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[Bergamo] Lettera di un lavoratore di un supermercato ai tempi della pandemia

Mi chiamo A.. Sono un lavoratore bergamasco, da anni dipendente di un’azienda della GDO e con un passato in altre aziende della Grande Distribuzione. In queste settimane di emergenza sanitaria sono esplose tensioni nel settore, rimaste sopite per troppo tempo. La “normalità” imposta da Confindustria per mantenere operativa la produzione e la distribuzione ha dimostrato che per le “associazioni datoriali” la vita stessa dei lavoratori vale poco o meno di zero.

L’importante è fatturare: se i lavoratori si ammalano – o peggio – poco importa, il ricatto della precarietà e della disoccupazione continuerà a far arrivare nuovi dipendenti sui posti di lavoro. Si è però creato un cortocircuito e dal momento in cui il lavoratore è stato messo di fronte a un rischio, nudo e crudo, quello della sua stessa vita e delle persone a lui più care, ha scelto spesso un’altra strada: quella dello sciopero e, dove non sono presenti sindacati combattivi o è scarsa la coscienza collettiva o ci sono impedimenti di altro tipo, quella della malattia, chi per sintomi evidenti, chi per altri sintomi più o meno riconducibili al coronavirus e chi per semplice e lecita precauzione.

Nel bel mezzo della tragedia che stiamo attraversando, a Bergamo più di ogni altra provincia, vedere gli operai che si organizzano e impongono i propri bisogni, in primis quello di vivere, mi ha reso fiero e felice. Se gli operai e le operaie si fermano, si ferma un Paese. Dopo averci raccontato per decenni che l’operaio non esiste più, dopo aver frammentato e precarizzato il lavoro, dopo tutte le favole sul mercato che si autoregola e sul genio imprenditoriale è un bel calcio nel culo alla nostra classe dirigente scoprire con una doccia fredda che tutto si regge sulle spalle di chi ogni giorno lavora, dall’infermiere all’operaio in catena fino al netturbino. Senza operai, Confindustria non esisterebbe ma gli operai continuerebbero ad esistere senza Confindustria, più liberi, più sani, meno vessati.

 

Come lavoratore della Grande Distribuzione, che ha trascorso alcuni anni anche nelle catene di montaggio e nelle piccole-medie imprese del manifatturiero orobico, sono ben consapevole che il mondo dei supermercati è un mondo che non riceve le attenzioni che merita. Un mondo in cui vigono lo sfruttamento e una costante vessazione (psicologica e fisica), un mondo de-sindacalizzato, un mondo nascosto dietro le tessere fidelity, dietro le insegne colorate e i comunicati romanzati delle aziende che raccontano favole di “grandi famiglie”, “grandi team” e altre storielle da avanspettacolo in formato Domenica In.

 

IL MIO SUPERMERCATO

L’azienda per cui lavoro, nell’epicentro della crisi sanitaria, se ne è altamente fregata di ridurre orari e giorni lavorativi e sta pensando di farlo solo ora con le nuove misure precauzionali ipotizzate dalla Regione. Con vari reparti ormai dimezzati a causa delle malattie, prosegue tutto a pieno regime per garantire quello che è stato chiamato in alcuni comunicati deliranti un “servizio sociale”. Garantire generi primari in una situazione emergenziale non coincide col mantenere orari di apertura assurdi e insostenibili per chi continua a lavorare. Limitare gli orari e dilazionare gli accessi ai punti vendita, limitare gli spostamenti verso i punti vendita stessi (di qualsiasi catena) più vicini a casa permette di diminuire gli spostamenti generali e di contenere i contagi. So che molti saranno shockati a leggere queste righe, perché in un mondo distorto una banana della Lidl è diversa dalla banana Conad, ma sarebbe il caso di rivedere le proprie priorità in una fase emergenziale, e anche di capire che non siamo sotto embargo, la merce c’è ed è ampiamente disponibile, nessuno morirà di fame. Limitare i contagi a cui possiamo essere sottoposti, “noi” lavoratori e “voi” clienti, oggi, a Bergamo, con gli ospedali saturi, è di importanza vitale.

