#4 Potere al Popolo! Intervista a Nadia MOSCUFO del Partito del lavoro belga (PTB) (Belgio). Intervista con Nadia Moscufo, deputata operaia
Come membri dell’assemblea regionale di Potere al Popolo Estero abbiamo deciso di creare uno spazio online per dare voce a formazioni politiche geograficamente lontane dall’Italia ma vicine in termini di ideali, lotte e aspirazioni. In quanto emigrati stiamo lavorando, con spirito internazionalista, a costruire legami con le altre organizzazioni socialiste e comuniste nel mondo.
Buona navigazione!
Ciao Nadia, presentati ai lettori italiani. Chi sei, da dove vieni e se e come le tue origini italiane hanno giocato un ruolo nel tuo percorso politico, sindacale e professionale.
Mio padre, prima di arrivare in Belgio nel 1956, era membro del PCI in un piccolo villaggio del Molise. Laggiù, la vita non era semplice, né dal punto di vista economico né politico a causa della Democrazia Cristiana. Una volta qui, ha aderito alla sezione del PCI in Belgio. Mia madre ha seguito mio padre emigrando, e anche lei era attiva politicamente: prima di venire qui in Belgio, aveva persino partecipato al primo congresso femminista del PCI a Roma, facendo scandalo nel villaggio.
Mio padre ha dovuto lavorare cinque anni in miniera e mia madre ha lavorato come domestica. Poi, entrambi sono stati assunti alla Fabbrica Nazionale di Herstal (produzione di armi) e per 35 anni hanno lavorato e lottato insieme agli altri 13.000 lavoratori e lavoratrici della fabbrica. I miei genitori hanno partecipato a tutti gli scioperi che ci sono stati (per l’uguaglianza salariale, per il riconoscimento della silicosi come malattia professionale, per il diritto all’aborto), ero una bambina imbevuta in queste lotte.
Essere un’immigrata italiana ha anche contribuito a costruire la mia coscienza politica perché persisteva del razzismo contro gli italiani. Fortunatamente, c’era anche la lotta contro il razzismo: quando c’erano lotte per gli aumenti salariali, i lavoratori lottavano uniti mentre negli atelier le donne (sì, spesso le donne) condividevano le doti culinarie.
Qual è stato il tuo percorso politico e professionale?
Rispetto al PCI, non me la sentivo di impegnarmi: ai miei occhi da bambina ne avevo un’immagine più da centro culturale e sociale degli immigrati italiani, dove gli uomini giocavano a carte e dove si facevano gli spettacoli teatrali. E’ vero che conservo dei bei ricordi di queste dinamiche del PCI, ma personalmente non sono queste esperienze che mi hanno dato la voglia di partecipare alla politica belga.
A scuola non ero davvero una buona studentessa. I professori dicevano che avevo le capacità, ma che ero pigra. Lì per lì ci credetti, più tardi avrei capito che non era solo colpa mia, bensì della società in cui si riproducono le classi sociali. E la scuola aiuta a conservare e riprodurre la classe sociale di appartenenza. A 18 anni ho dovuto iniziare a lavorare.
Ho lavorato per quattro anni in un negozio che si chiamava Choc Discount, e in seguito da Aldi (altro discount). Molto presto sono diventata delegata sindacale perché subito mi sono dovuta confrontare a diversi problemi: la sedia di lavoro consisteva in due casse di grosse bottiglie d’acqua, quando tornavi a casa avevi i segni tondi sul sedere. Lavorando da Aldi, per bere, dovevo pagarmi la bottiglia d’acqua, non avevamo la mensa e i turni erano assegnati da un giorno all’altro senza alcun preavviso.
Nel frattempo, a 19 anni mi sono sposata ed ho avuto due bambini.
E il PTB?
Il primo approccio fu con gli ambulatori popolari del PTB che praticano medicina gratuita (Médecine Pour Le Peuple), poi con il partito stesso tramite i picchetti durante gli scioperi. In quei momenti ho cominciato a discutere molto con loro sulla caduta del muro di Berlino e da lì ho capito che la lotta di classe è veramente una lotta tra classi, che è veramente una cosa durissima: non è perché c’è stata una esperienza che non ha funzionato che bisogna gettare tutto alle ortiche. Dunque, poco a poco, mi sono formata nel partito, il che mi ha permesso d’avere un approccio sindacale a più lungo termine.
