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GIÚ LE ARMI SU I SALARI. IL FOGLIO DEL PRIMO MAGGIO 2025 DI POTERE AL POPOLO!

Questo primo maggio abbiamo raccolto in un “foglio” alcuni comunicati di Potere al popolo che riguardano la festa dei lavoratori. Pensiamo che di fronte alle politiche di riarmo e alla necessità di opporvisi con la manifestazione del 21 giugno, ai 5 referendum abrogativi che ci vedranno tutte e tutti protagonisti l’8 e il 9 giugno, servano posizioni chiare. Abbiamo di fronte un governo “sovranista” a parole, scendiletto del capitale a base USA nei fatti, che punta a mettere al sicuro da un lato i dividendi dell’industria bellica, dall’altro i profitti della borghesia italiana “chiagni e fotti”, mandando al macero un intero patrimonio industriale ed erodendo i diritti dei lavoratori.

Il titolo di questo post, “Giù le armi, su i salari”, è più di uno slogan, è un programma di lotta. Solo affrontando di petto la questione salariale, a partire dall’introduzione di un salario minimo di 10 euro l’ora agganciato all’inflazione, si può invertire il trend di impoverimento progressivo dei nostri.

Solo impedendo il Rearm Eu e il trasferimento dei nostri soldi verso le spese militari, per più spesa e sicurezza sociale, possiamo restituire dignità alle classi popolari italiane ed europee.

Solo sganciandosi dal riarmo, cioè della Nato, si possono fermare i venti di guerra.

Solo buttando a mare la zavorra di una classe politico-imprenditoriale che punta a salvaguardare i propri interessi e i propri profitti senza nessuna strategia di paese,  potremo organizzare il futuro.

Di seguito trovate gli articoli raccolti nel foglio.

Buona lettura!

 

Il travaso di ricchezza dai lavoratori al capitale è stato pazzesco”. Parola di Riccardo Gallo, docente impegnato in uno studio dell’Osservatorio Imprese dell’Università La Sapienza di Roma sulla dinamica dei redditi nell’industria italiana. Mentre il Governo celebra record su record e Meloni si vanta di “mai così tanti occupati dai tempi di Garibaldi”, la realtà per i lavoratori e le lavoratrici dice altro. Nel 2023 il giro d’affari delle imprese di medie e grandi dimensioni era superiore del 34% a quello del 2019, anno precedente alla pandemia. Stessa dinamica per il valore aggiunto: +33%. Più ricchezza prodotta, quindi. Qui sulla terra, però, non ce ne siamo accorti. Perché la quota che è andata a finire nei redditi dei lavoratori è calata del 12%; quella nelle tasche degli azionisti è invece schizzata del +14%.

Com’era la favoletta secondo cui per far stare meglio chi lavora bisogna produrre più ricchezza? La verità è che se non si cambiano i rapporti di potere nella società, la maggiore ricchezza prodotta andrà sempre e solo a ingrassare i ricchi e potenti, non certo i lavoratori e le lavoratrici. Negli ultimi 30 anni l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui i salari medi sono calati (-2,9%) anziché aumentare e dal 2008 a oggi sono crollati addirittura dell’8,7%, a causa dell’inflazione. Se l’aumento dei prezzi ha gonfiato i profitti – soprattutto di banche, farmaceutica, imprese energetiche, assicurazioni – è perché ha fatto crollare il già scarso potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici, soprattutto di quelli che guadagnano meno. Profitti e salari non sono due rette parallele, ma l’una dipende dall’altra. Quando i profitti si impennano è perché i salari sprofondano. Col risultato che oggi 1 operaio su 7 è a rischio povertà: non basta più avere un lavoro per uscire dalla trappola della povertà.

Non è frutto del caso, o della sfortuna, ma di decisioni del potere politico – tanto delle destre quanto del centrosinistra – a tutela di quello economico. Con la giustificazione da parte del potere mediatico, prontissimo a sputare veleno contro giovani e meno giovani che “non hanno voglia di lavorare”, “non sanno cosa sia il sacrificio”, ecc.. Almeno da trent’anni, ogni norma “dedicata” al mondo del lavoro ha prodotto un arretramento per chi lavora e un avanzamento per il capitale. Terreno inaugurato dalla stagione della concertazione di inizio degli anni ‘90 e che ha significato il disarmo del sindacato di fronte agli attacchi padronali.

