“Rifiutare qualsiasi testo o formula che abbia come obiettivo l’energia, per esempio i combustibili fossili, piuttosto che le emissioni” – è il messaggio che Haitham Al-Ghais, segretario dell’OPEC, ha inviato ai rappresentanti degli Stati membri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio. L’obiettivo è chiaro: impedire che la COP28 di Dubai possa chiudersi con un documento che preveda l’uscita, fosse anche graduale, dai combustibili fossili.
John Silk, ministro delle risorse naturali delle Isole Marshall, Paese-arcipelago le cui isole rischiano di essere sommerse dal mare a causa del cambiamento climatico, ha risposto: “Non ce ne andremo nella tomba in silenzio”.
Sono stati in tanti a criticare la lettera del segretario dell’OPEC. Tanti, ma non tutti. Tra le eccezioni il Ministro dell’Ambiente del Governo Meloni, Gilberto Pichetto Fratin, che ha dichiarato: “Sarebbe da stupirsi se l’OPEC non tutelasse i propri interessi”. Bisognerebbe aggiungere che in realtà tutela gli interessi di breve termine di quella parte all’interno dei Paesi membri che si arricchisce con la produzione ed esportazione di fossili, non certo di tutti e non certo gli interessi di medio-lungo termine. Perché, come ha dichiarato Tina Stege, inviata per il clima delle Isole Marshall, “niente più dei fossili mette a rischio la prosperità e il futuro di tutte le persone sulla Terra, compresi i cittadini dei Paesi OPEC”.
In ogni caso, Pichetto Fratin ci ricorda che la politica – e quindi anche la transizione ecologica – è questione di interessi, non di morale.
Ma se l’OPEC sta difendendo i propri interessi, con una dichiarazione tanto “comprensiva” delle ragioni dei Paesi petroliferi, quali interessi sta invece difendendo il Governo italiano?
Per capirlo è bene approfondire i legami tra ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), azienda dell’energia italiana a controllo pubblico, e ADNOC (Abu Dhabi National Oil Company), l’azienda statale petrolifera degli Emirati Arabi Uniti. Amministratore delegato di ADNOC è Sultan al Jaber che, nel mondo sottosopra in cui viviamo, per dirla con Galeano, è anche presidente della COP28. Al Jaber, cioè, deve fare allo stesso tempo gli interessi di una delle più grandi imprese petrolifere del pianeta e quelli di un pianeta che ha urgente bisogno della fine delle grandi imprese petrolifere e del fossile. Il primo partner internazionale di ADNOC è l’italiana ENI, capeggiata da Claudio De Scalzi, di recente confermato alla guida del colosso dell’energia per la quarta volta dal Governo Meloni (dopo Gentiloni e Draghi, testimonianza di rapporti bipartisan).
A marzo 2023 ENI e ADNOC siglano un accordo strategico che prevede che ENI entri con una quota del 20% in ADNOC Refining e con un altro 20% in ADNOC Global Trading. L’obiettivo dell’intesa, suffragata da una bella stretta di mano tra “il” presidente del Consiglio Meloni e il presidente emiratino Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan, è sviluppare i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Per raggiungerlo, ENI contribuisce anche a un centro di studi e ricerca emiratino, il Global Ccs Institute.
Gli interessi comuni non si esauriscono qui. ENI e ADNOC lavorano insieme anche allo sviluppo dell’idrogeno. Ovviamente non nella sua versione “verde”, frutto cioè della produzione tramite fonti rinnovabili, ma in quella “blu”, prodotta tramite gas e cattura e stoccaggio della CO2.
Cosa ci guadagna ENI da questa partnership? Secondo Ferdinando Cotugno, giornalista del quotidiano “Domani”, “stringe rapporti con una delle aziende petrolifere più tecnologicamente avanzate al mondo”, legame fondamentale per condurre in porto “il disegno a cui lavora da anni ENI […], fare del nostro Paese un hub strategico del gas tra Africa, Golfo Persico ed Europa”.
Ma se questo è il “disegno” di ENI, che dunque punta ancora su gas e fossile, qual è, invece, quello del potere politico italiano e del Governo Meloni? Sorpresa: non esiste. O, meglio, combacia al 100% col progetto di ENI.
La stessa Giorgia Meloni, che al momento dell’insediamento come Presidente del Consiglio, nell’ottobre 2022, aveva parlato del Sud Italia come di “paradiso delle rinnovabili”, dopo meno di tre mesi rinculava e si appiattiva su una posizione che deve aver fatto contento De Scalzi: l’Italia deve diventare “hub europeo del gas”.