 

LA VITA DI UN LAVORATORE NEL SUPERMERCATO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Riguardo agli ingressi razionati è un continuo subire pressioni “dall’alto” per far entrare quanta più gente possibile e non perdere fatturato. Sono i lavoratori e (dove presenti) le rappresentanze sindacali (RSU o RSA o RLS) a doversi scontrare con la direzione, che costantemente prova a far entrare gente senza che si smaltiscano gli assembramenti nelle corsie. Questo aspetto è altamente esemplificativo dello scarso interesse verso la salute non solo dei lavoratori, ma della popolazione bergamasca tutta: nemmeno di fronte a un’emergenza sanitaria come quella che sta vivendo Bergamo riescono a contenersi.

Ancora oggi la produttività dei reparti è conteggiata come se fossimo in una situazione normale: quel complesso di fattori che prevede ore lavorate, fatturato, numero di dipendenti, merce stoccata e via dicendo resta prioritario per l’azienda. Il tutto si ripercuote sullo stress psicofisico dei lavoratori, che devono garantire i parametri per risultare produttivi. Questo mito della produttività è corrisposto in tutti questi anni a tagli del personale, un aumento esponenziale del carico di lavoro sul singolo dipendente, nessun aumento salariale, nessun premio. È un parametro che andrebbe abolito, mentre i salari (pietosi) andrebbero immediatamente aumentati per garantire una vita degna.

Le mascherine non sono disponibili e quelle che abbiamo le indossiamo ormai da due settimane; sono quindi fondamentalmente inutili.

I lavoratori in appalto (sicurezza, pulizie) sono trattati anche peggio, come bestie da soma, con un duplice ricatto a pesargli sulle spalle.

Di fronte a questo scenario, con un’emergenza che non sappiamo quando potrà esaurirsi, ho parlato con altri colleghi, del mio supermercato ma anche di altri e, insieme, abbiamo pensato a delle richieste che riteniamo necessarie per tutelare la salute nostra, dei nostri cari e anche dei clienti.

 

COSA VORREMMO?

Chiediamo un decreto che limiti orari e giorni di apertura e un divieto a spostarsi per fare la spesa oltre a un chilometraggio circoscritto alla propria residenza, consequenziale a una mappatura dei punti vendita presenti sul territorio.

 

Chiediamo:

  • Un razionamento degli ingressi nei punti vendita preciso e costante.
  • Salario pieno per tutti i lavoratori in quarantena a causa del coronavirus.
  • La riduzione della settimana lavorativa a 35 ore a parità di salario.
  • Che le aziende aperte (tutte, di qualsiasi settore) siano sottoposte a controlli, in particolare riguardo alla disponibilità dei Dispositivi di Protezione Individuale e al loro ricambio.
  • La chiusura di tutte le attività non essenziali, con salario di quarantena corrisposto ai lavoratori e alle lavoratrici e un adeguato funzionamento delle attività essenziali, per venire incontro a tutte le esigenze necessarie, ma nel rispetto dei diritti e della salute dei dipendenti.
  • Di porre l’attenzione sulle categorie più deboli: disoccupati, badanti (escluse dal decreto Cura Italia), finte partite IVA, precari sotto ricatto dai contratti a termine, persone sotto sfratto, senzatetto.
  • Che di fronte alle mobilitazioni dei lavoratori e delle lavoratrici e all’emergenza sanitaria Stato e Regioni si facciano carico del proprio ruolo e non eseguano gli ordini di Confindustria, di FederDistribuzione o di qualsiasi associazione padronale.
  • Che i sindacati confederali la finiscano di sottoscrivere accordi al ribasso e inizino seriamente a difendere e mobilitare i lavoratori.

 

Firmato,

Un operaio

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