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[AFRICA] E niente ci fermerà

La narrazione e l’azione del colosso energetico italiano in Africa

In preparazione del Convegno «Mediterraneo, frontiera di pace» promosso dalla Conferenza episcopale italiana che si terrà a Bari dal 19 al 23 febbraio prossimo, ha preso la parola uno dei suoi organizzatori: Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, l’Ente Nazionale Idrocarburi.
Nell’intervista, rilasciata a Giangiacomo Gambassi, Descalzi ha avuto modo di esprimere chiaramente il suo pensiero su immigrazione, sviluppo, relazione tra nord e sud del mondo, con un focus particolare sull’Africa e sul ruolo dell’Eni in questo continente. L’intervista si è potuta sviluppare tranquillamente senza quelle «seconde domande» scomode che spesso mettono in imbarazzo o fanno perdere il filo al politico e al grande manager di turno. Il giornalista ha fatto la domanda, annotato la risposta ed è passato subito a quella successiva.
L’amministratore delegato, citando La Pira e passando per Enrico Mattei, ha quindi potuto spiegare che l’Eni in ambito industriale si iscrive in una linea che promuove «i rapporti economici e politici equi e paritari tra i popoli, nessuna dinamica di sfruttamento o sudditanza», che adotta «un approccio inclusivo e di sostegno allo sviluppo locale nei confronti dei Paesi che la ospitano».
Descalzi critica un modello di sviluppo nel quale l’Africa rappresenta il 17% della popolazione mondiale – tanto quanto tutti i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – ma solo il 5% del Pil mondiale, contro il 44% dei Paesi OCSE. Ma l’amministratore delegato dell’Eni critica il sistema e spiega: «Se io vengo a casa tua a valorizzare delle risorse, siano queste energetiche o di altra natura, non mi devo mai dimenticare che le risorse sono tue, non mie, e che quello che ti offro deve andare innanzitutto a tuo favore, prima che mio». Descalzi quindi aggiunge: «Alle realtà che ci accolgono offriamo accesso all’energia e supporto allo sviluppo socio-economico, oltre che ad aiutarle a valorizzare le risorse energetiche», adottando «un modello che non guarda solo al breve termine, ma è volto a creare valore di lungo termine».

Bene. Ma prima di dargli la tessera onoraria di Potere al Popolo, facciamo un passo indietro e vediamo chi è Descalzi, cosa fa l’Eni in Africa, perché l’azienda si trova proprio in questo continente e  quale è la sua relazione con le comunità locali. Lo faremo dire all’Eni stessa, alla magistratura e ad organizzazioni e associazioni che si occupano di diritti, sviluppo locale e tutela dell’ambiente.

 

I protagonisti

Claudio Descalzi, 65 anni, laureato in fisica, milanese, è amministratore delegato dell’Eni dal maggio 2014. Ha fatto tutta la carriera nella multinazionale dell’Energia ed ha avuto, tra gli altri incarichi, quello di Direttore generale dell’Eni in Congo e vice presidente della filiale Naoc in Nigeria. Nel 2012, Claudio Descalzi è il primo europeo del settore petrolio e gas a ricevere il prestigioso premio internazionale SPE/AIME «Charles F. Rand Memorial Gold Medal 2012» assegnatogli dalla Society of Petroleum Engineers (SPE) e dall’American Institute of Mining Engineers (AIME). Nominato con l’approvazione di Renzi, l’amministratore delegato che critica aspramente questo sistema è anche componente del Consiglio generale e dell’advisory board di Confindustria e membro del National Petroleum Council.
Fondata nel 1953, l’Eni opera in 83 Paesi nel mondo con circa 84.000 lavoratori, di cui 33.000 in Africa. Qui è presente sin dagli anni 60 ed è attualmente il principale operatore petrolifero con quasi 1.000.000 di barili estratti al giorno direttamente e tre milioni insieme ai propri partner. L’Eni è operativa in progetti di esplorazione, produzione e commercializzazione di petrolio, gas ed elettricità in 16 paesi africani (Angola, Congo, Ghana, Gabon, Mozambico, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya, Liberia, Libia, Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto e Costa d’Avorio). Sulla rivista Jeune Afrique dell’ottobre del 2015, Descalzi spiegava in modo meno «umanista» la ragione essenziale della presenza del «cane a sei zampe» in Africa: «I costi di sfruttamento del continente, in particolare quelli dell’Africa occidentale, sono fra i più bassi del pianeta. Senza i progetti africani, l’Eni non avrebbe mai raggiunto un costo medio del barile di soli 8 dollari nel 2014 e di 7,70 nel 2015». E Descalzi ha ben chiaro che per i paesi del Nord del Mediterraneo «le importazioni nette di petrolio e gas rappresentano oltre il 60% del consumo energetico e, per il gas, circa il 95% della domanda (…) Nel 2018 il Sud Mediterraneo (Libia, Algeria ed Egitto) ha contribuito a soddisfare un quarto della domanda di gas del Nord Mediterraneo».
Quindi in Africa l’Eni è più presente e con una maggiore capacità estrattiva della francese Total e dell’americana Shell, tra l’altro anche grazie a recenti scoperte di giacimenti come quella di Zohr in Egitto, la più importante mai fatta nel Mediterraneo, corrispondente a 5,5 miliardi di barili di petrolio. Ma per rimanere così in alto la lotta è durissima, la posta in gioco enorme e i buoni propositi di social responsability and green economy sono solo parole utili per un’intervista o per un convegno della Cei sulla pace nel Mediterraneo. La realtà è un’altra e sta venendo alla luce grazie alle denunce della società civile e alle inchieste della magistratura.