Un progetto che ENI persegue da tempo. Col codazzo della politica di qualsiasi colore al seguito. Dall’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, poi, si sono moltiplicati i viaggi all’estero per siglare nuovi accordi, per sostituire la Russia come principale fornitore energetico del Belpaese. Si è andati forse alla ricerca di energia prodotta da fonti rinnovabili? No! Si sono firmati nuovi contratti per esplorazioni o accordi commerciali per l’importazione in Italia di GNL. Nelle foto di rito compaiono sempre i protagonisti del potere politico (l’ex Presidente del Consiglio Draghi e l’ex ministro degli esteri Di Maio prima, Meloni ora) e di quello economico (De Scalzi in primis).
Nell’interesse di chi lavora il primo? Della popolazione italiana o del “cane a sei zampe” (simbolo di ENI)? Siamo sicuri che “ciò che è bene per ENI è un bene per l’Italia”, come affermano spesso rappresentanti del potere politico e mediatico?
ENI per ogni euro investito nelle energie rinnovabili, investe undici euro su nuove esplorazioni. Alla ricerca di quel gas che rimane il core business dell’azienda, alla faccia della transizione ecologica.
Che in Italia procede lenta più d’una lumaca, tanto che negli ultimi 11 anni la percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili non si è schiodata dal 32%. Nel 2022 l’Italia ha installato solo 3Gw di rinnovabili. Senza guardare alla Cina (130Gw di rinnovabili installate in un anno), se posiamo lo sguardo sulla Germania, i Gw installati sono stati 11; 6 in Spagna, 5 in Francia.
Molti progetti sono fermi nei cassetti. Due anni fa diventava legge la norma sulle comunità energetiche: permetterebbe, se entrasse in vigore, la diffusione del fotovoltaico sui tetti delle città. Un passo importante perché permetterebbe di abbandonare la logica dei mega-progetti di mega-centrali e di adottare un approccio differente, fondato sulla centralità di tanti piccoli centri di produzione di energia, che aumenterebbero anche il livello di sicurezza energetica del nostro Paese. Bene, si dirà. Peccato che manchino i decreti attuativi. Per cui la legge rimane sulla carta. Nel vento, invece, si sono disperse le chiacchiere del ministro Pichetto Fratin quando ha promesso ben 20mila comunità energetiche rinnovabili.
Cui prodest tanta lentezza? Guarda caso proprio ai produttori di energie fossili. ENI in primis.
Alla faccia, tra l’altro, delle preoccupazioni della maggioranza dei cittadini e delle cittadine.
Secondo il monitoraggio condotto da Ipsos Global Advisor sui cittadini di 31 Paesi, il 75% degli italiani fa previsioni catastrofiche per i prossimi 10 anni se pensa al clima (in Spagna la percentuale sale al 76%). Addirittura un 36% ritiene molto probabile il rischio di essere sfollato dalla propria abitazione a causa di un evento climatico estremo (gli spagnoli sono un 41%).
Una preoccupazione che si trasforma in ansia e angoscia, come testimonia anche l’ultimo rapporto CENSIS (CENtro Studi Investimenti Sociali), pubblicato il 1 dicembre 2023. Secondo questo studio, “l’84% degli italiani teme il clima impazzito […] causa della moltiplicazione delle catastrofi naturali ogni anno più frequenti”; “il 68,2% teme che in futuro patiremo la siccità per l’esaurimento delle risorse di acqua”; “il 43,3% ha paura che resteremo senza energia sufficiente per tutti i bisogni”.
Preoccupazioni fatte proprie da movimenti ecologisti di vecchia e nuova formazione. Che cercano in ogni modo di segnalare la necessità di misure urgenti per arrestare il cambiamento climatico. Di fronte a loro che indicano la luna, lo sciocco Governo Meloni guarda invece il dito delle azioni di protesta, individuando quelle come il vero problema. Che viene affrontato prontamente – questo sì!, a suon di nuovi reati e pene più pesanti per colpire quelli che nella narrazione delle destre finiscono per essere definiti “eco-vandali” o perfino “eco-terroristi”.
Insomma, i governi italiani ignorano le preoccupazioni della maggioranza della popolazione o addirittura le reprimono quando osano trasformarsi in azione politica collettiva.
Di fronte alle preoccupazioni ambientali della maggioranza della popolazione, i governi italiani (non solo quello Meloni) fanno orecchie da mercante. O, peggio, mettono in campo la repressione quando quelle istanze si trasformano in azione politica collettiva. Di fronte alle preoccupazioni di ENI e dell’industria fossile, invece, stendono tappeti rossi.
Nell’interesse di chi governano Meloni & Co.?