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[CATALOGNA] Quello che sai sulla Catalogna è falso: ecco perché

di Marco Santopadre

Lunedì 14 ottobre il Tribunale Supremo ha condannato a pene tra i 9 e i 13 anni di carcere nove dirigenti politici e sociali catalani, responsabili di aver convocato e gestito il referendum per l’autodeterminazione della Catalogna proibito dalla magistratura e dal governo di Madrid ma che si è tenuto lo stesso ed ha visto la partecipazione di quasi tre milioni di elettori nonostante la forte e indiscriminata repressione delle forze di sicurezza.
All’epoca la vicenda colse la stampa e la politica, e quindi anche l’opinione pubblica, completamente impreparati di fronte a quanto avveniva, rappresentato come un impazzimento improvviso della popolazione catalana e non come il frutto di un lungo processo storico e sociale.
A due anni dal 1° ottobre 2017 e dopo le condanne dei leader indipendentisti, è evidente che non si sono fatti molti passi avanti nell’interpretazione dell’origine e della natura del movimento catalano per l’autodeterminazione.

Basta leggere il fiume di commenti stizziti alle prese di posizione delle realtà solidali con il movimento catalano – come ad esempio quella di Potere al Popolo – per accorgersi che il giudizio di molti è ancora fortemente improntato – paradossalmente soprattutto nell’opinione pubblica progressista e di sinistra – a un’ostilità, a una serie di pregiudizi, ad alcuni argomenti che appaiono fortemente standardizzati e che sono il frutto di un senso comune creato in decenni di propaganda da parte delle istituzioni spagnole, riprodotta acriticamente dai nostri media.

La maggior parte di coloro che esprimono giudizi sprezzanti sul movimento catalano sono in genere convinti di avere a disposizione una dose di informazione accettabile sulla storia spagnola, oltre che sulle caratteristiche e sulle rivendicazioni di quei milioni di persone che stanno scioperando, riempiendo le piazze e le strade di un territorio a un tiro di schioppo dalle nostre città. Ma spesso non è affatto così. Ciò che in buona parte maneggiano sono delle “pillole” di una rappresentazione, di un corpus di giudizi standardizzati prodotti dall’autorappresentazione che il nazionalismo spagnolo ha saputo vendere all’opinione pubblica internazionale, e in particolare a quella italiana, dopo la morte del dittatore Francisco Franco.

Alcuni di questi cliché ricorrenti sono in realtà facilmente confutabili.

“Quella catalana è una secessione dei ricchi”:
per molti di coloro che intervengono sui social – perché momenti di informazione e di dibattito reali, finora, le varie organizzazioni ne hanno prodotti davvero pochi – il movimento indipendentista catalano sarebbe semplicemente un leghismo in salsa iberica, poco importa che la Lega di Salvini, diventata da tempo un partito nazionalista italiano, abbia stretto un’alleanza con il partito neofranchista Vox, ferocemente anticatalano…

