Alcune note sulla gestione sanitaria del COVID-19 e su come scongiurare il peggio
Leggere la stampa locale, in queste ultime settimane, è come stringere in mano un bollettino di guerra.
Cifre di positivi esorbitanti, reparti COVID-19 saturi, medici in profondo allarme, storie di contagi e di aggravamenti che segnalano un totale abbandono sanitario, le prime aree della provincia di Napoli e Caserta ufficialmente in zona rossa.
Sembra che il collasso definitivo dei nostri servizi bussi sempre più insistentemente alle nostre porte e che il lockdown sia l’ultima spiaggia cui aggrapparsi.
Tiriamo le somme di ciò che è lo stato della sola sanità regionale: cosa ha fatto, in questi otto mesi, il presidente De Luca?
Niente di efficace, solo chiacchiere e spot elettorali.
C’era tutto il tempo per potenziare il servizio pubblico nella mobilità, nella scuola, nella sanità.
Ci siamo ritrovati, invece, nei soliti carri bestiame, nelle solite classi pollaio, e nei soliti padiglioni ospedalieri fatiscenti, sovraffollati, privi di personale e del tutto disorganizzati. Servizi smantellati da anni di commissariamento e mala gestione di cui De Luca è stato fautore.
C’era tutto il tempo per organizzare diversamente le risorse già disponibili, elaborare piani per un’emergenza assolutamente prevedibile e prevista da tutti, non lasciare che il virus si diffondesse lungo la direttrice del turismo, ma tracciarne la diffusione fin dagli scali aeroportuali e marittimi: non dalla metà di agosto, ma dagli inizi di giugno.
Nulla è stato fatto.
Eppure la popolazione campana ha continuato a dare fiducia al governatore, credendo, come ci ha raccontato, che la scarsa diffusione del virus nella prima ondata fosse merito del suo rigore.
Ed invece, cosa sta facendo De Luca in questi giorni?
Si è limitato ad aprire definitivamente la strada ai privati per qualsiasi speculazione, ha bloccato visite e ricoveri ritenuti “non urgenti” nel servizio pubblico, ha ristretto di tantissimo la possibilità di accedere ai tamponi mediante servizio pubblico, come nel caso dell’ultima disposizione che limita gli accessi al Frullone.
Poi ha chiuso le scuole, mettendo in discussione l’impegno di questi mesi dei docenti e degli operatori piuttosto che la sua incapacità di garantire un trasporto pubblico decente e di organizzare diversamente gli ingressi, gli spostamenti. Oggi continua a insistere sulla necessaria serrata dei locali, dei piccoli esercizi commerciali, a sbraitare contro la movida, a prendersela coi singoli cittadini, soprattutto coi giovani. Lo scorso venerdì ha annunciato persino il lockdown, salvo poi fare marcia indietro, piegandosi al volere del governo e della conferenza Stato-Regioni, coi quali ancora oggi continua a giocare a rimpiattino per la spartizione delle rispettive responsabilità politiche.
Pare che per tutti loro sia sempre meglio che moriamo di Covid e malasanità piuttosto che scontentare Confindustria o mettere mano alle casse pubbliche per garantire sussidi, ammortizzatori sociali e reddito a chi sta pagando sempre più caro il prezzo di questa crisi sanitaria, economica, sociale.
A fronte di tutto questo, il “non fare”, il “non programmare” degli ultimi mesi non è stato frutto di semplice incapacità davanti all’emergenza, ma è stato il piano con cui garantirsi la rielezione alla Regione Campania attraverso un sistema di clientele e cooptazione fittissimo e capillare.
De Luca non è stato realmente con le mani in mano. La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha indagato sulle cifre e sulle modalità operative sui generis del Governatore, rendendo noto che nel solo periodo gennaio-aprile 2020, parallelamente alla spropositata ondata di terrorismo mediatico e colpevolizzazione cui ci ha sottoposto, sono stati bruciati 204 milioni di euro, bandite ben 1279 gare d’appalto per forniture e servizi.