Tutto accompagnato dalla continua frammentazione della classe lavoratrice, attraverso leggi, contratti (l’invenzione di decine di forme contrattuali diverse, così che sullo stesso posto di lavoro per la stessa mansione si trovano persone con contratti differenti o dipendenti di aziende diverse), e ideologica (a partire dal razzismo, che prima che arma “culturale” è arma “materiale” nel separare i destini di chi invece è accomunato dagli stessi interessi).

Se oggi l’ultradestra di Meloni affonda come il coltello nel burro è perché altri questo burro l’hanno preparato.Per invertire la rotta serve un cambio di orizzonte. A partire dalla consapevolezza che mai come oggi abbiamo vissuto una tale divaricazione tra le potenzialità del nostro tempo e le condizioni reali. Abbiamo tecnologie per poter alleggerire il lavoro di milioni di lavoratori e lavoratrici. Condizioni che permetterebbero una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. O, anche, con salari più alti. A patto di attaccare i profitti.

La pandemia ci ha reso chiaro che non abbiamo bisogno di miliardari come Bezos e Musk e che il mondo si regge su lavoratrici delle pulizie, cassiere, operai, facchini, braccianti e sulle anonime spalle di milioni di lavoratori e lavoratrici. Cambiare i rapporti di potere significa mettere il nostro mondo nelle mani di chi lo produce e riproduce, togliendolo da quelle di eccelle solo nell’arte del parassitismo e dello sfruttamento. Gli stessi che oggi spingono per il riarmo pagato dai soldi dei lavoratori per ingrassare le imprese belliche e fare la guerra ad altri lavoratori. Dopo questo 1 maggio, organizziamo una manifestazione nazionale a Roma in occasione del vertice NATO, contro il riarmo, che sia europeo o nazionale, e contro l’Alleanza Atlantica che spinge per più soldi alle armi e più guerra.

Vogliamo abrogare il Jobs Act del PD in uno dei suoi punti più iniqui: la libertà di licenziamento. Tornare alla piena applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che stabiliva che chi è licenziato INGIUSTAMENTE deve essere reintegrato nel posto di lavoro. Cancellare il Jobs Act non basta: se vince il sì si torna alla norma Fornero, che già colpiva il diritto al reintegro. Un “sì” è per un primo passo, non certo l’ultimo.

Vogliamo che anche i lavoratori delle piccolissime imprese, per cui non vale l’articolo 18, abbiano diritto a un ampio risarcimento del danno subìto, abrogando le norme che riducono ciò che deve pagare l’impresa.

Vogliamo che le imprese assumano con contratto a termine solo con motivate ragioni, abrogando le norme che permettono contratti precari senza alcun vincolo.Vogliamo che quando chi lavora in un’impresa in appalto viene colpito nella salute, nella stessa vita, sia chiamata a risponderne anche l’impresa che ha dato in appalto l’attività. Un “sì” serve ad abrogare le norme che oggi permettono alle imprese appaltanti di sfuggire alle proprie responsabilità.

Vogliamo che chiunque lavori in Italia abbia gli stessi diritti, che i lavoratori migranti dopo 5 anni possano chiedere di diventare cittadini italiani e sfuggire così a caporalato e schiavismo, alimentati dal ricatto del permesso di soggiorno. Un “sì” per abrogare le norme che allungano a 10 anni e rendono più difficile la domanda di cittadinanza.

A 18 mesi dall’abolizione del Reddito di Cittadinanza, tra le prime misure adottate dal governo Meloni, gli indicatori certificano il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei settori popolari della società meridionale.

Eppure un’interessata propaganda tende ad accreditare un’immagine di una sorta di rinascita meridionale all’insegna delle performance economiche derivanti dai processi di turistificazione selvaggia e da ciò che potrebbe venire dall’implementazione su vasta scala delle famigerate ZES (Zone Economiche Speciali).

