti alla vecchia ma attualissima dottrina Monroe per cui l’America Latina doveva essere a servizio degli Stati Uniti in termini di risorse e popolazione. Trovo sia inquietante, ma almeno ha il merito di svelare chiaramente le intenzioni dell’UE.
Poi c’è la questione dei tribunali speciali di questi trattati. Ovvero, un tribunale di “esperti” che permette alle multinazionali di avere una protezione dell’investimento e dei profitti previsti. Una multinazionale potrà quindi citare in giudizio uno Stato perché quest’ultimo ha limitato la vendita di sigarette, determinando così una perdita del profitto previsto da parte di una multinazionale. Non è una cosa che sto inventando: in Argentina e in Australia sono successe cose simili, anche in Egitto. Il governo ha voluto limitare il prezzo dell’acqua e la multinazionale li ha portati in tribunale. Può succedere che una multinazionale perda dei profitti in seguito a una misura pubblica, ma uno Stato deve essere libero di seguire una logica diversa rispetto a quella commerciale. Tuttavia, anche la sola minaccia per uno Stato di rischiare di essere portato in giudizio ne riduce il campo d’azione. Sembrerà paradossale, ma una spada di Damocle simile, che pende sugli enti pubblici, esiste già a livello europeo: uno Stato deve avvertire la Commissione europea quando vuole adottare certe misure che potrebbero limitare la libera circolazione dei servizi. Ad esempio un comune potrebbe voler adottare una misura per limitare AirB&B, con l’obiettivo di controllare il mercato immobiliare. Per farlo però il sindaco deve mandare prima un messaggio alla Commissione che potrebbe dargli filo da torcere… insomma, un ente locale rischia di scoraggiarsi e di lasciar perdere prima ancora di averci provato.
Dobbiamo però stare attenti a non confondere tutto. Concludere un accordo con il Vietnam non è la stessa cosa che concludere un accordo con gli Stati Uniti. Il Vietnam è riuscito negli ultimi anni, con una politica pubblica forte, a ridurre la povertà in maniera impressionante. Spero continui a farlo e sarà quella la lotta. In più, c’è oggi in Europa chi difende il protezionismo come alternativa. Non sono d’accordo. Più della globalizzazione il problema centrale è il capitalismo. Sarebbe insensato difendere un capitalismo nazionale o europeo come alternativa al capitalismo globale e pensare che una multinazionale europea sia preferibile ad una multinazionale americana. Perché è quella l’essenza del protezionismo, non une qualsiasi dimensione sociale o climatica. Vediamo, per esempio, che l’Unione europea, applaudita dalle multinazionali europee, propone una tassa sul carbonio alle frontiere, ma rifiuta di imporre riduzioni sufficienti alle multinazionali europei. Secondo me una tale tassa sarebbe anche controproducente per la lotta al cambiamento climatico, perché entra in una logica unilaterale e renderebbe sempre più difficile soluzioni collettive al piano globale come l’accordo di Parigi. Poi se l’Unione blocca le importazioni di un paese, quel paese prenderà delle contromisure contre le importazioni UE, finiamo in una guerra commerciale senza che nessuno riduca veramente le sue emissioni.
Recentemente abbiamo visto quello che è successo sul confine turco-greco. Abbiamo visto la Presidente della Commissione europea affermare che la Grecia è lo scudo dell’Unione Europa, che ringrazia la guardia costiera, Frontex e la popolazione civile per gli instancabili sforzi. David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, ha detto che si dovrebbero superare gli accordi di Dublino facilitando così la distribuzione dei flussi migratori. Pensate che questa sensibilità sia sincera, se sì pensate di lavorare insieme ad altri per far avanzare il dibattito in tal senso?