A restituire il quadro dei fiumi di denaro sprecati e distribuiti fra gli “amici degli amici”, a fronte di un graduale tracollo dei nostri servizi, basti pensare che la cifra di spesa pro-capite, per ogni ammalato Covid, si attestava, già nel periodo marzo-aprile 2020, sui 76.308 euro.
Se c’è un senso, in questa sconsiderata gestione dell’emergenza, è sicuramente quello dell’aver anteposto la corsa alla rielezione alla Regione ai nostri interessi collettivi. Una scelta davvero criminale, guardando ai costi umani e ai costi indiretti, in termini economici e sociali, che a distanza di pochi mesi vediamo già concreti sotto ai nostri occhi.
Oggi lo scivolamento verso la necessità del lockdown si fa sempre più concreto, con tutti i correlati negativi che ciò comporterebbe. Ma nostro compito non è quello di tapparsi in casa ad aspettare il peggio, non è limitarsi a piangere su ciò che si poteva e doveva fare in un passato ormai andato, né continuare ad assistere alla farsa orwelliana di un Presidente di Regione che nei suoi soliloqui continua a ripeterci che tutto va bene, che tutto è sotto controllo, che si sta facendo il massimo, mentre la realtà ci dice l’esatto contrario.
Se le tensioni di piazza degli ultimi giorni ci urlano qualcosa di positivo è che si è ormai esaurito il tempo della fiducia a fondo perduto verso questa classe politica inadeguata, incapace, criminale.
L’unico modo di trascinarci fuori da questo incubo è farlo da noi, è organizzare sempre più un fronte coeso e costruttivo di resistenza, un fronte che abbia antenne dritte a captare i bisogni irrisolti nella pancia di ogni nostro quartiere, di ogni nostro territorio, un fronte che studia, che sa ciò che va trasformato, cosa pretendere, cosa gli spetta.
Mentre assistiamo al rituale quotidiano della pubblicazione del bollettino della Protezione Civile, che ci racconta un numero di posti letto ospedalieri ancora sufficiente ed in costante crescita, la realtà degli operatori ospedalieri è quella della totale saturazione dei reali posti di terapia intensiva, sub-intensiva e di degenza ordinaria per Covid, unica spiegazione, peraltro, a quelle file di autoambulanze che a volte anche per giorni interi si assiepano fuori ai principali Pronto Soccorso della regione, a quelle testimonianze che bucano il mainstream raccontandoci a chiare lettere l’inferno.
De Luca annuncia e dichiara incrementi di posti letto con giorni e settimane di anticipo rispetto alla loro reale attivazione, ha continuato a mentire per mesi fino ad arrivare all’escamotage di dichiarare i posti letto “attivabili”, anziché realmente disponibili.
Non ci racconta che questa espansione già oggi va molto a rilento ed è insufficiente a sopperire alle esigenze reali, ma che è anche a un passo dalla saturazione, per la carenza di figure professionali – medici specialisti come rianimatori, pneumologi, internisti in primis – indispensabili a garantire ancora nuove aperture.
Secondo la sua strategia di rincorrere in ritardo i contagi, l’unica prospettiva possibile, già nel breve periodo, sarebbe quella di un pesante piano di riconversione. Interi ospedali rischiano di diventare dalla sera alla mattina Covid Hospital, come nel caso delle strutture di Nola e Frattamaggiore (NA) e di Agropoli (SA), del cui destino già scritto si discute proprio in questi giorni. Una scelta che appare conveniente solo sul mero piano economico, a giudicare dai rimborsi e dalle voci di spesa previsti per l’assistenza ai Covid positivi, ma che al netto di questi cinici calcoli comporterebbe l’abbandono ulteriore di tutta la nostra popolazione, lo scadimento della qualità dell’assistenza globale, la restrizione dei margini di salvezza per chi in ospedale arriva per infarti, ictus, patologie egualmente gravi, urgenti e rischiose per la vita.
