LO SCENARIO
In questi giorni, il sindaco Gaetano Manfredi e il presidente del Consiglio Mario Draghi firmeranno il “Patto per Napoli”. La nuova amministrazione, trainata dal Partito Democratico è completamente allineata alle indicazioni del governo centrale. Quindi, il futuro della città è tracciato da un patto che, combinato con il DDL Concorrenza, non fa altro che ripetere le politiche di austerità degli ultimi anni.
Si tratta di una soluzione che apre la strada all’ingresso dei privati nella gestione dei servizi pubblici e costringe le amministrazioni a sottostare a rigidi parametri economici, anche in settori come la spesa sociale. In questo documento, conti alla mano, spieghiamo perché più che un “patto”, la città sta per ricevere un “pacco”. No, con “pacco” non si intende un regalo, ma piuttosto nell’accezione napoletana: una truffa.
Prima di descrivere nello specifico il “Patto per Napoli”, è opportuno fare una breve premessa sulle difficili condizioni finanziarie del Comune di Napoli, in modo da offrire una griglia di lettura utile alla comprensione della posta in gioco, per spiegare meglio l’opposizione politica e sociale di Potere al Popolo a questo provvedimento nel suo complesso.
Il rendiconto per l’anno 2020 registra un debito complessivo pari a poco più di € 4.500.000,00. Il risultato negativo di amministrazione, che è il vero problema da risolvere, ammonta invece a poco meno di € 2.500.000,00.
La questione del debito del Comune partenopeo non è certamente un problema recente e non può essere imputata a una gestione particolarmente “espansiva” delle finanze locali, come dimostra la differenza positiva tra le entrate e le spese correnti al netto degli interessi, allo stesso modo la gestione in conto capitale, al netto dei prestiti, si chiude con un sostanziale pareggio.
Questo vuol dire che, sulla base dell’ultimo rendiconto disponibile, l’esistenza di un disavanzo non deriva da una prevalenza delle uscite sulle entrate, ma dal peso eccessivo degli interessi sul debito pregresso.
Tale debito deriva in buona parte dall’inserimento in bilancio, nel corso degli anni, di crediti che non sono stati mai riscossi. Questi “residui attivi” sono stati utilizzati per coprire il crescente debito comunale, vanificando, di volta in volta, la differenza positiva tra riscossioni e pagamenti.
IL “PATTO PER NAPOLI”
In questo difficile contesto si inserisce il cosiddetto “Patto per Napoli” che, con la scusa di risollevare le finanze comunali, vincola per un lungo periodo di tempo la politica cittadina. L’accordo ripropone lo stesso meccanismo a cui ci hanno abituato gli organismi sovranazionali come il FMI e l’Unione Europea ogni volta che c’era la necessità di sostenere un Paese in difficoltà finanziaria.
Questo meccanismo prevede l’erogazione di un contributo economico vincolato all’adozione di determinate misure, che secondo i classici parametri del pensiero neoliberista sono: austerità, privatizzazioni e deregolamentazioni. Da politiche del genere deriva sostanzialmente un aumento delle imposte per le classi popolari, una riduzione all’osso della spesa sociale, la svendita di tutti i servizi pubblici e la rimozione di qualsiasi ostacolo normativo, ambientale e perequativo, che possa interferire con gli investimenti e la libera circolazione del capitale.
Dopo queste necessarie premesse, entriamo nel merito di quello che è stato definito “Patto per Napoli”.
Il “Patto” trae la sua origine normativa nella legge di bilancio 2022. Il testo prevede, ai commi dal 567 al 580, l’erogazione di un contributo statale, a fondo perduto, di 2 miliardi e 670 milioni, da ripartire tra i capoluoghi di città metropolitane che abbiano maturato un disavanzo pro-capite superiore ai 700 €.
Le città interessate sono: Napoli, Palermo, Reggio Calabria e Torino. Il capoluogo campano è il più indebitato e dovrebbe ricevere la quota maggiore del contributo: una cifra complessiva di poco più di 1,2 miliardi, cioè il 45-50% del totale.
Per accedere al contributo, che sarà elargito nell’arco di 21 anni (fino al 2042!), ogni città deve sottoscrivere un accordo con il Presidente del Consiglio che preveda un piano di impegni sulla base di quanto previsto dalla norma.
L’accordo sarà soggetto al controllo semestrale della Commissione per la stabilità finanziaria e un’eventuale inadempienza comporterà la perdita del contributo, nonché la segnalazione alla Corte dei conti, la quale potrà applicare la procedura per il dissesto. Si tratta di un controllo particolarmente stringente, che si va a sommare a quanto previsto dal Piano di riequilibrio finanziario pluriennale, in cui il Comune è impegnato sin dal 2013.