Quello che è successo è terribile, ma dobbiamo far riferimento a quella che si chiama “l’ipocrisia fondamentale”. Noi, Paesi europei, abbiamo diverse forze armate che sono presenti in Siria, Afghanistan, in Libia, in Mali… Abbiamo fatto la guerra in quei Paesi e all’arrivo dei rifugiati che fuggono dal caos, si spara nella loro direzione. Capiamoci: sono gli stati occidentali che causano i flussi, perché destabilizzano, mandano truppe, sostengono dittature, ad esempio in Arabia Saudita, vendono armi ecc. e questa è la risposta che riusciamo a dare a queste persone? Noi dobbiamo denunciare questo modo di ragionare e al contempo affermare che dobbiamo risolvere le cause di queste migrazioni: la questione dei rifugiati è terribile poiché c’è gente che è costretta a scappare per colpa delle nostre guerre. Questa è la prima cosa che va sottolineata.
Poi il sistema europeo non funziona, in particolare gli accordi di Dublino, che prevedono che il Paese in cui arriva la persona è poi responsabile del percorso del richiedente asilo. Succede che se in Belgio troviamo una persona in soggiorno irregolare, potrà essere rimandata in Grecia o in Italia, cioè da dove era arrivata. Questo è tutto il contrario della solidarietà: come la Germania che paga la Croazia per bloccare i rifugiati. Tenendo sempre presente che i migranti non sono così tanti da non poterne gestire il flusso a livello europeo, un sistema europeo dovrebbe prevedere una distribuzione equa e solidale dei rifugiati. Mentre con gli accordi di Dublino, se li lasci tutti in Grecia, in campi terribili, questa scelta diventa un problema (come denunciato dalle associazioni che si occupano di migranti). Gli accordi di Dublino devono essere superati, ma non è una questione nuova: la riforma è stata messa in agenda già in diverse occasioni al Parlamento europeo, solo che al Consiglio gli Stati membri non vogliono discuterla perché ci sono Governi che non accettano le redistribuzioni preferendo tenere i migranti fuori dal confine europeo.
Per concludere, il movimento di solidarietà e quello contro la guerra sono fondamentali: non si può fare astrazione delle cause, noi dobbiamo agire sulle cause. Fare la guerra in un’altra nazione, rubare le materie prime e poi sparare in direzione di un rifugiato… non può essere considerato come un modello questo! Noi vogliamo lavorare sulle cause e intanto dobbiamo rispettare i diritti umani elementari: non si tratta di dare una Mercedes a ogni migrante, come dice falsamente l’estrema destra. Questi due punti devono essere fortemente legati.
A proposito di estrema destra, il Parlamento europeo ha approvato, nel settembre scorso, una risoluzione chiamata “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. In diversi passaggi si pone sullo stesso piano il nazismo e il comunismo e si fa una ricostruzione alquanto discutibile circa lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. A nostro avviso c’è una logica dietro tutto questo, ovvero di negare che possa esistere o essere esistito uno sviluppo politico verso una società più giusta. Che reazione c’è stata da parte della sinistra e del GUE/NGL nei confronti di questa risoluzione?
Innanzitutto, l’equiparazione tra fascismo e comunismo è fondamentalmente sbagliata. L’ideologia fascista si basa sull’idea della gerarchia tra razze e culture. I nazisti teorizzarono che ci sarebbero state “persone inferiori”, alcune delle quali avrebbero dovuto essere sterminate. Il fascismo garantiva le truppe d’assalto necessarie per difendere il capitalismo in tempi di crisi. Il supporto di grandi compagnie e banche tedesche fu decisivo per l’ascesa al potere del partito nazista. L’ideologia comunista è l’opposto: si basa sui principi di uguaglianza e di emancipazione di tutti. Ha lo scopo di porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e rappresenta un’alternativa al capitalismo. Esattamente il contrario. Purtroppo la sinistra socialdemocratica e i verdi hanno in gran parte sostenuto questa risoluzione. Qualcuno di loro si è poi pentito, per via della reazione pubblica che c’è stata da parte degli storici. Hanno di fatto provato a riscrivere la storia, affermando che la causa della Seconda Guerra Mondiale non sarebbe stato il nazismo, ma il patto Ribbentrop- Molotov. Dieci anni fa nessuno avrebbe osato affermare pubblicamente una cosa del genere.