Per le vaste platee di disoccupati di lunga durata, con scarsi livelli di scolarizzazione e di capacità professionali e, significativamente, per quanto riguarda il destino di centinaia di migliaia di donne proletarie – la cancellazione del Reddito di Cittadinanza è stata una mazzata. Pur coi suoi limiti e contraddizioni, il RdC aveva permesso di ridurre le diseguaglianze, soprattutto al Nord, e di abbassare i livelli di povertà, soprattutto al Sud. Di rifiutare offerte di lavoro semi-schiavistiche, che oggi tornano ad abbondare. La sua eliminazione, infatti, ha contribuito ad abbassare gli oggettivi livelli di contrattazione individuale a fronte di un’offerta lavorativa totalmente deregolamentata.

Una condizione che scontano anche le altre tipologie di lavoratrici e lavoratori: gli effetti destrutturanti di questo attacco al Salario Sociale e a ciò che residua del sistema di Welfare State toccano tutti. Se c’è chi, più di prima, è costretto ad accettare salari da fame e lavoro irregolare, vuol dire che l’intera classe lavoratrice è più debole.

Al Sud – dove persino i progetti collegati ai Fondi PNRR si stanno rivelando una l’ennesima occasione di speculazione e di aggressione antiproletaria – c’è bisogno di una stagione politica di Meridionalismo Popolare per rimettere al centro dell’iniziativa la difesa intransigente dei nostri diritti e della nostra vita costruendo quell’indispensabile spazio politico indipendente fuori e oltre le consumate liturgie di una “sinistra” e di una “variante populista” che nulla di buono hanno comportato per il mondo del lavoro, i ceti popolari e gran parte della nostra gente.

Il salario è il cuore dello scontro tra capitale e lavoro. Mentre le imprese comprimono i redditi per massimizzare i profitti, i lavoratori sono costretti a lottare per condizioni minime di dignità. In Italia, dove 5 milioni di persone guadagnano meno di 10€ l’ora, la battaglia per un salario minimo legale è un atto di resistenza contro lo sfruttamento strutturale.

Per decenni la contrattazione collettiva ha difeso e incrementato i salari. Il meccanismo si è rotto a partire dagli anni ‘90. Oggi la battaglia per i salari deve investire l’intera società. La classe lavoratrice è frammentata: interi settori sono dominati da lavoro precario, nero o “grigio”. Milioni di lavoratori restano senza tutele, spesso la paura della disoccupazione e la mancanza di organizzazione rendono difficile lottare. La nostra Legge di Iniziativa Popolare per un salario minimo di 10€ l’ora nel 2023 ha raccolto più di 70.000 firme: nessuno in Parlamento si è fatto carico di portarla alla discussione. Né le destre, contrarie al salario minimo; né il centrosinistra, che pure ne fa un punto di propaganda.

Non per questo la lotta è finita! Oggi più che mai serve un salario minimo che fermi la corsa al ribasso dei salari, ridia potere ai lavoratori, sia un primo passo verso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Per questo abbiamo rilanciato la battaglia per un salario minimo anche su base comunale e regionale. Il Primo Maggio siamo in piazza anche per questo: senza salari dignitosi, non c’è giustizia sociale.

Dal governo grandi proclami sul record del tasso di occupazione, ma nessuno parla del “come” lavoriamo.

Il mondo del lavoro offre un quadro desolante: salari così bassi che non ci fanno arrivare a fine mese, contratti irregolari o totalmente inesistenti, precarietà, diritti non rispettati, ricatti e violenze per lavoratori e lavoratrici migranti. Se si è soli, denunciare queste situazioni di sfruttamento, battersi per il rispetto dei propri diritti, tra costi e paura di ripercussioni, non è facile.