 

Le inchieste della magistratura

Attualmente l’Eni e le sue controllate sono coinvolte in tre importanti inchieste giudiziarie che non trovano molto spazio sui giornali, ma che potrebbero buttare a gambe all’aria il colosso energetico di cui lo Stato italiano detiene il 30% delle azioni.
La prima inchiesta è quella algerina con la «finta» assoluzione del management Eni e la vera condanna di Saipem, società controllata dal gruppo italiano. Al centro del processo c’è la tangente di 197 milioni di dollari pagata, tra il 2008 e il 2011, per corrompere il Ministro dell’Energia ed altri burocrati algerini ed ottenere 8 contratti del valore di 11 miliardi di dollari. Ma a questa corruzione internazionale, operata dai vertici di Saipem, per il Tribunale di Milano furono estranei la controllante Eni e il suo allora amministratore delegato Paolo Scaroni. I PM, sottolineando che Saipem trasmetteva periodicamente a Eni tabelle con i propri costi di intermediazione, si stupiscono del fatto che Scaroni e gli organi di vigilanza dell’Eni non avessero rilevato il mare di soldi che Saipem dava a una sconosciuta società di Hong Kong. «Dovremmo forse credere» affermano i PM «che Saipem informava Eni e il suo amministratore delegato di consulenze di poche decine di migliaia di euro, e non delle prestazioni dell’intermediario Pearl Partners del valore iperbolico di 197 milioni?»
I giudici di Milano hanno detto che sì, bisogna crederci. Noi rimaniamo scettici. In Nigeria invece non ci sono controllate fuori controllo, ma è l’Eni stessa ad essere al centro della più grande inchiesta di corruzione internazionale che si ricordi nel continente africano.
La cifra questa volta è di oltre un miliardo di euro che sarebbe stato pagato da Eni e da Shell per accaparrarsi OPL245, il maxi giacimento offshore a largo delle coste nigeriane. Il giacimento, tra i più ricchi e redditizi del Paese, era stato acquistato nel 1998 da una società sconosciuta, la Malabu Oil&Gas, fondata poco tempo prima dell’accordo con il governo nigeriano, dall’ex Ministro del petrolio Dan Etete che era riuscito ad accaparrarsi il giacimento per una cifra assai inferiore all’effettivo valore miliardario.
Secondo gli inquirenti, Eni e Shell sapevano benissimo di non stare pagando lo Stato nigeriano, ma un soggetto terzo per ottenere illecitamente lo sfruttamento del giacimento. Nonostante l’Eni continui ad augurarsi che il processo consenta di «provare la totale estraneità della società a qualsiasi ipotesi corruttiva», sono già arrivate le prime condanne a due dei «mediatori»: Obi Emeka e Gianluca Di Nardo considerati «ab origine parti fondamentali del patto corruttivo».
