
Una premessa: noi non siamo tra i promotori dei cinque quesiti referendari, che sono stati indetti dalla CGIL e +Europa e che sono stati poi sponsorizzati dai partiti del centrosinistra.
Pensavamo e pensiamo che un referendum, soprattutto se verte su aspetti tecnici o su questioni su cui non c’è un dibattito consapevole nella società italiana, non si improvvisa. Che necessita di un lavoro preparatorio di coinvolgimento di forze sociali e di base più ampio del semplice centrosinistra, che non può più pensare di premere un bottone a comando e muovere milioni di persone. Che ha bisogno di costruire innanzitutto, nello spazio mediatico inquinato e nel deserto di contenuti in cui viviamo, un’attivazione del mondo culturale, mediatico, muovendo da posti di lavoro, scuole, università, territori, reti sociali. Che tutto ciò fosse noto anche a Landini, il quale però ha evidentemente preferito piegare il più grande sindacato italiano a logiche di rafforzamento del centrosinistra e di pesi e contropesi al suo interno.
Tuttavia, una volta che i referendum sono in campo, ci siamo battuti come e più di tanti politici che se li sono intestati. E questo per un semplice motivo: erano in ballo i destini dei lavoratrici e lavoratori, sia italiani che stranieri che lavorano qui da anni, di tante e tanti giovani italiani a tutti gli effetti ma che sono esclusi dalla cittadinanza. Di fronte a questioni così serie, non ci devono essere calcoli politicisti. Così d’altronde hanno fatto tante lavoratrici e lavoratori, tante compagne e compagni che non votano il centrosinistra.
Ma, mentre noi con loro ci battevamo, abbiamo visto che il PD si divideva sul lavoro (e sulla riforma che lui stesso ha generato!), perché è pur sempre il partito delle imprese e delle riforme neoliberiste, e non voleva litigare troppo con Renzi e Calenda, che poi si sa, “serve il centro per vincere le elezioni”. Lo stesso PD che non più tardi di questo autunno sabotava il referendum sull’Autonomia Differenziata, da tutti gli analisti visto come il vero possibile traino della stagione referendaria che poteva tenersi questa primavera, ma il cui portato evidentemente preoccupava troppo anche i gruppi dirigenti del principale partito del centrosinistra. Che il Movimento 5 Stelle non appoggiava quello sulla cittadinanza perché è sempre il partito dei “taxi del mare” e che cerca di cavalcare il peggior senso comune della destra… Questo non fa altro che creare maggiore disaffezione e sfiducia verso questi soggetti. Da responsabili a oppositori, perché mi dovrei fidare? Che si iniziavano dibattiti elettoralisti e surreali nel centrosinistra sul fatto che tutto sommato andavano bene 13 milioni di voti, poco più del 25%, per “battere la destra” nel 2027, come se i voti su una singola questione si potessero traslare esattamente su un’elezioni politica, come se gli elettori fossero utili idioti di una loro manovra, come se soprattutto i diritti di milioni di persone possano aspettare gli accordicchi tra Schlein, Conte, Fratoianni, Calenda e… Renzi.
Abbiamo visto insomma il solito centrosinistra, che fa un passo avanti e due indietro, che ha paura di essere radicale, che vuole tenersi buono il centro e non scontentare nessuno, che non crede nemmeno nelle sue stesse battaglie, che ha 7 voci e 12 posizioni, che non riesce a diventare, non diciamo rosso, ma manco rosa.
Come noi, queste cose le avranno viste molti e molte altre, che già ricordavano che chi ha indetto il referendum all’epoca della Legge Fornero e poi del Jobs Act fece solo qualche ora di sciopero (lo ricordiamo perché eravamo in piazza insieme a tanti lavoratori e lavoratrici della CGIL insoddisfatti e a tanti operai e operaie che continuarono anche contro le indicazioni dei loro dirigenti). Perché, diciamolo, non si può continuare a firmare contratti al ribasso, proseguire con CISL e UIL nella concertazione subalterna a governo e imprese, rinunciare al conflitto e poi illudersi che tutti i lavoratori vengano a votare. A tirare troppo la corda, alla fine si spezza.
È per tutto questo che il referendum è fallito? Bisogna essere onesti e dire di sì, invece di accusare chi non va a votare o la destra che fa il suo mestiere di sempre, ovvero stare con i padroni e con i ricchi, mentre inganna i lavoratori facendogli credere che i nemici sono gli stranieri o i “comunisti”. Ovvio, anche la (quasi) nulla informazione sul Referendum e il tentativo di censura a cui abbiamo assistito in queste settimane da parte dei maggiori esponenti del potere mediatico di questo Paese ha avuto la sua parte.