L’ipotesi delle riconversioni è da rigettare risolutamente. Perchè non è vero che non c’è alternativa!
La priorità assoluta deve essere il potenziamento e la riorganizzazione immediata della rete ospedaliera.
Per un verso, bisogna ottimizzare tutte le risorse già disponibili:
- organizzare équipes multidisciplinari anziché per specialità, che mettano a massimo valore le risorse in ogni reparto;
- precettare immediatamente gli specialisti e tutti i lavoratori attualmente in forze al privato;
- requisire i mezzi e le risorse delle cliniche, ove quelle del servizio pubblico non dovessero rivelarsi sufficienti;
- coinvolgere strutture sotto-investite della gestione dell’emergenza e dell’assistenza ordinaria e riattivare immediatamente gli ospedali dismessi in passato e tutt’ora agibili per organizzare nuovi posti letto a bassa intensità di cure per le degenze post-acuzie Covid e per nuovi Covid Residence, come nel caso dell’Ospedale San Gennaro di Napoli, già pronto ad accogliere nei suoi locali questa popolazione di assistiti.
Per l’altro verso, è inutile nascondere che, a causa dei tagli impietosi degli anni passati – quantificati dall’ISTAT, per i soli dipendenti diretti, in un -18.9% di medici e infermieri nel solo periodo 2010-2017 – c’è bisogno di un piano straordinario di assunzioni e stabilizzazioni.
Bisogna:
- sbloccare le graduatorie già in essere – come quella degli OSS del Cardarelli, in mobilitazione da mesi –
- regolarizzare e internalizzare i servizi in appalto
- stabilizzare tutti i precari con contratti a termine o a progetto
- accelerare i concorsi già pianificati, disporne degli altri in base ad una pianificazione seria delle risorse necessarie di qui ai prossimi anni, anche in vista delle crescenti ondate di pensionamenti, per categorie lavorative fra le più “anziane” d’Italia.
Infine, come il caso concreto della Lombardia ci insegna, attingere a professionalità estere, come nel caso delle brigate di medici cubani, è una soluzione concreta, praticabile, auspicabile.
Perchè esistono strade praticabili nell’immediato e la carenza di medici, infermieri, operatori sanitari tutti, non può e non deve essere un ostacolo alla garanzia del diritto alla salute.
È necessaria, ancora, una verifica immediata e trasparente, mediante ispezione e monitoraggio delle principali autorità sanitarie regionali e governative, dei posti letto realmente disponibili nei nostri ospedali, di quelli occupati, con una valutazione dell’appropriatezza dei ricoveri nei reparti Covid, una mappatura delle ragioni più frequenti che ostacolano o ritardano le dimissioni.
Decongestionare i reparti fin da ora è possibile, se parallelamente alla ristrutturazione della rete ospedaliera si riorganizzasse la medicina territoriale perché si faccia carico di quelli che oggi sono riconosciuti da tutti come veri e propri ricoveri incongrui, ma inevitabili.
Il rapporto osmotico che esiste fra la rete ospedaliera e la medicina territoriale – col servizio di 118 a far da cerniera fra l’una e l’altra – deve imporre necessariamente una parallela e profonda ristrutturazione della rete assistenziale diffusa sui nostri territori.
De Luca ha caldamente invitato i Medici di Famiglia a collaborare più intensamente, omettendo di dire che esistono dei limiti dettati da alcune peculiarità contrattuali, alle pressioni e ai provvedimenti che persino una Regione può esercitare verso queste figure.
Esistono, ancor prima di questo, delle forti inadempienze della Regione verso la categoria dei Medici di Base. Secondo l’ISTAT, ci siamo affacciati all’emergenza con una media di 7,1 Medici di Medicina Generale ogni 10.000 residenti, ovvero di 1 medico ogni 1408 pazienti.