Per questo abbiamo aperto nelle nostre sedi sportelli legali e Camere Popolari del Lavoro offrendo non solo un’assistenza legale gratuita, ma campagne informative e politiche: grazie al lavoro collettivo, al supporto reciproco, alla lotta e all’organizzazione si possono strappare vittorie precedentemente impensabili. Lo dimostra la contrattualizzazione, il miglioramento delle condizioni lavorative e le decine e decine di migliaia di euro rimesse nelle tasche dei lavoratori che si sono rivolti a noi, che hanno percorso questo pezzo di strada con noi.

Non sono parole su un foglio, ma fatti. Realtà. Una realtà che ci aiuta a vedere tutti gli attori nella giusta prospettiva. Così, magari, quell’imprenditore che ci sembrava tanto potente si sgonfia come un pallone gonfiato. Perché la loro arroganza riposa sulla convinzione che saremo sempre in ginocchio.

Sportelli legali e Camere Popolari del Lavoro sono un pezzo di quel tessuto che stiamo costruendo per rialzarci in piedi, guardare negli occhi chi ci sfrutta ogni giorno e riprenderci quello che ci spetta.

Secondo i recenti dati ISTAT, l’occupazione femminile italiana a fine 2024 è la più bassa in Europa: quasi 9 milioni di donne sono disoccupate o inattive. Sono le stesse istituzioni ad ammettere che, nella maggioranza dei casi, è proprio quel lavoro di cura e assistenza familiare, storicamente delegato alle figure femminili, ad impedire l’entrata o a determinare l’uscita dal mondo del lavoro alle donne.

Noi però non siamo e non vogliamo essere solo angeli del focolare, vogliamo essere riconosciute nel lavoro che facciamo, dell’istruzione che abbiamo e festeggiare un lavoro dignitoso e paritario: le donne sono il segmento di classe lavoratrice più soggetto a part-time involontario, contratti precari e paghe basse. Spesso siamo relegate in lavori che ricalcano il lavoro di cura che svolgiamo, senza alcuna retribuzione, dentro le mura domestiche.

Vogliamo lavorare tutte per lavorare meno e non dover fare rinunce. Per questo rivendichiamo la settimana lavorativa di 32 ore su 4 giorni a parità di salario:in tanti Paesi in Europa la stanno sperimentando, è ora che si inizi anche in Italia. Come dicono nel Regno Unito: “Friday is the new Saturday!”

L’omicidio sul lavoro di Yassine Bousenna, 17 anni, morto alcuni giorni fa a Nocera Inferiore (SA) e abbandonato senza documenti al Pronto Soccorso, è l’ennesimo accaduto “il primo giorno di lavoro”. O, almeno, è questa la menzogna che i padroni sempre ci ripetono, facendo appello alla tragica fatalità. La verità è il segreto di Pulcinella: lavoratori in nero che, post mortem, vengono coperti dall’avvio di un contratto di lavoro che mai gli era stato offerto in vita.

L’omicidio di Yassine, come quelli di Satnam Singh, Patrizio Spasiano, Luana D’Orazio, Nicolò Giacalone, Mattia Battistetti e di centinaia di altri lavoratori ogni anno, sono la norma.

La multa per chi assume in nero è proporzionale agli effettivi giorni di impiego che, guarda caso, non vanno mai oltre il primo. La legge riproduce il puro calcolo economico fatto dagli imprenditori sulla nostra pelle: “quanto ci guadagno assumendo un lavoratore a nero? Di quanto aumenta la produttività se violo le norme di sicurezza sul lavoro? E, se mi scoprono, quali sono i rischi per il mio profitto?”.

Agli imprenditori conviene mentire, barare, truffare. Grazie ai governi di ogni colore politico i controlli sono stati indeboliti e le imprese sanno che presumibilmente la faranno franca. E se ci scappa il morto? Nella sua furia panpenalista, il Governo Meloni guarda caso ha dimenticato di inserire un reato che potrebbe servire a difendere i lavoratori: quello di omicidio sul lavoro.

Così le imprese scaricano il costo della competitività sulle teste di noi lavoratori: ogni giorno piangiamo 3 omicidi, commessi sui luoghi in cui produciamo la ricchezza che ci è poi sottratta. Questa strage deve finire adesso.