Per il gup milanese Giusy Barbara, con la maxi-tangente e l’atteggiamento dell’Eni, la Nigeria sarebbe «stata depredata di uno dei suoi beni di maggior valore» ad opera «della principale società del nostro Paese, di cui lo stesso stato italiano è il maggior azionista». A latere di questa inchiesta in cui i vertici dell’Eni rischiano la prigione, la perdita delle concessioni petrolifere e multe di miliardi di dollari, si registrano in Nigeria il tentativo di assassinio del capo dell’autorità anticorruzione Ibrahim Magu e in Italia arresti di magistrati e avvocati accusati di aver inventato una falsa inchiesta penale, nel tentativo di bloccare le vere indagini sulla maxi tangente nigeriana.
L’ultimo grande scandalo che ha colpito l’Eni riguarda il Congo-Brazzaville. Qui l’Eni è impegnata da molti anni nella ricerca ed estrazione di petrolio e, sopratutto, gas. La maxi-riserva di gas al centro del caso si chiama Marine XI e vale circa due miliardi di euro. Nel 2013 una misteriosa società appena costituita, Wnr Congo, ha acquistato il 23% di quel giacimento per 15 milioni di dollari, anche se quella quota in realtà valeva già allora 430 milioni. Dietro questa società si nascondono tre italiani ed un inglese accomunati da un solo elemento: sono tutti collegati ai vertici dell’Eni. A cedere quel pezzo di giacimento alla Wnr Congo è stata la Aogc, un’azienda accusata da varie autorità di essere «una cassaforte del regime congolese»: una società-satellite usata da politici e burocrati per portare soldi all’estero e comprarsi ville e beni di lusso.
Gli scandali algerino, nigeriano e congolese sono l’ennesimo esempio di come le risorse naturali dell’Africa siano servite ad arricchire una piccola élite di affaristi locali, con la complicità di imprese occidentali, a scapito dei comuni cittadini e dello sviluppo del continente. Il pubblico ministero De Pasquale sottolinea che «la corruzione mina lo sviluppo di un paese» e che in Nigeria,  quel miliardo sottratto alle casse dello stato equivale al bilancio del ministero dell’istruzione per l’anno 2018.
Secondo gli analisti di Global Witness, Heda, Re:Common e The Corner House, le perdite sarebbero ancora più alte: fino a 5,8 miliardi di dollari, pari a due anni di spesa pubblica per istruzione e sanità. E questo perché l’accordo tra il governo e la joint venture dell’Eni e della Shell includeva anche alcune modifiche alle condizioni fiscali che regolano la produzione petrolifera, riducendo le entrate del governo per la durata del contratto. Nell’accordo, il paese africano incasserebbe solo il 41% del reddito generato dal petrolio estratto, mentre secondo le linee guida raccomandate dal Fondo monetario internazionale i paesi produttori dovrebbero ricevere tra il 65 e l’85%.
Se questa è la modalità che si nasconde dietro l’ideologia dell’«aiutiamoli a casa loro» per ottenere commesse e contratti in Africa, anche la realizzazione dell’investimento industriale non può che avere lo stesso rispetto nei confronti di popolazione e territorio.

 