La realtà delle cose ci dice che il massimale di 1500 assistiti per ogni medico – per il quale sono previsti anche degli sforamenti – è quasi la normalità su ogni distretto sanitario della regione.
A fronte di una categoria ormai mediamente molto “anziana”, le nuove assunzioni sono bloccate troppi anni e non sono mai state pianificate di concerto con la messa a bando di un numero adeguato di posti per le scuole di formazione in Medicina Generale, nonostante questa domanda esistesse ed esista anche oggi fra i neolaureati in Medicina e Chirurgia.
Eppure i censimenti delle zone vacanti, ovvero sguarnite di Medici di Medicina Generale e Pediatri di Libera Scelta in relazione alla numerosità degli abitanti, vengono aggiornati di anno in anno. Bandire con regolarità i nuovi incarichi era dovere di De Luca, non solo in questi mesi ma negli scorsi 5 anni, mentre di tutto questo non c’è stata traccia, perché l’unico mantra era quello del taglio lineare alle spese sanitarie.
Infine, sulla Pediatria di Base: dopo mesi in cui, con tutti i limiti del caso, si è riorganizzata l’assistenza in stretta collaborazione con le scuole, per un contact tracing efficace fra lavoratori, famiglie e alunni, il provvedimento di chiusura di De Luca ed il ritorno alla DAD ha sostanzialmente tagliato via in un battito di ciglia anche questa possibilità aggiuntiva di sorveglianza sanitaria sulle popolazioni scolastiche e relativi nuclei familiari, ripiombati oggi nel sostanziale abbandono delle proprie quattro mura.
Sono necessari controlli a tappeto, da parte della Regione e delle ASL, sull’operato dei Medici di Medicina Generale, per l’emersione dei disservizi e dei casi sempre più frequenti di vera e propria irreperibilità.
Ma sono anche necessarie nuove risorse per fare in modo che la Medicina di Base sia meglio addentellata ai servizi di Sorveglianza Sanitaria, nuove assunzioni per l’assegnazione delle zone carenti e la riduzione del massimale dei pazienti in carico a ciascun operatore.
Va “sburocratizzata” l’attività quotidiana dei Medici di Base, a favore di un’implementazione dei servizi di assistenza attiva, soprattutto quella domiciliare. Tutto ciò è immediatamente praticabile attraverso il coinvolgimento delle facoltà di Medicina e Chirurgia e di Scienze Infermieristiche, delle Scuole di Specializzazione dei Policlinici Universitari.
E se anche centinaia di nuovi laureati in Medicina e Chirurgia chiedono a gran voce di poter essere abilitati all’esercizio della professione mediante una pronta iscrizione all’albo, i tirocini post-laurea obbligatori e i percorsi di avvicinamento alla professione possono essere pianificati nell’immediato per un affiancamento proficuo dei Medici di Medicina Generale e degli operatori dei servizi di Sorveglianza Sanitaria.
A chiusura di queste riflessioni, un’osservazione a sé è da riservare alle USCA. La loro istituzione risale ai primi di marzo ed era finalizzata proprio a decongestionare ospedali e Medici di Medicina Generale, per garantire loro di non dover fare passi indietro rispetto all’attività assistenziale ordinaria per i pazienti non-Covid, per prestare assistenza domiciliare ai pazienti infetti limitandone i movimenti e dunque riducendo al minimo contatti e contagi. Dieci erano i giorni di tempo messi a disposizione dal governo affinché le Regioni le organizzassero e le attivassero, secondo un fabbisogno medio di una squadra ogni 50.000 abitanti.
A otto mesi pieni dall’emanazione di questo decreto legge solo Emilia-Romagna e Piemonte hanno dato piena applicazione alla disposizione, mentre per una regione come la Campania, che ne prevedeva 115 sulla carta e ne avrebbe bisogno come l’ossigeno, le USCA sono semplicemente un miraggio, rarità spesso abbandonate a se stesse, all’esecuzione di tamponi col contagocce, ben lungi da quell’attività pianificata su 7 giorni su 7, per 12 ore al giorno.
