La Fondazione Di Vittorio, legata alla CGIL, ha pubblicato qualche giorno fa un rapporto sulle disuguaglianze, presentato in conferenza stampa dal segretario CGIL Maurizio Landini.
Il rapporto riprende dati già noti e pubblicati dall’OCSE, ma in forma più “accattivante” e drammatica: negli ultimi trent’anni circa, mentre i salari di Francia e Germania sono aumentati di circa il 30% e quelli spagnoli dell’8%, i salari italiani – parliamo di quelli reali, parametrati al potere d’acquisto – sono diminuiti di oltre il 3%.
In breve: chi lavora oggi in Italia guadagna meno di quanto si guadagnasse, con lo stesso lavoro, nel 1991.
La data non è casuale. A inizio anni ‘90 accadono tante cose nel nostro Paese, due sono quelle che principalmente ci interessano: la privatizzazione del pubblico impiego, con l’introduzione dei CCNL di settore, e l’inizio della stagione della cosiddetta concertazione. Si trattava dell’idea di poter strappare miglioramenti salariali e complessivi concordandoli con la controparte datoriale. Idea figlia in particolare della percezione, da parte dei tre principali sindacati – CGIL, CISL e UIL – di essere una potenza consolidata e inamovibile: in effetti avevano milioni di tessere, gestivano fondi consistenti, avevano una enorme capacità mobilitativa, forse tra i più grandi sindacati europei. Mettevano sul piatto della bilancia questo – e l’idea, tutta neoliberale, che il conflitto fosse superato – per scambiare con la controparte favori reciproci: meno conflitto in cambio del riconoscimento della controparte sindacale come potere con cui cogestire il mondo del lavoro. A partire dalla garanzia di istituti di rappresentanza sindacale (per le RSU il sindacalismo confederale si garantiva un terzo dei posti in virtù della nomina diretta da parte delle organizzazioni firmatarie del CCNL) e dell’incentivazione a enti bilaterali che hanno significato “posti” da occupare e soldi – tanti – da gestire.
In cambio di questa “cogestione” il sindacato metteva sul piatto né più che meno l’accettazione consapevole della diminuzione reale dei salari in nome di una fantomatica “responsabilità nazionale”: perché bisognava rientrare nei parametri di Maastricht (la “modernità”), perché per uscire dalla crisi di inizio anni ‘90 si usciva solo creando condizioni più profittevoli per le imprese…
Lo scambio aveva un carattere neo-corporativo e ricalcava nella sostanza l’essenza del corporativismo di matrice fascista: l’interesse dei lavoratori era sacrificato sull’altare di un preteso interesse nazionale (quando ci si parla di “interesse nazionale” la fregatura è sempre dietro l’angolo) che coincideva, guarda un po’, con quello delle imprese. A chi grida al fascismo un giorno sì e l’altro pure è strano che sfugga proprio uno dei principali aspetti di fondo…
La scelta della concertazione fu, semplicemente, catastrofica.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: non solo la rinuncia progressiva al conflitto ha congelato e ridotto i salari, ma ha anche consentito alla controparte – affamata dalle prime vittorie degli anni ‘80, come il fallito referendum per il ripristino dell’indicizzazione automatica dei salari all’inflazione (cd. Scala mobile) – di tagliare ulteriormente le gambe a una possibile ripresa del conflitto, agendo per mano istituzionale con la famigerata legge 146/90 che costituisce il più formidabile attacco al diritto di sciopero della storia della Repubblica.
Di fatto i tre principali sindacati italiani si sono ritrovati non solo inadatti a difendere e migliorare le condizioni salariali, ma anche indeboliti nel loro potere, fino ad essere bastonati come accadde alla FIOM negli anni Zero del nuovo secolo. Di fronte a questo attacco, reso ancora più feroce dalla crisi del 2008-2010 e da riconfigurazioni globali del capitale che hanno penalizzato, nella competizione internazionale, quello tricolore, c’è chi ha definitivamente capitolato, rinunciando per principio allo sciopero come strumento di avanzamento (la CISL) e chi ha oscillato, in maniera sempre più confusa, tra le spinte, principalmente dal basso, alla ripresa del conflitto sociale e le sirene dell’antica concertazione, che altro non era diventato che un assurdo compromesso partendo da posizioni di debolezza.