Ma, come hanno già ampiamente dimostrato le elezioni europee in questo Paese l’astensione si annida soprattutto tra i soggetti più oppressi che avrebbero più interesse a cambiare. Non è frutto del caso, nè un dato antropologico: se le classi popolari e i giovani non votano, non si interessano alla politica e sono passivi è frutto di quarant’anni di neoliberismo praticato da destra e centrosinistra, di precarietà lavorativa, di attacco all’istruzione, di emigrazione indotta e di attacco ad ogni elemento di tenuta istituzionale e comunitario.
Se è così il problema non è quello di ingaggiare qualche influencer in più per migliorare la comunicazione politica. Il problema è più profondo: non c’è un pubblico, non c’è una domanda. Non c’è un “popolo della sinistra” che si può evocare con la giusta tecnica. Non ci sono scorciatoie.
Di che vi stupite, allora? Di che vi lamentate?
I tempi sono questi e non da ora, solo ora ve ne siete accorti? Il punto per noi non è piangere su effetti che vengono da lontano, ma capire che fare OGGI per aprire una storia nuova. Noi abbiamo qualche idea:
- Continuare a parlare di lavoro. E, soprattutto, costruire il conflitto per i diritti e il potere di chi lavora. 13 milioni di persone hanno votato per il Sí, bisogna coltivare questo blocco sociale e ampliarlo, perché fino a quando il blocco di potere, di destra o sinistra che sia, avrà il predominio del dibattito non ci sarà speranza. Dobbiamo rompere questo blocco di potere e costruire un’alternativa, non esistono scorciatoie;
- Parlare di lavoro significa anche parlare dell’unità con la componente migrante della classe lavoratrice. Il quinto quesito non andava letto separatamente dal resto come troppi anche a sinistra hanno fatto. Perché la classe lavoratrice è in grado di strappare vittorie se è unita, se anche la sua parte più oppressa inizia ad ottenere dei diritti, a partire dalla cittadinanza, ma non solo, abbattendo le leggi di apartheid che segmentano il mercato del lavoro tra autoctoni e “immigrati”. Ció darebbe forza a tutte e tutti anche perché la componente immigrata è quella, che dalla logistica, ai campi, ai mega distretti come Prato, ha espresso le lotte operaie più efficaci e dirompenti;
- Costruire radicamento territoriale. Case del popolo, sezioni, presidi giovanili nelle scuole e nelle università e un sostegno al sindacalismo conflittuale nei posti di lavoro sono essenziali per un vero radicamento;
- Meno improvvisazione, più pianificazione. Non si può sostituire la tattica alla strategia. Senza un progetto di ampio respiro che sappia ottenere però risultati nell’immediato puntando a una trasformazione più complessiva non è pensabile nessun consenso.
Queste cose non si possono fare nel centrosinistra. E non si possono fare nemmeno in due anni. Bisogna però iniziare ora per vedere i frutti tra un po’. Ma bisogna iniziare.
Quei 13 milioni non sono tutti voti del centrosinistra, ma non sono nemmeno voti da buttare. Sono persone che hanno espresso un’idea sull’Italia che vorrebbero, in cui il lavoro deve essere più tutelato, in cui la classe lavoratrice non va divisa tra italiani e stranieri, in cui la cittadinanza non sia un privilegio di sangue o un ricatto, ma una partecipazione a pieno titolo alla comunità.
Quei 13 milioni di persone, se non vogliono continuare ad essere deluse, devono trovare una forza politica che li rappresenti e partecipare alla sua costruzione. Una forza politica che non parli di queste cose una settimana prima del voto, ma tutti i giorni. Che si batta per queste cose. E che soprattutto li aiuti a organizzarsi, ad auto-rappresentarsi, a rimettere nel mirino la vittoria, non passare da sconfitta a sconfitta, anzi.
In conclusione: è inutile piangersi addosso, è il tempo della mobilitazione e della costruzione. A partire dallo sciopero generale indetto il 20 Giugno dai sindacati conflittuali e dalla manifestazione del 21 giugno a Roma che abbiamo convocato insieme ad un ampio ventaglio di forze, per dire no al riarmo imposto da Unione Europea e Nato, no alla complicità col genocidio del Governo Meloni, sí al disarmo e a un’Italia e un’Europa di pace e solidarietà.
Noi ci saremo. E voi?