Se è necessario un controllo, la comunicazione di dati trasparenti e verificabili sulla reale attivazione delle USCA e su orari, giorni di attività reale sul tutto il territorio regionale, sulla concreta disponibilità di tamponi e DPI garantiti dalla Regione, anche in questo caso è necessario procedere immediatamente ad assunzioni che consentano di raggiungere gli standard minimi disposti per legge, senza più deroghe e ritardi, includendo laureati abilitati in Medicina, in Scienze Infermieristiche, oltre che studenti di Medicina Generale ancora in formazione, con una contrattualizzazione stabile e continuativa nel tempo, che non si esaurisca di certo sul finire dell’emergenza.
Se c’è un terreno su cui si è consumata la principale disfatta di De Luca, nella gestione dell’emergenza sanitaria, è quello dei tamponi. La Campania è sempre stata fanalino di coda per numerosità di tamponi somministrati, lo è tutt’oggi, in relazione al numero di contagi e alla velocità di crescita dei positivi con cui abbiamo a che fare. Nonostante siano mesi che è dimostrata la relazione fra curve di contagio, ospedalizzazioni, ricorso alle terapie intensive e incapacità di arrivare a diagnosi precoce, isolamento dei contatti, attraverso campagne più o meno mirate di somministrazione di tamponi, niente è valso affinché si approntasse una strategia ordinata e definita di test, che fosse sufficiente e ben distribuita su tutto il nostro territorio.
Durante la “prima ondata” di marzo-maggio, potevamo contare su un numero di laboratori abilitati all’analisi dei tamponi davvero esiguo, su due soli laboratori, quelli del Cotugno e dell’Ospedale San Paolo, per tutta l’area di Napoli, terza città d’Italia per estensione.
Se le inchieste di testate come Fanpage e Report hanno denunciato fin da subito l’inazione della Regione nell’ottenimento dell’abilitazione per altri laboratori pubblici già attrezzati adeguatamente, via via che le elezioni regionali si avvicinavano, il rapporto a tratti opaco che lega il governo regionale ai grandi colossi della diagnostica privata si è sempre più fatto palese.
Le gare lampo e notturne per appalti cuciti addosso a pochissimi competitor, lo scandalo della relazione non regolare fra Istituto Zooprofilattico e centro Ames, la rivolta dei piccoli laboratori privati e le pressioni sempre più crescenti per spartirsi una fetta di profitti assieme ai “big” del settore, le proposte di candidature di notabili del ramo nelle liste di De Luca, in barba a qualsiasi pudore e garanzia rispetto al conflitto d’interessi, poi la liberalizzazione sorveglianza sanitaria nel privato, fino al “Liberi tutti!” di queste ultime settimane, sono il riassunto di una parabola che ha sempre più spinto nell’emergenza il settore pubblico, creando le precondizioni di disservizio per aprire praterie ai vantaggi di pochi speculatori.
I privati. Quelli che ci chiedono dai 60 agli 80 euro per un tampone. Quelli che per una famiglia monoreddito con 1000 euro al mese per 4 persone, che dovrebbe sborsare almeno 250 euro per un solo “giro” di tamponi, sono semplicemente inavvicinabili. Quelli che ci offrono stick rapidi o test sierologici, spesso inutili, per farci risparmiare ma non farci rinunciare a spendere, come se fossimo al mercato. Quelli che ci fanno assiepare fuori alle loro sedi creando bombe di contagi. Quelli che vengono a casa tempestivamente, sopperendo a ciò che il pubblico non riesce o non vuole sostenere. Quelli che non contribuiscono per niente all’attivazione di un efficace sistema di sorveglianza sanitaria, che vengono blandamente ripresi nella diretta facebook del venerdì del Presidente perché nemmeno si scomodano nel caricare, sulle piattaforme istituzionali, i loro risultati.