Dopo essere stata simpatizzante per una decina d’anni, nel 2000 sono stata candidata nella lista del PTB per il consiglio comunale di Herstal (piccolo comune operaio in provincia di Liegi). In quell’occasione, sono stata eletta insieme al medico dell’ambulatorio popolare locale.
Nel 2008, sono diventata quadro del partito e nel 2019 deputata federale e fu la prima volta per il PTB ad avere dei deputati operai al federale. Alle elezioni precedenti (2014), i nostri primi eletti furono Marco Van Hees e Raoul Hedebouw, che però non sono d’estrazione operaia.
Abbiamo notato che in tutte le democrazie occidentali i partiti di sinistra (e tutti i partiti in generale) inviano sempre meno (o persino zero) operai in parlamento. Ci sono molti operai nel parlamento belga?
No. Noi infatti andiamo fieri dei nostri risultati: sui 12 eletti del PTB alla Camera dei deputati (che conta 150 deputati), 4 sono operai. Abbiamo Gaby Colebunders che ha lavorato come operaio alla Ford di Genk, Roberto D’Amico operaio alla Caterpillar di Charleroi, Maria Vindevoghel al servizio pulizie dell’Aeroporto di Bruxelles ed infine io.
C’è una ragione se noi operai siamo ben rappresentati tra gli eletti del PTB e se siamo sotto-rappresentati nell’emiciclo della Camera: gli altri partiti vogliono rappresentare la piccola, la media o la grande borghesia, dunque dal loro punto di vista capisco bene che non hanno bisogno d’avere degli operai. Non è tra i loro obiettivi quello di difendere gli interessi della classe lavoratrice.
Da noi, invece, questa composizione è il risultato di una riflessione e di una scelta cosciente. Siamo il partito che rappresenta la classe lavoratrice: dunque dobbiamo avere nella composizione sociale del partito della gente appartenente alla classe lavoratrice e alla classe operaia.
Oggi la società è cambiata, abbiamo dovuto dunque dare nuove definizioni. La classe lavoratrice per noi è l’insieme dei lavoratori, tutti coloro che devono lavorare per vivere. Una parte non trascurabile di questa classe non ha diploma universitario. Questa parte noi la chiamiamo “operaia” e rappresenta il 60% della classe lavoratrice nel suo insieme. Ed è rappresentata pochissimo in parlamento.
Un partito di sinistra può pensare di rappresentare la maggioranza della classe lavoratrice senza avere degli operai tra i propri quadri?
La questione di avere degli operai nella direzione è la questione che ci siamo posti durante l’ultimo congresso. Eravamo 3 operai su 45 nel consiglio nazionale uscente. E’ questo il problema che abbiamo voluto risolvere. Ogni partito però ha la sua storia. Alcuni partiti comunisti sono nati con una base operaia, noi invece non ce l’avevamo.
Siamo nati nel 1968 grazie a degli studenti che volevano cambiare il mondo e che non si riconoscevano nel partito comunista dell’epoca. I pionieri del nostro partito erano quindi degli intellettuali.
Le cose sono cambiate e al nostro congresso del 2021 abbiamo affermato che gli operai e le operaie devono avere uno spazio centrale a tutti i livelli del partito, compresa la direzione. La prima ragione è che abbiamo come obiettivo strategico il socialismo e, per raggiungerlo, c’è la necessità di una rottura col capitalismo. Dunque questi operai saranno il motore del cambiamento perché sono loro che costruiscono la società, per cui dobbiamo essere in grado innanzitutto di organizzarli nel partito.
Seconda ragione: ci siamo ispirati all’esperienza del partito comunista portoghese. Vogliamo mettere nelle caratteristiche di un partito rivoluzionario la condizione della sua composizione sociale. Qui dunque vogliamo scavare di più: vogliamo avere più quadri operai, più operai nella struttura del partito e che la cultura operaia sia egemonica. Ancora oggi non è così. Lo abbiamo visto al congresso: degli operai hanno detto chiaramente che non si sentono a proprio agio nel partito. Ci sono meccanismi che sono profondi e a volte inconsci e che determinano questa marginalizzazione. Dobbiamo cambiare tutto ciò.