I catalani, più ricchi del resto degli abitanti dello stato spagnolo, si solleverebbero per pagare meno tasse a Madrid. In passato alcuni dei rappresentanti delle formazioni autonomiste catalane, espressione degli interessi della borghesia catalana, hanno utilizzato a volte l’argomento “Madrid ens roba” (Madrid ci ruba i soldi) per premere sui governi centrali e ottenere più investimenti e meno tasse, spiegando che essendo la Catalogna uno dei motori economici del paese non poteva essere appesantita da un’eccessiva tassazione. I partiti autonomisti però non hanno mai mirato all’indipendenza, ma hanno sempre difeso l’autonomia all’interno dello stato centrale spagnolo, appoggiando a Madrid i governi di destra e centrosinistra e ricevendo in cambio la gestione degli “affari interni”. Agli inizi di questo decennio, però, con l’inizio della crisi economica e l’applicazione dell’austerity, e l’affossamento del nuovo Statuto di Autonomia da parte delle autorità centrali, la base dei partiti autonomisti e molti elettori repubblicani, comunisti e socialisti sono diventati indipendentisti, relegando ai margini i dirigenti autonomisti che in buona parte si sono schierati per il mantenimento dello status quo, contro il referendum e contro l’indipendenza. Ne è nato un movimento popolare trasversale con una netta tendenza progressista e un protagonismo delle ali radicali – di natura anticapitalista e antifascista – che lotta per la costituzione di una Repubblica catalana indipendente che rompa con il Regno di Spagna e la sua classe dirigente corrotta, autoritaria e nazionalista. La rivendicazione “meno tasse” che può essere diretta ad un governo centrale da parte di forze autonomiste di una regione non ha più senso se si chiede l’indipendenza: è evidente che in un nuovo stato si dovranno pagare tasse anche superiori a quelle versate ora. Oltretutto la continua mobilitazione – manifestazioni, blocchi stradali e ferroviari, scioperi – mette a rischio gli affari e gli investimenti e negli ultimi anni ha causato un calo del Pil catalano. L’indipendentismo catalano non ha al centro motivazioni economiche, ma è l’espressione di una rivendicazione nazionale storica e di un progetto politico di rottura con lo status quo anche dal punto di vista economico, sociale e culturale. Non è un caso che la borghesia catalana sia in gran parte schierata contro gli indipendentisti e contro la rottura con Madrid, essendo ormai parte della classe dirigente dello Stato ed interessata quindi al mantenimento dello status quo, della stabilità e dell’unità della Spagna.

“Il referendum per l’indipendenza viola la Costituzione e quindi non può essere accettata”:
in molti scambiano la Legge fondamentale spagnola con quella italiana (che pure non è perfetta ed è suscettibile di miglioramenti su molti fronti), pur non sapendo nulla di come la Costituzione spagnola sia stata varata, da chi, quando, per sostenere quali valori e quali interessi. Contrariamente alla Carta italiana, nata dalla Resistenza e dalla sconfitta dei fascisti (seppure mai interamente applicata), quella spagnola è nata dalla decisione di una parte del franchismo di riciclarsi in un nuovo regime politico. Alla morte di Francisco Franco i fascisti hanno resuscitato la Monarchia affidandola a Juan Carlos di Borbone, un sovrano cresciuto all’ombra del dittatore e fedele ai valori e agli interessi del Regime. La nuova “democrazia” è nata su iniziativa di un pezzo importante della classe dirigente franchista che ha scritto la nuova Costituzione – contando sull’arrendevolezza di una parte delle opposizioni antifranchiste – e ha varato una legge di amnistia perpetua per i responsabili dei tremendi crimini del regime (la Spagna è il paese con più fosse comuni al mondo, dove sono sepolti gli oppositori del regime, dopo la Cambogia…). L’architettura costituzionale della Spagna odierna è un vero e proprio calco delle leggi varate durante il regime fascista, con a capo un sovrano erede del lascito ideologico di Franco e fedele al dogma dell’unità della Spagna a ogni costo. Che qualcuno metta quindi in discussione quella Costituzione e quelle leggi nate da un’operazione trasformistica del fascismo spagnolo non dovrebbe che farci piacere.

“Gli indipendentisti hanno violato la legge ed è quindi giusto che vengano puniti”
: negli ultimi anni nella sinistra italiana il dogma della legalità ha malauguratamente sostituito il valore della giustizia. Mentre la legge rappresenta un precipitato dei rapporti di forza tra le classi, la giustizia e l’eguaglianza sono i valori e i criteri che devono guidare il conflitto di chi si batte per una società migliore. Le leggi sbagliate si combattono, si violano per cambiarle in meglio. Se in questo paese godiamo di alcuni diritti sociali e civili (che stanno facendo di tutto per abolire) è grazie alla lotta, alla disobbedienza da parte dei movimenti sociali e delle sinistre che hanno violato e combattuto leggi ingiuste per affermare le rivendicazioni popolari. Considerare le leggi un limite invalicabile significa rinunciare ad ogni aspirazione al cambiamento sociale, al raggiungimento di un nuovo equilibrio più giusto e più equo.