Dopo l’allentamento delle tutele sui contratti a termine introdotto con il Decreto Lavoro del 2023, il governo continua a spingere sulla strada della precarizzazione. Con il recente Collegato lavoro (legge 203/2024), emergono due interventi di particolare rilievo.

In primo luogo l’introduzione delle “dimissioni per fatti concludenti” dopo 15 giorni di assenza ingiustificata: una misura che, nei contesti lavorativi meno sindacalizzati o caratterizzati da scarsa comprensione della lingua italiana, può trasformarsi in un grimaldello per i datori di lavoro, utile a mascherare licenziamenti illegittimi.

In secondo luogo viene ampliata la definizione di “attività stagionale” per includere anche quelle derivate dall’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno o legate a cicli produttivi o di mercato specifici. Lasciando ampi margini alla definizione delle stesse alla contrattazione collettiva. La modifica tende a svuotare il contratto a termine per far convergere sempre più rapporti di lavoro dentro la categoria del contratto stagionale, caratterizzato da minori garanzie.

Secondo il CNEL nel 2024 l’84% dei contratti di lavoro stipulati sono stati contratti temporanei, il 34% di questi pari o inferiori a 30 giorni. In questo contesto il governo ha una strategia precisa: rendere strutturale una sempre maggiore quota di lavoro povero e precario.

RITORNO AL FUTURO. Per le Canarie il turismo rappresenta il 36,8% del PIL. E il 33,8% della popolazione delle Canarie vive in condizioni di povertà. Alla faccia del turismo che porta ricchezza. Nella settimana di Pasqua, con un tasso di riempimento degli alberghi vicino al 100%, il sindacato delle lavoratrici delle pulizie, Kellys Unión Tenerife, ha proclamato sciopero. Le lavoratrici chiedono che “i profitti che finiscono in poche tasche [vengano] redistribuiti”, l’abbassamento dell’età pensionabile a 58 anni, il riconoscimento delle malattie professionali, letti facilmente elevabili. Allo sciopero ha aderito il 70% del personale addetto ai piani.

IL RICATTO DELLA JABIL. “30mila euro di buonuscita o accettate la nuova proprietà”, è il ricatto della multinazionale Jabil ai 408 lavoratori dello stabilimento di Marcianise (CE). Le risposte devono arrivare entro il 6 maggio. Il Governo Meloni, anziché respingere l’arroganza della multinazionale USA, sta appoggiando il piano di vendita e Invitalia è già della partita, insieme alla “piccola” TME, che dovrebbe acquisire il gigante Jabil.
In lotta anche 130 lavoratori ex Jabil, oggi Softlab, che protestano anche perché da mesi non percepiscono né stipendio, né cassa integrazione.

ITALIANI, POPOLO DI EMIGRANTI. La vera emergenza è quella di chi se ne va, spesso per non fare più ritorno. Nel 2024 ben 156mila cittadini italiani sono emigrati all’estero. Un boom rispetto al 2023. Il 70% è sotto i 39 anni, vale a dire 113mila. Tra le cause le reali condizioni di lavoro presenti in Italia: salari bassi, precarietà, poco rispetto e prospettive. Se guardiamo agli ultimi 20 anni è un’ecatombe, soprattutto per il Sud. Un tema, però, a cui né potere politico né potere mediatico sembrano prestare attenzione.

FINO A CHE CE NE SARÀ Continua la lotta degli operai ex-Gkn che da luglio 2021 lottano contro la chiusura del loro stabilimento per delocalizzazione. Gli operai non ricevono la CIG dal dicembre 2023 e lo stipendio dal gennaio 2024. Nonostante ciò il Collettivo di Fabbrica ha presentato un piano di reindustrializzazione dal basso che prevede di riattivare la produzione per l’installazione e il recupero di pannelli fotovoltaici e la produzione di cargo-bike elettriche. Lo stabilimento però è stato svenduto dagli attuali proprietari e potrebbe essere oggetto di speculazione. Il tutto sotto il naso del Governo “sovranista”, che continua a non alzare un dito contro multinazionali e speculatori.

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