Siamo davanti ad un’operazione politica molto pericolosa, che è già in atto ad esempio in paesi come la Lituania o la Lettonia dove l’anticomunismo serve anche da facilitatore per l’apertura al fascismo. In diverse nazioni, il discorso pubblico incentrato su un anticomunismo viscerale è stato sistematicamente accompagnato dalla celebrazione di forze fasciste storiche. Andando nei Paesi sul Baltico, troviamo musei dove i crimini del comunismo e del sistema sovietico sono esaltati e al contempo vengono celebrati dei presunti eroi locali che stavano con i nazisti, oppure dei gruppi nazionalisti locali. In altri Paesi sono state tolte le statue del periodo comunista e sostituite da quelle raffiguranti gli eroi nazionalisti o collaborazionisti fascisti. Ci troviamo davanti a un cambiamento pericoloso: c’è la dimensione storica che riduce il comunismo a crimini o a reati commessi. Per questo, vorrebbero vietare una maglietta di Che Guevara, oppure in Italia ho sentito un parlamentare di Fratelli d’Italia che ha chiesto lo scioglimento di Potere al Popolo e del Partito Comunista… Non sono manovre politicamente innocenti: sanno che gli unici che possono bloccare l’avvento di una forma di fascismo è la sinistra autentica. Non sto dicendo che è necessario difendere il comunismo sovietico come il nostro modello ideale per l’Europa – anzi si sa che non abbiamo modelli – ma noi crediamo che solo una forza sociale conseguente e autentica può bloccarli ed è nel loro interesse criminalizzare questa opzione politica raccontando delle falsità. Non dico solo a livello politico, ma a livello storico. Noi siamo molto chiari rispetto al modello sovietico o dell’Est dell’epoca, però c’è una verità storica che non si può cambiare. Ciò che è inquietante è la strumentalizzazione della storia che serve ad aprire e legittimare sia la collaborazione coi nazisti, che il fascismo che era presente in tanti Paesi all’epoca.
Qui ci riallacciamo alla domanda sul Belgio e alla teoria degli opposti estremismi, coniata dai giornalisti conservatori italiani che volevano così escludere dall’arena politica i partiti comunisti e fascisti. Pensi che, dopo le elezioni federali di maggio 2019, ci sia stata una dinamica simile in Belgio per escludere gli estremisti di destra del Vlaams Belang (VB) e il PTB dalle negoziazioni per formare il governo federale?
Io vi rispondo partendo dalla Germania. In Germania recentemente doveva essere eletto come presidente di una regione un membro di Die Linke, partito a sinistra del partito socialista. I partiti locali di centro hanno detto “no, noi il partito comunista non lo voteremo”. Quindi hanno preferito, di fatto, trovare un’alleanza con il partito di estrema destra dell’AFD, piuttosto che accordarsi sulla presidenza di Die Linke. In quella votazione vedevi che il discorso di escludere gli cosidetti “opposti estremismi” favoriva l’estrema-destra, permettendo ai partiti di centro a fare una scelta verso destra. In Belgio il rischio è simile, ma diverso.
Nello spettro politico della destra abbiamo sopratutto l’N-VA (partito nazionalista fiammingo di destra dura) e il Vlaams Belang: quando si parla di partito fascista o razzista in Belgio ci si riferisce a quest’ultimo (anche da un punto di vista giudiziario: nel 2004 è stato sciolto per razzismo per poi essere rifondato). Ricordiamo che a maggio del 2019 ci sono state, oltre alle federali, anche le elezioni regionali. Nelle Fiandre, l’N-VA dopo le elezioni ha aperto i negoziati a livello regionale al VB. Fino a un po’ di tempo fa c’era il cosiddetto cordon sanitaire, intorno a quel partito, che lo escludeva dai negoziati e dalla partecipazione al potere. Adesso non è più così: l’N-VA sta legittimando non solo il discorso – questo si sa che i partiti di destra copiano troppo spesso il discorso e le misure dell’estrema destra – ma anche l’idea che un giorno potranno negoziare con loroanche a livello federale. In sostanza, N-VA e VB hanno in progetto di governare insieme nel 2024. Ora si sentono anche voci in quella direzione da parte di altri partiti di centrodestra. Per quanto riguarda il PTB, non siamo mai stati invitati dal Re per le consultazioni per formare il governo federale: sono state coinvolte una decina di esponenti di tutti i partiti, tranne il PTB e il VB.