“Gli indipendentisti non sono la maggioranza tra i catalani”:
i detrattori della causa catalana “più informati” fanno notare che alle elezioni gli indipendentisti non prendono mai più del 50% dei voti e che tutti i sondaggi danno i favorevoli all’indipendenza sotto questa soglia. Intanto occorre dire che i voti degli indipendentisti superano ampiamente quelli per i partiti unionisti spagnoli. E comunque l’unico modo per capire se la maggioranza della popolazione è favorevole allo status quo o vuole l’indipendenza è permettere agli abitanti di quel territorio – com’è d’altronde avvenuto in Scozia nel 2014 o precedentemente in Quebec, la provincia francofona del Canada – di esprimersi democraticamente attraverso un referendum accordato con lo Stato centrale. Nessuno sottolinea mai che, a proposito di sondaggi, circa l’80% dei catalani – compresi quindi molti di coloro che votano partiti unionisti – difende il “diritto a decidere”, cioè il diritto del popolo catalano ad essere consultato democraticamente in merito a una questione fondamentale che non può essere decisa dal governo spagnolo.

“Perché i catalani vogliono indipendenza se hanno già molta autonomia”:
i catalani godono di un certo grado di autonomia, è vero, ma negli ultimi decenni il governo e le istituzioni spagnole hanno progressivamente ridotto il grado di autogoverno concesso alla Catalogna dopo la morte di Franco. Negli ultimi anni decine di leggi dal contenuto sociale e ambientale varate dal Parlamento autonomo di Barcellona sono state bocciate ed eliminate dal Tribunale Costituzionale spagnolo, dominato da magistrati reazionari e nazionalisti spagnoli. Per non parlare dei continui tentativi da parte di Madrid di attaccare l’uso della lingua catalana nelle scuole e nella vita quotidiana, o di censurare i media pubblici catalani. Una parte consistente della popolazione catalana vuole uno Stato che difenda i diritti sociali e civili contro il liberismo e l’austerity, che instauri nuove relazioni con i paesi del Mediterraneo, che abbia un atteggiamento meno aggressivo nei confronti dei profughi e dei migranti. Vuole insomma un contesto istituzionale – uno stato – che permetta loro di esercitare quella sovranità democratica e popolare che l’architettura del Regno di Spagna gli impedisce di sviluppare. Non il socialismo, certo, ma un compromesso sociale più avanzato di quello consentito da Madrid.

“Perché i catalani non lottano per una repubblica federale invece che per l’indipendenza”:
la maggior parte dei catalani favorevoli attualmente all’indipendenza sono stati a lungo autonomisti o federalisti. Hanno creduto che attraverso il conflitto sociale e istituzionale si potesse imporre a Madrid, contando sulla partecipazione delle sinistre e dei movimenti spagnoli, di un nuovo assetto socialmente più avanzato e federale. Ma nella Spagna propriamente detta non esiste un movimento che lotti, realmente, per una repubblica federale, e quindi per l’abolizione della monarchia e del centralismo. Anche le sinistre, che pure fanno formalmente proprie queste parole d’ordine, hanno accettato fin dalla morte di Franco la rinuncia ad una trasformazione radicale della struttura dello Stato. E’ per questo che, dopo l’affossamento da parte delle autorità spagnole del nuovo Statuto di Autonomia del 2005 che spingeva proprio verso la trasformazione federale della Spagna, molti catalani prima autonomisti e federalisti sono diventati indipendentisti. E possono contare sulla solidarietà non solo dei movimenti indipendentisti basco e galiziano, ma anche su quella delle organizzazioni di classe e internazionaliste di Madrid, dell’Andalusia, delle Asturie, le quali ritengono la rottura nazionale della Catalogna una condizione necessaria per far saltare l’opprimente status quo imposto al paese dal 1978.