Quali meccanismi impediscono a un operaio di partecipare attivamente alla vita del partito e quali rimedi adottate?
Come detto, i meccanismi sono profondi e a volte inconsci. Al momento, abbiamo identificato due problemi: siccome la maggioranza dei nostri quadri sono degli intellettuali, è difficile per loro comprendere ciò che un operaio è capace di fare; d’altro canto però, per un operaio, non è facile sapere di cosa è capace.
Oggi, con i nuovi quadri, dobbiamo innanzitutto sapere quali sono le loro difficoltà e ci sono due approcci possibili e opposti ma entrambi da correggere :
- l’elitismo : quando si pensa che gli operai siano capaci di fare qualsiasi cosa e ci si aspetta da loro che facciano le stesse cose degli intellettuali. Per evitarlo, ad esempio, vogliamo cambiare la “cultura degli appunti politici”, come si dice da noi: i nostri testi dovranno essere più corti e più precisi, dobbiamo valorizzare di più i punti di forza dei compagni operai, valorizzare la loro posizione di classe, la loro combattività, il loro legame con i colleghi di lavoro, la loro disciplina, eccetera …
- l’operaismo (non inteso nell’accezione italiana come corrente politica n.d.r.): ad esempio dire “visto che è un operaio, non gli chiediamo troppo che è già tanto quello che fa”. Un tale approccio impedisce di portare avanti la lotta politica e ideologica, necessaria affinché un operaio abbia gli strumenti – se vuole diventare comunista – per rimettere in questione le sue idee spontanee che sono impregnate dall’ideologia dominante. Un altro effetto nefasto di questo approccio è che si perde l’occasione di far progredire i compagni su alcuni aspetti molto concreti: nel mio caso, ad esempio, il partito mi ha insegnato a tenere un’agenda, utilizzare un computer, studiare un testo e farne una sintesi, prendere appunti, eccetera …
“Chi viene da una famiglia operaia cresce in una società di classi che discrimina gli operai e i loro figli, li sottovaluta e li disprezza. «In questa società, non impari a essere quadro, impari ad obbedire», dice un quadro operaio. «A partire dall’asilo, ti fanno chiaramente sentire che sei un bambino operaio, un perdente, che faresti bene ad andare a lavorare il più presto possibile. Per noi, non c’è libertà di scelta.»,«E’ una società di classi ed è qualcosa che si sente fisicamente», dice un altro quadro operaio. «Ci insegnano a lavorare e a chiudere la bocca, al punto che interiorizziamo tutto ciò e che ci sentiamo noi stessi inferiori.» Il partito non può essere un vero partito della classe lavoratrice se non vede queste discriminazioni, se non le segnala e non le combatte attivamente” (Congresso dell’unità del PTB, paragrafo 192).
Certamente vogliamo cambiare la nostra composizione di classe, ma un operaio se vuole diventare comunista deve anche rimettere in questione le sue idee spontanee che sono impregnate dall’ideologia dominante.
Nel fare questo non c’è nessuna volontà di “maltrattare” un operaio al PTB. Qui non abbiamo problemi, perché la nostra forza risiede in questo punto comune: prima d’essere operai o intellettuali, siamo membri di un partito comunista contemporaneo con degli obiettivi chiari. Dunque non ci sono contraddizioni antagoniste, ma è vero che dei problemi sussistono e ci stiamo dotando degli strumenti d’analisi e d’azione per iniziare un processo che ci permetta di andare ancora più avanti. Come?
Abbiamo preso una misura forte: abbiamo messo delle “quote operaie” nella direzione. Inoltre, abbiamo una scuola nazionale specifica per gli operai che vogliono diventare quadri, la scuola Jan Cap (nome del grande dirigente operaio e sindacalista dei cantieri navali Boel a Tamise). Abbiamo bisogno di una scuola specifica, non perché siamo più stupidi, ma perché l’approccio pedagogico deve essere diverso. Io do un corso in questa scuola e le donne che partecipano si riconoscono in me e si dicono: “se tu ci riesci, allora anch’io posso farcela”.
Anche le formazioni per i nuovi membri non sono le stesse: il contenuto è lo stesso ma sono strutturate diversamente.