Visto che i partiti tradizionali rifiutano di sentire il messaggio sociale delle elezioni, abbiamo organizzato una manifestazione in marzo portando in piazza 10 mila persone e siamo l’unico partito di questo Paese che è capace di farlo. Il messaggio delle elezioni era profondamente sociale e non ci sorprende: quando facciamo i sondaggi su dei temi specifici, ad esempio sulla pensione minima o su una tassa sui milionari, vediamo che l’80% della gente al sud è d’accordo con queste misure e la stessa percentuale si registra al nord. Per quanto sia vero che il PTB è elettoralmente più forte al sud – e che il nord subisce un’egemonia forte di destra – su questi temi vediamo che esiste un’unità belga (senza dimenticare che al nord abbiamo registrato un ottimo risultato del nostro partito e che gli ultimi sondaggi ci danno in forte crescita). Tuttavia, per ottenerla concretamente dobbiamo mobilitarci contro il piano della destra nazionalista che vuole distruggere il Paese dividendolo nei prossimi cinque anni. Per portare a termine questo progetto, i partiti della destra nazionalista e l’estrema-destra stanno prendendo in ostaggio il risultato e il messaggio sociale delle elezioni di maggio 2019. Per far sì che ci si dimentichi di queste promesse sociali, ci stanno imponendo un dibattito assurdo sul nazionalismo e sulla fine del Paese. Ma che cosa significa per loro la divisione del Paese? Significa divisione della sicurezza sociale e messa in concorrenza delle persone l’una contro l’altra. Il sistema belga per come è concepito facilita questo tipo di progettualità politica: ci pare assurdo che in piena crisi di Corona virus abbiamo 9 ministri della salute per un Paese come il Belgio, grande quanto una regione italiana, e 6 ministri per le mascherine, e 4 ministri del clima. Noi proponiamo che ce ne sia uno solo. Il sistema è organizzato in modo tale che non possa funzionare, con l’obiettivo che ci si faccia la guerra reciprocamente. Una concorrenza tra regioni è già in essere, con la destra che spera di approfondire queste fratture, così da distruggere i diritti sociali, la sicurezza sociale e infine il Paese.
Noi siamo convinti che se adesso si facesse un referendum la proposta di passare dal federalismo al confederalismo otterrebbe una percentuale molto bassa di consensi al nord e ancor meno al sud. Infatti la gente non ha tempo da perdere con queste cose, in quanto ha delle preoccupazioni sociali serie e immediate. Intanto i politici continuano a parlare di confederalismo e di altre questioni assurde… Questo teatrino dura da così tanto che non sappiamo più di cosa si parla ed è per questo che noi ricordiamo che se c’è un messaggio delle ultime elezioni questo messaggio è sociale. La manifestazione che abbiamo organizzato appena prima del lockdown si incentrava su tre grandi temi: per le pensioni, contro la casta politica e per l’unità del Paese con lo slogan “We are one!”.
Noi saremo pronti a nuove elezioni e crediamo che i partiti tradizionali perderebbero tanti voti perché lo spettacolo sulla formazione del governo che stanno offrendo è ridicolo: io capisco chi mi dice “Marc, sono completamente disgustato dalla politica”. Lo capisco, ma noi ribadiamo che dobbiamo imporre la questione sociale con la mobilitazione sociale e le lotte: si può vincere! Mentre loro fanno il loro giochino, noi portiamo avanti le lotte sociali e otteniamo delle vittorie.
Sempre parlando di attacchi alla sicurezza sociale, in Italia la crisi legata al COVID-19 ha sollevato il problema della salute pubblica e quindi del servizio nazionale sanitario: in dieci anni sono stati tagliati 37 miliardi alla sanità pubblica, chiusi 359 reparti e si è registrata una perdita secca di posti letto e di lavoro. Anche in Belgio le contraddizioni non mancano: recentemente les blouses blanches (i camici bianchi) hanno organizzato la lotta denunciando le condizioni di lavoro insostenibili. Alcuni si sono organizzati intorno a collettivi come La santé en lutte. Come avete sostenuto queste lotte?
