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BLOCCHIAMO TUTTO! QUALCHE RIFLESSIONE SU UN “WEEKEND LUNGO” DI LOTTA

Con ancora negli occhi le immagini dell’incredibile mobilitazione di sabato a Roma, che ha visto un milione di persone scendere in piazza, vorremmo ripercorrere e fare qualche considerazione su questo “weekend lungo” di lotta.

Nel giro di dieci giorni ci sono stati ben due scioperi generali indetti per la Palestina, due scioperi “politici”, nel senso migliore del termine, capaci cioè di collegare il malcontento generalizzato, anche se spesso inespresso in forme collettive, per condizioni di vita in via di costante peggioramento e per la compressione dei diritti con questioni di carattere internazionale e generale, con un sentimento di indignazione e di ingiustizia per quello che sta accadendo in Palestina e per il silenzio e la colpevole complicità a riguardo del nostro Governo, ma anche delle forze di opposizione, fin troppo timide nel sottolineare il ruolo dell’Italia nell’azione genocidiaria di Israele.
Non è solo il fatto che lo stato sionista abbia palesemente oltrepassato ogni limite di crudeltà ad aver costituito la leva per una riattivazione così potente; c’è anche il dato di realtà che di Palestina non si è (quasi) mai smesso di parlare, per decenni. Ci sono state epoche in cui la questione palestinese riempiva piazze enormi, altre in cui radunava soltanto qualche centinaio di persone. Se oggi siamo qui a non smettere di contare le piazze, è anche grazie a quelle poche migliaia di persone che, in momenti in cui era letteralmente impossibile, hanno continuato a parlare di Palestina, a gridare il proprio sostegno alla Resistenza, a ribaltare punto su punto la narrazione dominante. A mostrare come la lotta palestinese parlasse anche delle nostre vite.

Da anni ci confrontiamo con indagini e analisi autorevoli che ci restituiscono la fotografia di un paese immobile, in cui a farla da padrone sono il rifiuto e la disaffezione per la politica e dove primeggiano individualismo e menefreghismo; da anni chiunque militi si scontra con un muro di sfiducia, disinteresse, ritiro nel privato, sentimenti di sconfitta talmente forti da sopraffare le persone più generose e determinate tra di noi, finché all’improvviso ti ritrovi questo. Tutto ciò che possiamo dire, oggi, è che quantomeno va corretto l’aggettivo che Censis e compagnia attribuiscono da anni all’Italia: paese “silente”, sicuramente, ma evidentemente non immobile. Un paese dove la crisi economica, diventata la nostra condizione stabile di esistenza, al netto di lievissimi mutamenti, da almeno un quindicennio, ha zittito il dissenso, ma ha probabilmente scavato solchi carsici di insofferenza sempre più profondi, ha man mano esaurito le capacità di sopportazione, non è riuscita a cancellare il bisogno collettivo di una vita più degna.
È quindi particolarmente importante, da nostro punto di vista, tenere assieme entrambi i piani per comprendere la straordinaria riuscita della giornata di sabato e delle mobilitazioni locali dei giorni immediatamente precedenti. Se in tutto il paese, da Nord a Sud, dalle grandi città ai centri più piccoli, abbiamo scioperato, siamo scesi in piazza al grido di “Blocchiamo tutto!” non è per un semplice sentimento umanitario. Quello che sta accadendo in Palestina e la resistenza del suo popolo sono elementi immediatamente politici: che dicono molto sulle ingiustizie che si consumano ad ogni latitudine e sulla capacità di rispondere e reagire ad esse. Ancora una volta la Palestina mostra la strada.

Queste mobilitazioni e questi scioperi hanno visto una partecipazione massiccia e trasversale, ma uno degli aspetti sui quali vorremmo soffermarci in particolare è quello del rinnovato protagonismo di lavoratrici e lavoratori del nostro paese. Per ritrovare nella nostra storia una situazione simile (due scioperi generali sostanzialmente riusciti in meno di due settimane), bisogna tornare al 1953 e ai 2 scioperi generali indetti in una settimana, a Gennaio, contro la cosiddetta “legge truffa”; per ritrovare, invece, uno sciopero generale indetto senza preavviso, all’epoca con effetto immediato, occorre risalire “solo” al 16 Marzo 1978, quando le tre principali organizzazioni sindacali proclamarono sciopero dalla notizia del sequestro di Aldo Moro fino alla mezzanotte di quel giorno. Siamo dunque di fronte a qualcosa di eccezionale e di inedito nella vita di diverse generazioni di lavoratrici e lavoratori scesi in piazza il 22 Settembre ed oggi. Se aggiungiamo un altro dato, e cioé la proclamazione del primo sciopero dalle sole sigle del sindacalismo conflittuale (escluso dalla rappresentanza in molti settori per leggi e accordi firmati dai confederali) e del secondo “anche” dalla CGIL alla rincorsa dopo il tremendo harakiri del 19 Settembre scorso, possiamo certamente dirci che c’è qualcosa di oggettivamente nuovo che si muove in questo paese.
Hanno iniziato i portuali e in generale la logistica, interferendo materialmente nella macchina di morte sionista. Li hanno seguiti man mano altri settori, alcuni “insospettabili” come la scuola, dove dopo due anni di repressione e caccia alle streghe sul tema Palestina le e gli insegnanti hanno detto “basta”, e non l’hanno fatto sommessamente. A partire dall’iniziativa di USB e degli altri sindacati di base e dal 22 settembre migliaia di lavoratori e studenti sono scesi in piazza anche nelle più piccole città di provincia, sono stati bloccati i porti a Livorno, Marghera, Salerno, Genova, le autostrade e le tangenziali invase a Roma, Bologna, Firenze, le stazioni occupate a Napoli, Roma, le università e le scuole chiuse. Il 2 e il 3 ottobre altrettante manifestazioni e blocchi in tutto il paese hanno mostrato che le proteste non cessavano, ma anzi si rafforzavano reciprocamente di giorno in giorno. E l’autunno è appena iniziato.