A fronte di un impegno così gravoso in termini di obblighi da rispettare, le cifre messe a disposizione, se considerate nel dettaglio, non risolvono i problemi delle finanze comunali. Nell’intero periodo di erogazione, 21 anni, il Comune di Napoli riceverà in media un contributo annuo di circa 60 milioni. Tuttavia, l’importo non riesce neanche a coprire i soli interessi sul debito, che nell’ultimo rendiconto sono pari a circa 87 milioni.
LACRIME E SANGUE
Non si conoscono nel dettaglio tutte le misure che il Comune adotterà per aderire al Patto, ma la relazione presentata dall’Assessore al Bilancio Pier Paolo Barretta al Consiglio comunale del 21 gennaio mostra una serie di provvedimenti davvero deprimenti: alienazione del patrimonio immobiliare, possibile affidamento del servizio di riscossione a soggetti esterni, esternalizzazione dei servizi pubblici, “razionalizzazione” delle municipalizzate, incremento dell’addizionale IRPEF oltre i limiti massimali, riduzione delle spese comunali, contenimento della spesa per il personale e attacco alle occupazioni abusive di immobili comunali.
Emerge, quindi, una svolta profondamente regressiva, con un evidente attacco al ruolo attivo delle istituzioni locali, poichè nel complesso questi interventi avranno un impatto economico molto forte sul bilancio comunale.
Aumento delle imposte, alienazioni immobiliari e privatizzazioni sono misure figlie dell’egemonia delle teorie neoliberista e sono state riproposte più volte negli ultimi decenni, senza riuscire però a ridurre il debito e migliorare l’efficienza.
Queste riforme hanno, invece, minato le basi dello Stato sociale e aumentato le diseguaglianze economiche, come è già successo in Argentina nel 2001 e più recentemente in Grecia.
Lo stesso discorso può essere fatto per il comune di Napoli, dove le misure di austerità si sono rivelate fallimentari, se teniamo conto degli effetti dello stato di predissesto vigente dal 2012 e della conseguente procedura di riequilibrio finanziario.
Nell’analisi dei problemi finanziari del Comune di Napoli non possiamo dimenticare le conseguenze disastrose della riforma del titolo V della Costituzione. La modifica della disciplina dei rapporti Stato-Enti Locali ha portato a una progressiva riduzione dei finanziamenti dello Stato centrale e una sempre maggiore dipendenza dalle entrate locali, che sfavoriscono in maniera decisiva le realtà meno ricche. I governi che si sono succeduti non sono riusciti neanche a garantire il rispetto su tutto il territorio nazionale dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP).
L’ACQUA PUBBLICA È SOTTO ATTACCO
Tra i servizi pubblici locali, merita particolare attenzione il caso dei servizi idrici.
Con il referendum del 2011, 27 milioni di italiani si sono espressi a favore della gestione pubblica dell’acqua. Dopo appena un mese e mezzo da questo storico risultato, in una lettera al governo Berlusconi, l’allora Presidente della BCE, Mario Draghi, definiva “necessaria una complessiva, radicale e credibile strategie di riforme inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali… attraverso privatizzazioni su vasta scala”, al fine di salvare i mercati finanziari.
A poco più di dieci anni di distanza, Mario Draghi è il Presidente del Consiglio italiano e continua in questa direzione. Tuttavia, nemmeno i vari governi che lo hanno preceduto, hanno reso effettivo il risultato referendario.
Allo stesso tempo, nessuna amministrazione comunale ha provveduto a concretizzare la volontà popolare, neanche dove le giunte erano guidate dal Movimento 5 Stelle, che aveva fatto dell’acqua pubblica una delle sue principali battaglie. Infatti, una delle stelle del simbolo rappresentava proprio questa rivendicazione.
L’unica eccezione è stata Napoli, infatti, nel 1993, è la prima grande città italiana a ri-pubblicizzare il servizio idrico, con la costituzione dell’azienda speciale ABC e l’introduzione di una normativa che considera l’acqua un bene comune, sottratto alle logiche del mercato.
A questo scenario desolante, si aggiunge il disposto dell’art. 6 del DDL Concorrenza, che considera l’acqua e i servizi pubblici in generale, come una merce qualsiasi da sottomettere alle leggi del mercato e non come un patrimonio comune da tutelare, difendere e proteggere. Questo provvedimento è un vero e proprio attacco alla volontà democratica emersa dal voto del 2011.
Il disegno di legge, attualmente in discussione al Senato, privilegia la gestione privata, rispetto ad una gestione in autoproduzione (cd. gestione “in house”), semplificando le procedure nel primo caso e aggravandole nel secondo. Così gli enti locali sono costretti a motivare in modo dettagliato il motivo della scelta della gestione pubblica.
Di questo passo, diventa norma dare in gestione ai privati un servizio pubblico essenziale, salvo poi affidare all’ente locale la “rete”, cioè la parte per natura infruttuosa.
È un provvedimento che discrimina e svilisce gli enti pubblici di prossimità e il loro compito di garanzia dei diritti delle cittadine e dei cittadini. Tutto ciò contrasta con la Costituzione che, tra l’altro, considera l’acqua un monopolio naturale da sottoporre a regime speciale.