Per noi la salute pubblica deve essere di qualità ed accessibile. So che in Italia almeno la prima linea è gratis, non qui in Belgio. Il PTB ha un bagaglio importante: l’esperienza delle Maisons médicales, gli ambulatori popolari, dove si offre un servizio medico gratuito da decenni. In Francia c’è lo stesso problema: non essendoci i fondi, l’ospedale pubblico sta morendo a tal punto che ci sono dei servizi d’urgenza in sciopero da diversi mesi. La crisi quindi è perpetua se si è senza mezzi, terribilmente sotto pressione, con moltissimi pazienti che vengono rimandati a casa o che devono aspettare ore nei corridoi, infermieri con dei turni estenuanti: la situazione è incredibile. Da parte mia in Parlamento europeo, ho organizzato un incontro per permettere degli scambi tra sindacalisti del settore, medici, infermieri dal Belgio, Germania, Repubblica Ceca, per scambiarsi esperienze sia riguardo alla crisi che alla lotta. Oggi gli infermieri e le infermiere, anche appassionati del loro lavoro, vivono una situazione per niente facile.
Il Coronavirus conferma il bisogno di una sanità pubblica ben finanziata, di condizioni di lavoro decenti e di stipendi adeguati. Per quanto riguarda il finanziamento della sanità, non dobbiamo dimenticare che il sistema è diverso da paese a paese: non è semplice generalizzare ed è difficile fare un discorso europeo. Però qualcosa la si può evidenziare e mettere in comune: la questione fondamentale dei servizi pubblici rimane sempre quella dell’investimento di denaro pubblico. Dove si trovano i soldi? Si cominci con l’imposta giusta! L’anno scorso son partiti 172 miliardi di euro dal Belgio verso i paradisi fiscali, con quei soldi avremmo potuto rifinanziare ospedali e scuole. Oltre alla lotta all’evasione e all’elusione fiscale, noi crediamo che i servizi pubblici vadano finanziati anche tramite la tassa sui milionari, come la chiamiamo noi. I soldi ci sono! Anche Bernie Sanders dice che ogni volta che lui propone una misura sociale, in coro gli si chiede da dove si prenderebbero i soldi. Il paradosso per Sanders è invece che quando c’è da distribuire dei privilegi fiscali a qualche azienda o rifinanziare una guerra, non solo i soldi si trovano, ma nessuno chiede o si chiede da dove mai verranno! Noi quindi sappiamo che quei 172 miliardi ci sono, li abbiamo visti fisicamente partire dal Belgio, allora prendiamoli e investiamoli per affrontare l’urgenza sociale e quella climatica.
Una domanda di prospettiva: la sinistra all’interno dei paesi dell’Unione europea. Una prospettiva rivoluzionaria sembra assente, addirittura quella socialdemocratica è debole. Poi però ci guardiamo intorno e vediamo la vostra esperienza del PTB: nel 2008 era in difficoltà e adesso in forze. Stesso discorso vale per un altro partito che siede nel GUE/NGL, lo Sinn Fein che è passato dal 3 % nel 1997 è diventato il primo partito in Irlanda. Abbiamo anche delle formazioni di sinistra spagnole e portoghesi che partecipano e appoggiano governi con presidenza socialista. Poi ci siamo noi di Potere al Popolo che continuiamo a crescere, aprendo case del popolo (al momento siamo a quota 32) e con le iscrizioni che stanno ripartendo, insomma si continua. Che cosa possiamo trarre come insegnamento da questo stato attuale delle cose?