Un ultimo punto molto importante è che dobbiamo creare degli spazi per gli.le operai.e, degli spazi dove sono la maggioranza. Ciò non accadrà spontaneamente, è nostro compito applicare gli orientamenti in modo creativo.
Come hai accennato, avete tenuto il vostro decimo congresso nazionale l’anno scorso. Che ruolo ha il vostro congresso nella democrazia interna del partito? Puoi raccontarci come si è svolto?
Allora, la democrazia in un partito comunista è qualcosa di molto serio. Prende tempo, molto tempo, e bisogna avere pazienza. Perché? Perché giustamente, visto che vogliamo restare un partito di principii, bisogna avere pazienza per unificare. L’unificazione politica non si fa con una sola discussione. E perché è importante l’unificazione? Perché se si vuole essere un partito rivoluzionario, bisogna sapere contro chi ci si batte. E sappiamo che nessuno ci accoglierà srotolando il tappeto rosso. Detto altrimenti, è più facile spaccare un dito di una mano aperta ma è molto più difficile spaccarlo se è in un pugno.
Il congresso è un lungo processo di più di un anno: la direzione stabilisce quali sono gli orientamenti del congresso, perché il mondo cambia e bisogna ri-posizionarsi. Poi abbiamo spiegato le sfide del congresso nei gruppi di base (400 in Belgio). Poi ogni gruppo di base elegge dei delegati che vanno al congresso. Il delegato non rappresenterà il suo gruppo in quanto non c’è unificazione a livello dei gruppi: la persona va al congresso in quanto militante e avrà le sue opinioni in quanto individuo.
Quando i testi congressuali sono pronti, con i delegati si organizzano delle commissioni nelle provincie e in ogni commissione c’è un delegato del consiglio nazionale.
C’era la possibilità di proporre degli emendamenti scritti. Abbiamo organizzato delle commissioni in piccoli gruppi anche per poter dare la possibilità a tutti di poter esprimere la propria opinione oralmente. Non tutti sono in grado di redigere un documento politico, quindi in ogni commissione c’erano dei responsabili che redigevano i verbali. In questo modo non ci siamo privati della ricchezza delle critiche e dei contributi orali dell’insieme dei delegati e particolarmente dei nostri compagni operai. Se non avessimo avuto questa accortezza avremmo avuto solo degli emendamenti scritti e, senza sorpresa, quelli che sono arrivati in questa forma provenivano principalmente dai nostri compagni intellettuali.
Abbiamo anche organizzato dei gruppi di lettura. Perché tu ricevi un testo e poi? Lo leggi? Beh no, non funziona quasi mai così! Coloro che hanno partecipato ai gruppi di lettura erano entusiasti ed hanno in seguito persino riletto i testi una seconda volta per conto proprio.
Se non facessimo così, non potremmo centralizzare il nodo della classe, unificarla, valorizzarla e anche dargli lo stimolo per esprimersi.
E tutto ciò lo fate a porte chiuse, perché?
E’ evidente che i nostri nemici di classe, come i liberali, adorano dire che i partiti comunisti sono delle sette, che sono una dittatura, che “lì tutti dicono la stessa cosa” eccetera… Tuttavia, anche i nostri amici si pongono le stesse domande e allora bisogna seriamente prendere il tempo per spiegare il nostro funzionamento. Tuttavia non è semplice perché il modo migliore per comprendere la nostra democrazia è partecipando dall’interno. Nella società la divergenza è un sinonimo di conflitto mentre per noi è diverso : nel nostro statuto è scritto – e lo applichiamo fedelmente – la divergenza e il dibattito delle idee sono il motore e devono essere incoraggiate. Una volta che ci mettiamo d’accordo sugli orientamenti, visto che siamo un partito politico che vuole cambiare il mondo, li difendiamo insieme. Per questa ragione non diffondiamo le nostre discussioni online o altrove. Rispettiamo la nostra democrazia e vogliamo dare la libertà a ciascuno d’esprimersi liberamente. Se le nostre discussioni interne fossero sempre sotto i proiettori, solamente i buoni oratori emergerebbero.
Per tornare ai nostri nemici di classe, sono loro che in realtà sono molto chiusi. Danno l’impressione di dire liberamente tutto solamente perché litigano tra loro pubblicamente. E’ normale: per loro è la lotta per le poltrone, non la lotta di classe. Ma fondamentalmente difendono la stessa cosa e in materia di porte chiuse, sono loro i veri specialisti! Non dicono alla gente quando vanno alle elezioni: “liquideremo la giornata di 8 ore, elimineremo il diritto alla prepensione”, eccetera …
E voi, cosa dite ai vostri elettori che non sono membri del partito?