Contemporaneamente, chi non aveva accettato questa trasformazione genetica si era organizzato con la ricostruzione, già dagli anni ‘80, di sindacati autonomi, di base, conflittuali, che si sono resi protagonisti di importanti momenti di lotta, pensiamo in particolare agli anni della crisi, ma che non sono riusciti ancora a superare, nonostante l’abnegazione, il sacrificio, le capacità organizzative e di visione, una certa soglia dimensionale, complici anche i continui attacchi ricevuti proprio dalla cosiddetta triplice sindacale per impedire loro di crescere, imponendo leggi e accordi capestro sulla rappresentanza che di fatto raddoppiano il lavoro del sindacalismo di base, che deve contemporaneamente resistere e crescere.
Oggi ci troviamo alla vigilia di uno sciopero generale indetto dalla maggior parte delle sigle del sindacalismo di base prima, e poi da CGIL e UIL, per il 29 Novembre, e di un altro sciopero, indetto da USB, il 13 Dicembre.
POTERE AL POPOLO SI AUGURA CHE DALLE PIAZZE DEL 29 E DEL 13 ARRIVI UN SONORO SCHIAFFO AL GOVERNO. SOSTIENE, IN PARTICOLARE, LO SFORZO DEL SINDACALISMO DI BASE SIA PER IL 29 CHE PER LA DATA DEL 13, PER LA DOPPIA SFIDA DEL CONTRASTO ALLE POLITICHE GOVERNATIVE E DEL RAFFORZAMENTO DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE.
Siamo di fronte, infatti, oggi, a due esigenze:
- la prima, immediata, è quella di fermare il Governo più a destra della storia della Repubblica, e la cosa può essere realizzata solamente con la ripresa di un vero conflitto sociale, da troppo tempo assente nel nostro paese, in una determinata fase sussunto, poi rigettato, da forme varie di populismo: a questo scopo, ogni sciopero (costruito con l’obiettivo del successo) è utile
- la seconda, urgente e contemporaneamente di prospettiva, è quella di tornare ad avere organizzazioni sindacali forti che pratichino il conflitto e che lo riconoscano come strumento principale per la difesa dei diritti di lavoratrici e lavoratori e il miglioramento delle condizioni lavorative e salariali: a questo scopo, è fondamentale il rafforzamento del sindacalismo di base e conflittuale, per fortuna vivo e vivace nel nostro Paese.
Lasciamo ad altri le elucubrazioni sul presente e sul futuro della CGIL, se sia possibile o meno un suo tardivo ritorno al conflitto in pianta stabile, o su quale sia il miglior sindacato di base: ci pare evidente che, ad oggi, la CGIL non è il sindacato di cui le lavoratrici e i lavoratori hanno bisogno, e che d’altra parte nessuna sigla del sindacalismo di base è autosufficiente e bastevole a se stessa, ma il rafforzamento di ognuna è un passo avanti per riportare il mondo del lavoro a vincere.
In Italia c’è un bisogno disperato di conflitto sociale: nel periodo 2008-2018 i giorni di sciopero annui da noi sono stati mediamente 42, contro i 112 della Francia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, in barba a chi dice che gli scioperi sono inutili.
Il conflitto sindacale fa, inoltre, da volano al conflitto politico, mentre da noi è accaduto, troppe volte, il contrario, con i principali sindacati andare al traino delle (inesistenti) opposizioni parlamentari. Senza una vera ripresa delle lotte di lavoratrici e lavoratori, a partire dai bisogni materiali, dalla rivendicazione di salario etc, ricostruire un’opzione politica di alternativa diventa doppiamente difficile.
Per queste ragioni saremo dunque in piazza venerdì, sperando in un successo della convocazione, e parteciperemo e sosterremo attivamente la data del 13 Dicembre, fedeli ad un principio semplice della nostra organizzazione, che proviamo a seguire da quando siamo nati: dove c’è conflitto, dove ci sono le lotte di chi lavora, là c’è Potere al Popolo, là siamo a casa.