Il 30 giugno, in un clima di grande incertezza politica e di pesante scontro istituzionale, in Albania si sono tenute controverse elezioni municipali. Più che sbrogliare la matassa, non hanno fatto altro che avvilupparla ulteriormente. La scarsa partecipazione elettorale, l’incapacità dell’opposizione di centro-destra al premier “socialista” Edi Rama di approfittare delle mobilitazioni sociali degli scorsi mesi, ci parlano di una crisi che prosegue. Allo stesso tempo, per la prima volta da decenni, pare si stiano affacciando sulla scena nuovi movimenti sociali, imperniati soprattutto sugli studenti e sulle studentesse, ma che comincia a trascinare anche nuovi settori della classe lavoratrice, frutto di trent’anni di ristrutturazione sistemica: dai lavoratori dei call-centre, il cui unico requisito per l’assunzione è la conoscenza dell’italiano, a quelli dell’industria tessile, passando per i minatori delle miniere di cromo del Nord del paese.
Crisi e speranza, come scrive Arlind Qori, attivista della giovane organizzazione “Organizata Politike” (letteralmente “Organizzazione Politica” – qui la pagina fbhttps://www.facebook.com/orgpol/), attiva soprattutto tra i giovani studenti e lavoratori, principalmente nella capitale Tirana.
Crisi è speranza. In un quadro politico, economico, sociale e culturale imperniato sui dettami del neoliberismo e bloccato dalla falsa contrapposizione tra centro-destra (Partito Democratico) e centro-sinistra (Partito Socialista), la crisi può infatti essere lo “spazio” per la crescita di movimenti sociali e politici che possono puntare a destabilizzare il sistema, mettendo in discussione le sue stesse fondamenta.
Il tutto a pochi kilometri dalle sponde italiane. Una storia che ci tocca da vicino.
Per approfondimenti sulla situazione in Albania e su Organizata Politike (in inglese):
Articolo di Arlind Qori – Organizata Politike
Quando nel dicembre 2018 decine di migliaia di studenti hanno protestato contro le politiche predatorie nell’istruzione superiore e per mettere in discussione le premesse ideologiche neoliberiste su cui riposavano, i principali partiti politici albanesi sono rimasti in silenzio per qualche settimana. C’era stata un’improvvisa esplosione di aspettative secondo cui gli studenti avrebbero potuto portare a un sollevamento generale e pacifico contro un sistema politico corrotto che, con i suoi stretti legami con l’oligarchia economica, stava impoverendo da decenni la gente comune e approfondendo sempre più le diseguaglianze economiche e sociali.
Ciononostante, dal febbraio 2019 i principali partiti politici sono risorti. Hanno iniziato ad accentuare le loro contraddizioni inter-sistemiche così che la contraddizione principale, che contrapponeva tutti loro alla gente comune, è stata messa ai margini. Tutto è iniziato quando i parlamentari del Partito Democratico (PD), partito di centro-destra, e i loro alleati, si sono ritirati permanentemente dai posti in Parlamento. Hanno radicalizzato la loro retorica, dipinto sé stessi come un partito contro l’establishment, pronto per condurre la lotta contro un governo corrotto e fortemente legato al crimine organizzato. Il cosiddetto Partito Socialista (PS), centro-sinistra, e il suo Primo Ministro Edi Rama, ormai da anni sono l’avanguardia politica delle politiche economiche neoliberiste più predatorie che abbiamo conosciuto – muovendosi da una riforma in salsa pinochettista dell’istruzione superiore all’impegno nella costituzione delle PPP, Partnership Pubblico-Privato, in cui la corruzione la fa da padrona. Va evidenziato che l’opposizione non si oppone alle politiche di Edi Rama in quanto in sé stesse imperniate sulla corruzione, ma solo perché portate avanti attraverso meccanismi corruttivi. Per qualche mese i partiti d’opposizione hanno organizzato proteste – in alcune delle quali ci sono stati scontri violenti con la polizia. Malgrado ciò, fuori dal raggio delle fedeltà partitiche, la maggior parte della società non è stata toccata né dagli appelli dei partiti d’opposizione a unirsi alle loro proteste, né da quelli di Edi Rama affinché sostenessero il governo.