I privati sono però anche quelli che, in questo scenario, rappresentano l’unico appiglio possibile per uscire dal panico e dalla malattia, quelli che per i più “ci spennano vivi, ma almeno ci danno risposte e ce le danno subito!”.
Non è più possibile consentire questa speculazione selvaggia, in un momento così critico sotto il punto di vista sanitario ed economico. Né è accettabile chiudere gli occhi davanti ai tanti che scelgono di abbandonare le cure perché non possono comprarle.
I tamponi devono essere gratuiti per tutte e tutti, nel pubblico come nel privato, come qualsiasi altro Livello Essenziale di Assistenza, se effettuati su prescrizione medica. Le prestazioni garantite attualmente nel privato non possono più essere pagate di tasca propria dai singoli cittadini, devono essere convenzionate e dunque rimborsate dalla Regione, con un calmiere che stoppi, finalmente, le speculazioni e senza alcun tetto di spesa a tagliare fuori fette di popolazione.
Deve essere approntata una verifica immediata e trasparente sui livelli di attivazione dei laboratori pubblici, distrettuali e ospedalieri, al fine di procedere all’attivazione immediata di quelli ancora non inclusi nel Sistema di Sorveglianza Sanitaria per il Covid. Incrementare le loro capacità di analisi quotidiana deve essere priorità assoluta, non di certo sostenibile con i soli 5 nuovi apparecchi annunciati da De Luca: la dotazione, se necessario, deve prevedere ancora una volta la requisizione delle strumentazioni necessarie ai privati, con un conseguente piano assunzioni che rafforzi i laboratori di ASL e ospedali e riporti il servizio della diagnostica nelle mani del pubblico.
Arrivati fin qui, traspare già abbastanza chiaramente il disastro perpetrato a carico di chi soffre di patologie gravi, ma deve sentirsi quasi sfortunato a non aver contratto il Covid, perché ormai è finito fuori dai radar di qualsiasi istituzione sanitaria.
Un servizio pubblico che lavora in affanno, trascinato dagli eventi, alla rincorsa della sola emergenza, non può in nessun caso essere all’altezza di livelli minimi di dignità.
Il Covid ha esasperato fenomeni, carenze, disservizi e inadempienze che esistevano anche prima della pandemia. Ha reso più visibili contraddizioni striscianti che non è più possibile nascondere sotto al tappeto, rimandando a mai più la loro risoluzione.
È necessario ritirare immediatamente il provvedimento che ridimensiona l’accesso ai servizi sanitari per tutte quelle prestazioni ritenute “non urgenti”, perchè soprattutto nelle ASL, sui territori, tutto questo ha davvero poco a che fare con le energie e le risorse impiegate sul fronte del Covid. Così come è necessario riquadrare, monitorare, supervisionare il ruolo e l’effettiva adempienza dei servizi di Guardia Medica, altri grandi assenti di questa emergenza, potenzialmente utilissimi a decongestionare soprattutto i Pronto Soccorso, ottimizzando l’assistenza e limitando i rischi di contagio per tutti coloro i quali soffrono di patologie non-Covid.
Esistono due categorie di amministrazioni locali e istituzioni di prossimità: quelle che davvero pensano di non poter avere alcun ruolo in campo sanitario, poi quelle che se lo raccontano per chiamarsi fuori dai giochi e sedere sullo scranno comodo degli opinionisti politici, degli esecutori di misure decise dall’alto, pur di non assumersi responsabilità.
Eppure i sindaci sono garanti del benessere e della salute della propria cittadinanza.Certo, non hanno compiti gestionali e amministrativi, ma non è pensabile continuare a fare sconti su tutto ciò che è loro ruolo per una efficace gestione del Covid.