Quando hai la lotta sociale e qualche staffetta in parlamento, allora puoi ottenere un miglioramento della legge. Questo se parliamo di riforme. E’ ciò che chiamiamo la strategia “strada-parlamento-strada”, che abbiamo praticato in origine a livello locale: me ne ricordo quando ero al consiglio comunale di Herstal. Discuti con le persone, si mettono a fuoco i problemi. Dopodiché si organizzano le persone, si fanno petizioni, manifestazioni. E poi in consiglio comunale sono obbligati ad ascoltarti. Se non cambia nulla, torni in strada e dici “eccomi di nuovo, non ha funzionato, con cosa proviamo ora?” e ricomincia la lotta. Quando va bene invece si ottengono delle vittorie e si torna in strada per alzare l’asticella ancora di più. Alla gente che lotta vogliamo dare la speranza, perché non c’è alternativa alla lotta. Per poter ottenere delle vittorie, dobbiamo infondere l’entusiasmo alla gente. Lo dico per il mio partito: non lo facciamo ancora abbastanza. E’ nostro compito farlo.
Come partito abbiamo relazioni con tutti i movimenti che lottano e abbiamo dei contatti privilegiati con i sindacati. Abbiamo anche un dipartimento che si occupa delle relazioni con i sindacati. In effetti, il sindacato è l’organizzazione che organizza i lavoratori principalmente per difenderli di fronte al loro padrone, è un contro-potere. Naturalmente, i sindacalisti più combattivi hanno una visione politica del sindacato. Non discutono solamente della questione salariale, hanno anche una riflessione politica. Alcuni sindacalisti ad esempio sono impegnati sul fronte dell’aiuto ai rifugiati… Mentre il partito è l’organizzazione che vuole prendere il potere nella società, non essere solo un contro-potere.
Sei deputata federale e si sa che i salari dei parlamentari sono molto generosi anche in Belgio. Tu, come tutti gli altri eletti PTB, dai una grossa fetta del tuo stipendio al partito, molti non ne capiscono la ragione e sono dubbiosi. Perché applicate questa regola?
Il denaro è l’arma della guerra: se vuoi costruire una organizzazione, hai bisogno di soldi, non puoi costruire una organizzazione solo con l’ideologia.
Il nostro partito si è costruito grazie ai nostri pionieri che erano una generazione di intellettuali: una parte è andata a lavorare nelle fabbriche per creare legami con la classe lavoratrice, ma una parte è restata col mestiere per cui aveva studiato (professore, ingegnere, eccetera…). Queste persone guadagnavano talvolta dei grossi stipendi e hanno messo tutto nella cassa comune per costruire il partito. Rispetto! Se non l’avessero fatto, oggi, la mia classe non avrebbe la fortuna d’avere il PTB. Alcuni di questi militanti erano visti come dei monaci francescani: non lo erano affatto e, pertanto, hanno dato tutto quello che avevano.
Infatti, tutto ciò era il risultato di una discussione che si ebbe già all’epoca sulla questione dell’autonomia finanziaria: dobbiamo essere autonomi finanziariamente. E’ per questa ragione che abbiamo messo in piedi il nostro meccanismo di contribuzione dei membri. E ci sono delle “regole” ben precise, anche se non mi piace questo termine poiché si tratta di una scelta volontaria di continuare a vivere con un salario leggermente più alto di quanto guadagnassi da Aldi. Guadagno 2.100 € al mese (ndr.: il salario medio netto di un operaio in Belgio è di 1.792€ al mese). Non vivo questa cosa come una costrizione ma più come un’opportunità di poter restare libera. Se tenessi l’interezza del salario da deputata (7.500€), non sarei più me stessa. Siccome sono molta empatica, potrei ancora avere molta pena nel vedere le ingiustizie, ma ne sarei distaccata, distaccata dalla mia classe. E’ vero che ho lavorato come operaia a lungo, ma dimentichi in fretta da dove vieni!
