Sicilia

[Cinisi] Aspiriamo ad un mondo come quello che Impastato avrebbe voluto

Terrasini, paesone sulla costa siciliana a pochi chilometri da Palermo. Primavera, un mare turchese e migliaia di ragazzi e ragazze che hanno invaso le vie, riempiono i bar, giocano a pallone nelle piazze.

Poi lentamente, si raggruppano, alcuni dietro gli striscioni delle scuole in cui studiano, da Brescia come dall’entroterra siciliano, dalla Toscana come dalla Calabria, dai professionali e tecnici industriali come dai licei. L’età media dei partecipanti al corteo è spaventosamente bassa tanto che per chi, come chi scrive, ha i capelli bianchi, l’effetto ha qualcosa di straniante. Un fiume impetuoso, bello, allegro e consapevole, poco disponibile alle mediazioni, ed eticamente irremovibile.

Quaranta anni prima da una via di questo paese trasmetteva “Radio Aut” da cui Peppino Impastato, con ironia, sarcasmo, sberleffo e convinzione, denunciava lo strapotere mafioso.

E la manifestazione che si è mossa ha attraversato un paese in cui finalmente si aprivano i balconi, si esponevano bandiere della pace, si veniva salutati col pugno alzato. Risuonavano “Bella Ciao”, “Bandiera Rossa” e “Cento Passi”, cantate a squarciagola. A poche centinaia di metri, il tratto maledetto della ferrovia in cui venne fatto saltare in aria Peppino Impastato. All’epoca si parlò violentemente di atto terroristico fallito, poi si giunse anche ad ipotizzare un suicidio. In realtà dopo decenni di depistaggi e coperture da parte degli apparati dello Stato e delle forze dell’ordine, si giunse a quella verità che non solo in Sicilia ma nel mondo della sinistra diffusa era chiara sin da allora. Peppino dava fastidio a mafia e istituzioni, quindi andava fatto tacere.

Solo dopo la durissima relazione della Commissione Antimafia le indagini presero il verso giusto, giungendo alla condanna del boss Tano Badalamenti che in maniera dispregiativa Peppino chiamava “Tano Seduto”. Quando questa relazione venne consegnata nelle mani di Felicia Impastato, madre indomita, la sua reazione fu commovente “Avete fatto risorgere mio figlio” ebbe modo di dire.

E questa storia, fatta di morte, corruzione, depistaggi e sistemi di potere, i ragazzi e le ragazze che erano in corteo le conoscevano bene. Stupiva parlando con alcuni di loro, il livello di consapevolezza e di maturità non solo politica espressa. Trapelava dagli slogan, dagli striscioni, dai colori. Un paese diverso che spesso non va in onda, che forse non ha ancora trovato piena rappresentanza politica ma a cui dovremmo tutti guardare con interesse e attenzione.

E mentre il corteo raggiungeva Cinisi, il paese di Peppino e della sua famiglia, il paese in cui vive ancora Giovanni, suo fratello, che con la “Casa Memoria” garantisce che questa vicenda che ha coinvolto tutto il paese non venga ridotta a fatto locale, si dispiegava un fenomeno, forse non voluto ma certamente efficace. Fra un liceo e un tecnico industriale o un professionale, fra siciliani e persone calate da tutta Italia, in mezzo, come parte integrante dello stesso corpo, c’erano le bandiere del mondo della sinistra diffusa: di Potere al Popolo, di Rifondazione Comunista, del Pci, dei sindacati di base e confederali di Libera e dell’Arci, a gridare gli stessi slogan, contro mafia e Stato, contro il razzismo dilagante, per chiedere giustizia e eguaglianza.

Quanto dovremmo imparare da quelle sollecitazioni non retoriche e affatto banali, partorite da sedicenni che si stanno affacciando alla politica e pretendono radicalità e concretezza, che implorano quella consequenzialità fra il dire e il fare che riconoscono, non come ad una icona a Peppino Impastato. Impariamo tutti a parlarci con questi ragazzi e ad ascoltarne le parole, impariamo a percepirne un sentire comune che ad esempio è stato molto ben rappresentato dal caldo abbraccio di applausi che è partito quando da un maxi schermo sono apparsi, in collegamento skype, i genitori di Giulio Regeni.

C’è una distanza siderale fra le due vicende e Paola – la madre di Giulio – ha fatto bene precisarlo. Ma c’è un comune afflato di richiesta di verità che identifica l’avversario nel potente di turno, nei grandi interessi che macinano le vite, nello squallore della naturalizzazione del neo liberismo, direbbe forse chi ha più anni ed un linguaggio da tradurre. Non prendiamo quella piazza che ha visto unite le scuole di Brescia, della Toscana, della Calabria e dell’intera Sicilia, come un mero fatto di cronaca legato ad un anniversario da celebrare. Negli 8 giorni di iniziative che hanno preceduto il corteo e nella piazza di Cinisi è emersa una condizione umana, sociale e politica, di giovani intenzionati a parlare di futuro senza piegare la schiena.

Forse non tutti ci conoscono e ancora poco siamo riusciti ad entrare in relazione con loro. Ma è innegabile che energie così consapevoli e ancora non incastrate in certi nostri reiterati dogmatismi, possono divenire una parte consistente del nostro presente e del nostro futuro. Quella piazza che non chiedeva più repressione ma “basta sfruttamento” deve diventare nostro punto di riferimento.

Con tutte le contraddizioni e i problemi di ricostruzione di un ambito aperto di culture politiche da realizzare, ma con l’energia, questa si radicale e forse rivoluzionaria che non si accontenta di “ricordare” Peppino, ma che aspira ad un mondo come quello che Peppino avrebbe forse voluto.

Stefano Galieni

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