Dopo una serie di proteste, il Partito Democratico e i suoi alleati hanno deciso di boicottare le elezioni municipali del 30 giugno, a meno che Edi Rama non si fosse dimesso dalla carica di Primo Ministro. Univano a ciò la promessa di mettere in campo qualsiasi strumento – finanche l’incitazione a una rivolta generale – contro la possibilità che tali elezioni si tenessero comunque. A giugno, il Presidente della Repubblica – l’ex presidente del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI), l’alleato di minoranza del PD, decideva di posticipare le elezioni municipali, trasformando in tal modo una crisi politica anche in una crisi istituzionale. In assenza della Corte Costituzionale – che è investita da un processo di riorganizzazione frutto di una dubbia riforma giudiziaria – non c’era alcuna istituzione costituzionale che avrebbe potuto decidere chi tra Presidente della Repubblica e Governo avesse dalla sua la forza della legge.
Il Governo sostiene che il Presidente abbia violato la Costituzione e ha pertanto avviato la procedura per la sua rimozione. D’altro canto, i sostenitori dei partiti d’opposizione nelle varie città e paesi hanno usato il decreto presidenziale per legittimare il blocco di quelle che consideravano elezioni illegali. Si sono verificati scontri tra polizia e sostenitori dell’opposizione in alcune delle località dove quest’ultima è più forte. Ma mentre tutti si aspettavano che il 30 giugno potesse diventare il giorno della resa dei conti – quando gli scontri politici sarebbero potuti sfociare in una sorta di caos sociale – non è avvenuto nulla. Tutti pensano che le ambasciate straniere – in particolare quella statunitense – abbiano esercitato forti pressioni, se non minacce, sulla leadership del PD per evitare l’irrompere di violenti scontri in occasione della giornata elettorale.
Nella maggioranza delle città, le elezioni si sono tenute con un unico candidato, quello del PS di Edi Rama. Laddove si è invece presentato qualche rivale, si potrebbe asserire che si sia trattato di burattini di un partito d’opposizione minore. Il governo e la Commissione Elettorale – strettamente controllata dal Governo stesso – hanno dichiarato che quasi il 22% dei votanti registrati hanno partecipato alla tornata elettorale. La percentuale reale dovrebbe essere un po’ più alta, considerato che quasi 1/3 dei votanti registrati è formato da emigranti in paesi occidentali, che non godono del diritto di voto dai paesi di residenza.
In ogni caso, queste elezioni hanno reso palese la forte insoddisfazione nei confronti del governo, mentre al contempo l’opposizione non ha guadagnato politicamente da tale situazione. Escluse alcune centinaia di migliaia di persone che ancora si identificano nei principali partiti politici, la stragrande maggioranza della popolazione si sente distante da loro. Molti sono semplicemente politicamente alienati, il che conduce a una certa apatia politica che porta verso la disperazione.
Dall’altro lato, stanno crescendo con sempre maggior forza voci che invocano nuove forze e movimenti politici. Ci sono segnali di organizzazione dei lavoratori. Negli ultimi mesi sono stati fondati quattro nuovi sindacati – fatto eccezionale in un paese quasi senza vero sindacalismo. Soprattutto gli studenti – molti dei quali sono costretti a lavorare in condizioni degradanti dal primo anno dei loro studi – si stanno radicalizzando. Non mettono in discussione il solo sistema politico al comando, ma le stesse fondamenta della formazione sociale neoliberista. C’è speranza che nel futuro prossimo un ampio movimento sociale di studenti, lavoratori e lavoratrici dei call-centre e delle fabbriche tessili e altre classi popolari possa emergere e minacciare seriamente lo status quo.