“Ma i catalani sono nazionalisti! Che c’entrano con la sinistra?”:
formalmente, è vero, i catalani che chiedono la costituzione di un nuovo stato indipendente sono nazionalisti. “Nazionalismo”, però, è un termine omnibus che va declinato ogni volta sulla base delle circostanze concrete in cui opera. Il nazionalismo di liberazione non è uguale al nazionalismo di uno Stato sciovinista e autoritario. Nazionalisti non sono stati solo i fascisti e i nazisti, ma anche i rivoluzionari cubani, o algerini, o vietnamiti, o i partigiani italiani, o più recentemente coloro che si battevano per affermare le rivoluzioni democratiche e socialiste in America Latina contro i regimi oppressivi sostenuti da Washington.

In larga parte gli indipendentisti catalani che difendono un progetto politico, e non si basano sulla difesa di un’identità culturale pensata come immobile e sempre uguale a sé stessa, o che fondano la loro concezione sulla difesa di una presunta purezza etnica, o linguistica, o genetica. Si tratta al contrario di un progetto politico inclusivo, trasversale, aperto a tutti coloro che vivono e lavorano in Catalogna, non ostile alle altre identità che all’interno di quel territorio si sono sviluppate nel tempo.
La creazione del nuovo stato non è concepita come l’elevazione di nuovi muri verso l’esterno, ma come la creazione di un contesto all’interno del quale sviluppare la partecipazione democratica e il coinvolgimento dei cittadini alla presa delle decisioni sugli ambiti economici, sociali, politici.

“E’ sbagliato creare nuovi stati, dovremmo lottare contro le frontiere. Siamo tutti cittadini del mondo”:
lo Stato, che piaccia o meno, è l’unica entità che ancora per molto permetterà ad unapopolazione di decidere su questioni dirimenti per la vita, l’economia, la cultura, i diritti, le relazioni internazionali (anche se i poli geopolitici come l’Unione Europea e la pressione delle multinazionali e dei grandi istituti finanziari tendono a cancellare la sovranità popolare esercitata attraverso gli stati). Non necessariamente la forma di un nuovo stato deve essere uguale a quelli già esistenti, ma possono metterne in discussione le caratteristiche e sperimentarne di nuove. L’internazionalismo combatte la competizione tra popoli e stati creata dai poteri economici e politici per sostenere i propri interessi, ma non può che basarsi – come afferma il termine stesso – sul riconoscimento di una pari dignità a tutte le nazioni, non certo sulla negazione dei loro diritti in nome dell’inviolabilità delle frontiere e di una sorta di statolatria – di adorazione degli stati esistenti – che non ha ragione di essere. Gli Stati non sono entità neutrali e naturali ma il frutto di processi storici e sociali.

“Se concedono l’indipendenza alla Catalogna poi la pretenderanno anche altri territori”:
stando alla concezione che in molti esprimono, il diritto all’autodeterminazione sarebbe una risorsa non rinnovabile, finita. Non verrebbe mai in mente di contestare l’indipendenza italiana, o francese, o tedesca, e neanche quella di piccoli stati come Malta o il Lussemburgo. Ma quando si tratta di giudicare rivendicazioni storiche come quella catalana riattivate dalla crisi economica, dal neocentralismo spagnolo e dal processo di integrazione europea sembra prevalere il “non c’è più posto”, il “chi ha avuto ha avuto”… In generale la disponibilità a sostenere un movimento di liberazione nazionale diminuisce man mano che la rivendicazione si avvicina ai nostri confini.

Non sarà mettendo la testa sotto la sabbia o liquidando l’aspirazione alla liberazione nazionale dei popoli con dei cliché, con dei (pre)giudizi preconfezionati che la sinistra e i movimenti per il cambiamento possono sperare di diventare incisivi e dirimenti all’interno di una realtà in continua evoluzione. Solo il dibattito, l’approfondimento, il confronto, l’analisi realistica delle forze e degli interessi in campo può farci fare un passo in avanti nella comprensione delle forze che si muovono sullo scacchiere internazionali.

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