Lo Stato dà molti soldi a noi deputati, per noi è troppo e col partito riflettiamo a delle alternative, ma per il momento prendiamo tutti questi soldi in quanto vogliamo garantire una base finanziaria sostenibile e autonoma. Immaginiamo che d’un tratto non avessimo più degli eletti e che ci chiudessero i rubinetti dei soldi, noi dobbiamo continuare a pagare i volantini, materiali per le manifestazioni, la comunicazione eccetera… Anche se ci tengo a dire che non abbiamo alcuna intenzione di perdere consenso! [ride] Ma ci sono partiti comunisti che hanno avuto degli alti e dei bassi, noi non sappiamo che direzione possa prendere la Storia.
Ci sta anche a cuore la solidarietà tra i membri del partito. Abbiamo membri che lavorano nelle fabbriche e dove lavorando bene sindacalmente la gente guadagna 2.800 € al mese, il che è va benissimo dato che vogliamo che i lavoratori abbiano dei buoni salari. Ma abbiamo anche compagni.e che sono al CPAS (ndr.: il corrispettivo belga del Reddito di Cittadinanza) e ricevono solo 800 € al mese dallo Stato. Dunque non facciamo dell’egualitarismo, ma una certa solidarietà tra di noi è importante ed è per questo che siamo molto più severi con i nostri eletti e i nostri quadri superiori.
Johan, che era il mio compagno medico generalista al comune di Herstal, diceva sempre che “quando le mie tasche sono vuote, il mio cuore è pieno”
Vuoi aggiungere un’ultima cosa?
Sì, giusto questo: avremo davvero bisogno di molti, molti intellettuali malgrado tutto ciò che ci siamo detti qui, ne sono certa. E ne avremo bisogno perché per cambiare il mondo abbiamo bisogno di tutti. Ma anche, per formare quadri operai abbiamo bisogno di quadri intellettuali che hanno la stessa voglia di cambiare il mondo. Nel nostro partito l’obiettivo è tendere verso una fusione tra operai e intellettuali.
Vi dò un esempio di fusione. Per il congresso ho lavorato con due compagni intellettuali per la seconda parte del testo del congresso “Partito della classe lavoratrice”. Uno di questi compagni è Benjamin Pestieau, quadro e permanente del partito, membro del politburo. Tra le sue competenze c’è anche il dipartimento del mondo del lavoro. La fusione dunque è dire che siamo in 3 attorno alla tavola e ciascuno porta il suo punto di vista sulla base della sua pratica. I miei punti forti sono stati valorizzati, come per esempio lavorare affinché i testi fossero comprensibili da un vasto pubblico.
Ciò ha preso tempo, abbiamo organizzato delle sessioni di lettura di tutti gli emendamenti e di tutti i rapporti delle commissioni in maniera collettiva. Il tutto ha funzionato piuttosto bene, mi pare. Una bella fusione!
E come si fa, quando si è un intellettuale, ad avere questa sensibilità per la fusione?
[Ride] La prima cosa è essere convinti del ruolo storico della classe operaia nel processo di cambiamento della società. In seguito, essere cosciente che si tratta di un processo che va contro l’ideologia dominante e l’individualismo. L’individualismo, un vero veleno di cui siamo tutti impregnati e che dobbiamo combattere ogni giorno.
Se dovessi dare un consiglio: bisogna stare attenti e contenere gli effetti di quello che noi chiamiamo il “tra-di-noi”: ovvero rimanere chiusi nella cerchia degli intellettuali e/o in quella dei quadri. Cerco anche d’applicare tutto ciò per me stessa perché come quadro e deputata potrei rapidamente non essere più in contatto con la realtà.
E’ importante frequentare più operai e operaie nella vita quotidiana. Frequentare gli stessi posti, impregnarsi della loro cultura. E di una cosa sono certa, tutto ciò non è fare del paternalismo, come dicono alcuni! Mettere la propria conoscenza, il proprio tempo e le proprie capacità al servizio della lotta di classe non è paternalismo. I nostri medici negli ambulatori medicali vivono ad esempio negli stessi quartieri dei loro pazienti.
Nel nostro partito, oggi, vogliamo avere più operai ma ciò non vuol dire che non vogliamo più intellettuali. Gli intellettuali devono mettersi al servizio delle orientazioni su cui ci siamo messi d’accordo.