Approntare iniziative efficaci di informazione, orientamento ai servizi, educazione sanitaria è necessario ed è nelle loro possibilità. Così come lo è tracciare i focolai e le aree di maggiore contagio, i nuclei familiari e i raggruppamenti più a rischio, programmando iniziative di prevenzione e di contenimento delle condizioni più critiche, proprio a partire da un monitoraggio capillare di ciò che accade sui propri territori, a prescindere dai dati ufficiali a disposizione di governo e Regioni.
I Covid Residence e gli alloggi per il personale sanitario infetto devono essere attivati subito, anche a partire dalla messa a disposizione di immobili di loro proprietà – così come di proprietà regionale e demaniale – per decongestionare le aree e gli stabili ad altissima densità abitativa e ad alta promiscuità fra soggetti positivi e non ancora infetti, soprattutto in caso di scarsi livelli socio-economici e culturali. Un’opzione ben più efficace, se non necessaria, sul piano sanitario, a fronte di un lockdown che stiperebbe nelle stesse case, spesso in condizioni ai limiti dell’invivibilità, anche soggetti positivi a rischio infettivo per il proprio nucleo familiare e la propria comunità.
Infine, l’ottimizzazione della gestione e dello smaltimento dei rifiuti domestici per i soggetti positivi, la sanificazione degli stabili ad alto rischio, la distribuzione mirata di mascherine e saturimetri fra i soggetti sottoposti a isolamento domiciliare, l’intervento di sorveglianza e ispezione sui posti di lavoro più a rischio, a partire dal trasporto pubblico locale, dalle società partecipate, dalla pubblica amministrazione tutta, continuando con i tanti esercizi commerciali che insistono sui propri territori, l’intervento a tuttotondo su tutti i determinanti di salute che incidono negativamente sulle condizioni di salute della propria popolazione, sono iniziative praticabili nel qui e ora, obblighi e doveri a cui non potersi più sottrarre.
Le principali autorità scientifiche mondiali, ultima, in termini di tempo, la rivista The Lancet, sono d’accordo nello sfatare uno dei falsi miti più inflazionati a proposito del Covid.
Il Coronavirus non è una livella, morde più ferocemente le classi sociali più svantaggiate, esaspera le diseguaglianze, consegna un destino più tragico a chi già se la passa male.
Non è più possibile pensare di contrastare i contagi, la crisi sanitaria che stiamo attraversando, le conseguenze sul piano economico e sociale, lavorando soltanto sulla gestione medica e infettivologica del virus, né tantomeno surfando sull’emergenza, senza alcuna pianificazione, alla rincorsa degli eventi, perché questo significa scegliere in partenza un terreno di battaglia limitato e perdente, che porta a contrapporre salute e sopravvivenza materiale, precipitando nell’immiserimento complessivo le fasce più popolari delle nostre città, dei nostri territori.
Ambiente, salute, istruzione, lavoro, cultura, welfare, sono temi da mettere al centro dell’agenda politica, campi d’azione da investire di pari passo, per tirarsi fuori dai tempi bui in cui rischiamo di precipitare e per fare in modo che interessi solo apparentemente contrapposti ci spingano a farci la guerra fra pari, mentre in fondo vogliamo tutti le stesse cose: pane, salute e la certezza di un futuro migliore.
Non c’è salute possibile senza una cura per tutto ciò che contribuisce al nostro benessere, a quello delle nostre comunità. E non c’è sistema sanitario al mondo sufficiente a garantirci pieno soddisfacimento dei nostri bisogni più fondamentali.
Far convergere in questa direzione i tanti rivoli delle lotte, delle rivendicazioni che stanno animando le piazze di Napoli e di tutta Italia in questi giorni, è in fondo, l’unico modo per cambiare il finale a questa brutta pagina di storia, un finale scritto da una classe politica che non potrà pià raccontarci di aver fatto il massimo per noi e la nostra sopravvivenza.
Basta chiacchiere, basta speculazioni. Non vogliamo un’ecatombe nella nostra Campania!