Quello che è stato possibile nell’ultimo mese è dunque il risultato di un lavoro grigio, noioso, sotterraneo, che poche migliaia di militanti in diverse organizzazioni radicali nel nostro paese, portano avanti da anni. Protagoniste di queste settimane sono organizzazioni piccole, senza soldi, con una quantità incredibile di limiti e problemi, per anni o decenni trascurate e ignorate dai media nazionali perché “ininfluenti”: strutture politiche e sindacali, associazioni, collettivi studenteschi, comitati e movimenti sociali che lavorano incessantemente anche nella più piccola provincia italiana. Queste organizzazioni oggi stanno letteralmente dirigendo le piazze. Il primo sindacato italiano, la CGIL, che da troppi anni dell’organizzazione sembrava conservare solo gli elefantiaci apparati, si è dovuta mettere in scia, sotto la pressione di tanti soggetti che sperano che questa sollevazione ritorni, nel più breve tempo possibile, “compatibile”. Tutti proveranno a “prendersi” queste piazze per riportarle in un recinto tranquillizzante, ma la partita è aperta. E qui veniamo ai nostri compiti.

Il primo, immediato, è semplice a dirsi: non fermarsi. La bella giornata di sabato non può certo farci dimenticare che in Palestina è ancora in corso un genocidio.
Ma anche – questione che ci consente ancora di evidenziare le contraddizioni dei nostri Governi e di costringerli a modificare i loro piani e i loro rapporti con lo stato sionista – che ci sono attiviste e attivisti della Global Sumud Flottilla che sono ancora illegittimamente nelle prigioni israeliane sotto minaccia di detenzioni lunghe e probabilmente oggetto di torture e vessazioni. Noi dobbiamo continuare bloccare tutto per esigere la loro liberazione. La pressione esercitata in queste settimane è servita tantissimo: lo stato sionista si è trovato in estrema difficoltà, e con esso il nostro servilissimo Governo, che ha messo su il disco rotto della sinistra dei centri sociali, dei weekend, delle barchette di gitanti perché non sa, letteralmente, che cosa fare e dire. Da questo punto di vista, la mancata precettazione di fronte allo sciopero senza preavviso è un segnale di estrema debolezza, o quantomeno di realistica consapevolezza della forza della controparte, cioé noi. Come lo è il tentativo di cancellare il milione di persone scese in piazza ieri: Meloni può anche continuare a parlare della “festa dei nonni” o delle sue preghiere a San Francesco d’Assisi, ma sa che in questi giorni è successo qualcosa di storico con il quale dovrà fare i conti per i prossimi mesi e anni. Che c’è stato un risveglio, una presa di coscienza del fatto che è possibile scioperare e lottare, che vale la pena anche rischiare e pagare (in senso metaforico e non solo) di tasca propria per difendere diritti e ideali.

Per non fermarci dobbiamo capire come continuare, al di là dei momenti collettivi, nel quotidiano. I portuali l’hanno capito, chi lavora nella logistica pure, così come, con le dovute differenze, chi sta nella ricerca o nell’istruzione accademica. E gli altri? Più che cercare indicazioni specifiche per settore, occorre innanzitutto che tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori smettano di chinare la testa e obbedire. La forza dei nostri nemici è il nostro silenzio e la nostra obbedienza. Quando ci solleviamo, loro si spaventano e noi ci rendiamo conto della nostra forza. Dobbiamo portare la resistenza in ogni luogo di lavoro, rifiutandoci di sostenere la catena internazionale dello sterminio con ogni mezzo possibile e necessario. Mai più silenzio, mai più rinuncia, occorre riprendersi il terreno metro dopo metro e rendere questo paese ingovernabile, inceppare la macchina operativa e ideologica del genocidio.

Abbiamo già visto momenti di esplosione delle lotte a cui è seguito il riflusso e la repressione. Riflusso e repressione si arginano in un solo modo: costruire e rafforzare le organizzazioni politiche e sindacali radicali. Non c’è spontaneismo e non ci sono eccedenze: si tratta di lavorare per raccogliere quanto più possibile, riempire i nostri “granai” per aprire nuovi fronti, per portare l’attacco al governo più a destra della storia della Repubblica. Dobbiamo dichiarare e perseguire l’obiettivo della caduta del governo Meloni, vero e proprio perno dell’internazionale “sovranista” reazionaria di estrema destra. Dobbiamo smascherare le ipocrisie delle opposizioni, Partito Democratico in primis, responsabili non solo dell’affermazione di questo Governo autoritario ma, ormai da molti decenni, delle politiche antipopolari che hanno portato a un peggioramento delle nostre vite, a processi di impoverimento e precarizzazione e a una sempre maggior contrazione degli spazi di democrazia sul posto di lavoro e nella società.

L’Italia, per mille motivi, è stata ed è tuttora un laboratorio politico, con incredibili capacità di anticipare tendenze europee ed occidentali. Dopo la manifestazione di sabato tutti i paesi d’Europa – e non solo – ci guardano. Negli ultimi tre decenni almeno abbiamo anticipato solo tendenze negative e reazionarie, come delle orribili Cassandre. Forse è arrivata l’occasione per anticipare una risposta, di divenire avanguardia non del sentimento di sconfitta e della passività ma della lotta e della possibilità di cambiare.

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