Le denunce della società civile
«Se si guarda all’attività dell’azienda da una prospettiva di giustizia ambientale, sociale e di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali, il bilancio delle attività dell’Eni in Africa non si può dire affatto positivo». Elena Gerebizza, ricercatrice della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, da anni analizza le strategie del «cane a sei zampe» e ne verifica sul terreno le conseguenze:
«L’impatto ambientale dell’estrazione è fortissimo. In Paesi come la Nigeria, nel quale l’azienda opera dagli anni Settanta, si è arrivati a un degrado assoluto. Le comunità che in passato vivevano in situazioni di sussistenza, ma in un ambiente sano, oggi non possono più coltivare la terra né bere l’acqua delle sorgenti perché terreno, acqua e atmosfera sono inquinati. Secondo le valutazioni di Environmental rights action, un’organizzazione locale nigeriana, gli impianti dell’Eni non solo sono quelli che hanno maggiori perdite, ma sono quelli in cui le perdite vengono riparate con maggiore ritardo».
Ad inizio 2018, per la prima volta una comunità locale nigeriana, quella degli Ikebiri, è riuscita a portare a processo l’Eni e la sua controllata nigeriana Naoc presso il Tribunale di Milano, per un enorme sversamento di petrolio a circa 250 metri da un fiume utilizzato dalla comunità. In Nigeria, episodi di questo tipo sono molto frequenti e purtroppo per le comunità è molto difficile avere giustizia a causa della  lunghezza, del costo e delle «interferenze» nei processi. Inoltre, anche se si riescono ad ottenere sentenze favorevoli, difficilmente queste vengono implementate.
L’Eni minimizza i danni, afferma che interviene a bonificare le zone e getta la maggiore responsabilità sulla stessa popolazione locale che si appropria indebitamente del petrolio (bunkering), rompendo i tubi e alimentando il commercio illegale. In effetti il bunkering è molto praticato in Nigeria, ma un’indagine di Amnesty international ha dimostrato che nel caso  dell’Eni riguarda solo una minima parte degli sversamenti. Questa argomentazione viene dunque usata semplicemente per sottrarsi alle propria responsabilità accusando parti terze degli incidenti e delle fuoriuscite di petrolio.
E non è solo l’acqua o la terra a venire inquinata, ma anche l’aria con il fenomeno del cosiddetto gas flaring, cioè l’emissione di gas che fuoriescono con l’estrazione del petrolio. In America, Asia ed Europa questi gas vengono recuperati e utilizzati per produrre energia elettrica. In Africa invece vengono bruciati nell’atmosfera rilasciando sostanze fortemente inquinanti. In Nigeria esiste una legislazione che proibisce l’emissione di gas flaring, eppure l’Eni e altre compagnie continuano a bruciarlo nell’atmosfera.
Ma è possibile danneggiare le comunità locali anche prima di cominciare un’attività estrattiva, come ha denunciato quest’anno all’Assemblea generale dell’Eni l’Ong Justicia Ambiental, presentando l’intervento dell’Ente italiano in Mozambico. I progetti estrattivi hanno già permesso di prendere la terra a migliaia di comunità locali e le hanno rimosse con forza dalle loro case. Sono stati portati via i terreni agricoli, fornendo in compensazione terreni lontani dalle case dei contadini e, in molti casi, non arabili. Le comunità di pescatori che vivono a meno di 100 metri dal mare vengono ora spostate a 10 km nell’entroterra.
Nel frattempo, l’80% dei mozambicani non ha accesso all’elettricità e i progetti dell’Eni sul Gas Liquido Naturale non aiuteranno il Mozambico e i suoi cittadini a beneficiare delle proprie risorse. Il GNL, infatti, sarà processato ed esportato all’estero.

Insomma: Eni. Energy for the people. Se non muoiono prima.

 

Fonti:

«Congratulations to the 2012 International Award Winners» [archive], sur spe.org, 25 juillet 2015 (consulté le 25 juillet 2015).

Verso Bari 2020. Descalzi (Eni): la sfida nel Mediterraneo? Lo sviluppo dei popoli Giacomo Gambassi, 5 gennaio 2020.

Saipem Algeria, giudici: «Tangenti concordate al 3%». «Manca la prova della corruzione per Eni e Scaroni», Il fatto quotidiano, 18 dicembre 2018.

Eni, nuovo scandalo africano: ecco chi sono gli italiani che controllano il giacimento in Congo, Paolo Biondani e Stefano Vergine, 6 aprile 2018.

L’industria della corruzione che gira intorno al petrolio, Marina Forti, 7 gennaio 2019.

«Pétrole et gaz : ENI assume son rang en Afrique», Christophe Le Bec, Jeune Afrique, 02 novembre 2015.
Eni a processo per disastro ambientale in Africa, Osservatorio, Ivan Manzo, 25 gennaio 2018.

Nigeria, i dati Amnesty contro Eni e Shell su inquinamento del Delta del Niger, Sandro Pintus, 24 marzo 2018.

Assemblea generale Eni, giugno 2019, Justicia Anbiental/Friends of the heart Mozambico.

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