In questi anni, numerosi esempi hanno dimostrato che la gestione privatistica dei servizi idrici può portare a improvvisi aumenti in bolletta, con importi smisurati che non trovano altra spiegazione se non nella volontà di generare facili profitti. Questo fenomeno ha contribuito alla nascita, in molti territori, di comitati in difesa dell’acqua pubblica.
Se il DDL Concorrenza penalizza fortemente la gestione pubblica, complicandone gli adempimenti amministrativi e prevedendo controlli più serrati rispetto a quelli previsti per chi sceglie una gestione privata, il PNRR licenziato dall’attuale governo, ne limita l’accesso ai fondi, limitati agli enti gestori unici riconosciuti come tali entro luglio 2022.
L’azienda napoletana ABC ha rischiato di essere penalizzata dall’art. 6 del DDL Concorrenza e dal Pnrr, ma si è salvata con la scelta, presa nel mese di dicembre, di approvare nel bilancio “Napoli città” il suo scorporo dal distretto metropolitano. In questo modo, il capoluogo è riuscito a salvarsi dagli effetti di tale normativa (almeno per ora!). La stessa sorte non è toccata ai 31 comuni della città metropolitana dello stesso distretto.
DIFENDIAMO I SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Sarebbe interessante sapere cosa pensano di queste spinte alla privatizzazione le forze politiche che hanno deciso sostenere “da sinistra” la giunta guidata da Manfredi. In attesa della risposta a questa domanda, Potere al Popolo ritiene fondamentale salvaguardare il carattere pubblico dell’azienda speciale ABC e delle diverse aziende partecipate dal Comune di Napoli, messo in pericolo dal combinato disposto del DDL Concorrenza, dal PNRR e da quanto sta emergendo nel percorso che porta all’adozione del “Patto per Napoli”.
Napoli Servizi, ASIA, ANM, ABC e le altre partecipato hanno bisogno, sicuramente, di un rilancio in materia di offerta di servizi e di riqualificazione del proprio operato. Una necessaria riforma che, però, può avvenire difendendo la loro “missione pubblica”, rifuggendo da ogni tentativo, più o meno camuffato di privatizzazione.
In passato, diverse cordate di imprenditori legati a doppio filo sia con settori politici ma, spesso, anche a filoni economici “non perfettamente tracciabili”, hanno manifestato il proprio interesse affaristico e speculativo nei confronti di questa o quella società, se non a specifici rami di azienda.
Questa volontà, caldeggiata da alcune dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione di Gaetano Manfredi, prefigurerebbe un processo di ristrutturazione di queste Società, che comporterebbe: l’espulsione di lavoratori, la riconversione a logiche di mercato di alcuni servizi pubblici di tipo universalistico e, soprattutto, un’idea di città ancorata al profitto, alla discriminazione sociale e alla negazione dei più elementari diritti sociali.
Sulla base di queste accertate preoccupazioni Potere al Popolo si mobilita in difesa del carattere pubblico di queste Società, si oppone a qualsivoglia operazione di esternalizzazione o privatizzazione, e sostiene attivamente le mobilitazioni del sindacalismo conflittuale in questi settori e nell’intera area metropolitana.
LA POSIZIONE DI POTERE AL POPOLO
Sulla base di questa analisi, Potere al Popolo si dichiara, senza alcuna esitazione, contraria al Patto per Napoli. Le logiche neoliberiste, fatte di austerità e privatizzazioni, sono volte allo smantellamento di ciò che resta dello Stato sociale e aumentano di conseguenza le diseguaglianze e impoveriscono le classi popolari, senza risolvere in maniera reale né il problema del debito, né quello dell’efficienza della macchina amministrativa.
Pap propone, invece, un’amministrazione pubblica che fornisca servizi accessibili a tutti e che valorizzi realmente il proprio patrimonio mettendolo al servizio della popolazione, traendone magari nuove forme di finanziamento.
Siamo consapevoli che la situazione delle casse comunali è in crisi da troppo tempo, ma abbiamo il dovere di ricordare che queste difficoltà sono dovute a quelle politiche di austerità promosse dai diversi livelli di governo, accompagnate da forme di federalismo tutt’altro che solidali. Così si sono aggravate le disuguaglianze territoriali, che strangollano le aree più povere del Paese, incapaci con le proprie entrate di alla diminuzione dei trasferimenti statali.
Se le finanze del Comune di Napoli hanno risentito, in misura straordinaria, della progressiva riduzione dei trasferimenti statali nel corso degli ultimi anni, la soluzione a questi problemi non può prescindere da un serio intervento del governo nazionale.
L’intervento deve avvenire tramite l’erogazione di contributi a fondo perduto, non legati all’adozione di politiche di austerità, ma che riescano a sostenere finanziariamente il Comune, favorendo un nuovo protagonismo della macchina amministrativa al servizio della cittadinanza.