In Italia è facile dire che lo stato della sinistra in generale sia un dramma. Quando dico sinistra, non parlo del PD o altro. Parlo della sinistra radicale, autentica, comunista, come preferisci. Conoscendo l’Italia, in realtà so che la situazione è meno drammatica di quanto possa apparire vista da lontano. Trovo che quello che avete detto voi, offra già una prospettiva. In Italia ci sono migliaia di persone che lottano in modi diversi e questo vale per tutta l’Europa. E quando dici che la prospettiva rivoluzionaria manca, io invece trovo che il messaggio di Greta Thumberg sia molto rivoluzionario: affermare l’esigenza di cambiare completamente la produzione e i modi di gestione della società trovo sia molto rivoluzionario. Poi, e lo ripeto sempre, la crisi del Covid-19 ha strappato la maschera al capitalismo. Vediamo rifiorire delle idee marxiste, delle soluzioni collettive. Si tratta di un’opportunità unica che non possiamo perdere. Oggi il fatto che tanti partiti tradizionali si stiano disintegrando dimostra che la gente non ne può più di questa classe politica. E quindi c’è del potenziale per avere un cambiamento radicale: c’è sempre più gente che dice che non può continuare ad andare avanti così. Questo vale in Italia, in Belgio e altrove. Penso che il messaggio di speranza che c’è nelle lotte non lo dobbiamo sottovalutare.
Voi parlate di quello che si fa in Italia: per apprezzarlo devi essere sul campo, perché da lontano tutte quelle cose non le vedi. Poi ti avvicini e scopri che c’è gente che lotta, che si attiva. Hai anche i sindacati, con tutti gli aspetti positivi, le difficoltà ecc. però la speranza c’è. Se perdiamo la fiducia in quello che possiamo ottenere con le lotte, allora perdiamo. Brecht diceva che chi lotta può perdere e chi non lotta ha già perso. È così, quindi le prospettive ci sono: di cambiamento fondamentale, di piccole e grandi vittorie e non vorrei sottovalutare tutto questo. Capisco però che quando guardi la situazione è facile scoraggiarsi: ma la resistenza va costruita passo per passo, con la gente. È lì che abbiamo utilizzato come partito l’espressione che secondo me sintetizza la cosa: noi siamo impazienti perché c’è l’emergenza climatica e sociale, però siamo allo stesso tempo pazienti perché sappiamo che la lotta va costruita e la resistenza va organizzata. Sappiamo che il cambiamento verrà dalle piazze, dalle strade. Prospettive in Europa ce ne sono. C’è anche l’emergenza dell’estrema destra, c’è il sistema della concorrenza del mercato che sta rafforzando l’odio, la disintegrazione sociale, c’è gente che non ha più alcuna speranza. Dobbiamo essere coscienti di questa difficoltà. Vedendo che oggi in Europa ci sono Paesi che hanno perso il 25% della propria popolazione, cosa fai? Non puoi risolvere con le stesse ricette di sempre. Abbiamo bisogno di un cambiamento fondamentale e di uno sviluppo equo in tutta Europa. Quindi non possiamo ignorare le difficoltà che ci sono, ma non dobbiamo mai perdere di vista la speranza che vive nella lotta.
Da un punto di vista pratico, noi del PTB nel 2008 abbiamo avuto un congresso di cambiamento. Ci sono cose su cui il partito è cambiato. Il nostro successo elettorale l’abbiamo costruito su tre pilastri indissociabili: la politica e la strategia, la presenza sul campo con i nostri militanti e membri, e la comunicazione, anche in rete. Il nostro successo si è quindi costruito non solo sulla comunicazione, ma sulla presenza nelle lotte e sull’organizzazione. Lo spazio per questo lavoro c’è: per esempio nelle Fiandre per anni ci hanno detto che non c’era spazio per un partito marxista. “I fiamminghi sono geneticamente di destra” e altre stupidaggini del genere: è vero che c’è un’egemonia culturale di destra, però noi elezione per elezione avanziamo. Abbiamo sempre più membri e dimostriamo sul campo che quel discorso è falso. Per quanto riguarda l’aspetto comunicazione, tu puoi anche dire cose giuste, ma se nessuno ti capisce, o non ti sente, le cose dette non servono a granché.
Insomma, la situazione sicuramente è difficile, cambia da contesto a contesto ma la speranza c’è. La domanda è: saremo in grado di cogliere questa opportunità?
[3] L’articolo 49.3 è una procedura legislativa consentita dalla Costituzione del 1958, la cui funzione è quella di rendere il governo responsabile dinanzi all’Assemblée Nationale e che in soldoni gli permette di imporre un progetto di legge senza il voto parlamentare. Lo stesso articolo fu usato da Hollande per imporre la Loi travail, il jobs act in salsa francese.