Campania

[Napoli] Chiesa di Sant’Antonio a Tarsia, dal freddo alla primavera.

Cosa è successo, come continuare l’accoglienza e l’autorganizzazione?

Dopo varie settimane dall’apertura della Chiesa di Sant’Antonio a Tarsia all’accoglienza per i senza dimora che abbiamo affrontato come Rete di Solidarietà Popolare e come Potere al Popolo, vogliamo provare a fare un bilancio collettivo di quest’esperienza, a raccontarvi qualche storia e a porre domande e prospettive possibili. Anche questa sembrava una follia pur nella semplicità del suo messaggio: aprire finalmente una chiesa abbandonata ai senza dimora almeno durante l’inverno, quante volte l’avevamo pensato? Alla fine, semplicemente, l’abbiamo fatto. Speriamo che da quest’esperienza escano degli elementi che possano portare sempre più persone a riconoscersi ed attivarsi, a mettere in discussione i modelli economici e sociali che ci propongono che criminalizzano sempre di più i poveri e a costruire reti autorganizzate di solidarietà contro la crisi e la povertà crescente.

Introduzione

Vorremmo cominciare raccontando innanzitutto da cosa è partito tutto questo, perché, quando si giudica un percorso, bisogna riflettere su come e da dove si è iniziato il cammino per capire davvero quanto si è costruito e quanto ancora potremo costruire insieme, sviluppando le forze di mobilitazione dal basso. 

E allora, da che cosa cominciare? L’anno scorso avevamo aperto le porte dell’Ex Opg Je So’ Pazzo, durante l’emergenza freddo, all’accoglienza ai senzatetto. Da quell’esperienza avevamo imparato tanto, soprattutto eravamo entrati in contatto da un lato con il variegato mondo dei volontari e delle associazioni che con grande umanità e costanza portano un sostegno ai senza dimora e dall’altro avevamo capito, entrando in contatto direttamente con loro, alcune delle problematiche che vivono e volevamo continuare il percorso, passando dall’assistenza al mutualismo, alla rivendicazione, alla lotta.

Da quell’esperienza nacque la Rete di Solidarietà Popolare che mette insieme singoli, associazioni, volontari per costruire collaborazione e vertenze comuni. Chiudevamo il bilancio dell’anno scorso rilanciando con due obiettivi chiari:

– Lottare per favorire l’acquisizione della residenza virtuale, per far garantire un diritto che permette banalmente di esistere, di poter avere un medico di base, iscriversi al collocamento, richiedere una pensione minima o d’invalidità.  A distanza di un anno la lotta ha pagato, non solo siamo riusciti ad ottenere una nuova circolare dall’amministrazione che regolamenti meglio la procedura ma abbiamo aperto uno sportello ad hoc per accompagnare le persone nelle pratiche (da quando è attivo lo sportello già più di 50 persone hanno ottenuto finalmente la residenza!) e soprattutto ultimamente siamo riusciti anche ad accreditare la nostra associazione per poter prendere noi direttamente in carico le persone che si rivolgono allo sportello e seguirle più velocemente.

– Aprire strutture all’accoglienza dal basso con piccoli numeri, gestite direttamente da volontari vista l’emergenza sociale che continua ad aumentare. Aprire dormitori autogestiti implementando l’autorganizzazione e l’autodeterminazione, ma soprattutto la relazione vera, costante con le persone oltre il singolo dono, comunque importante perché risponde a un bisogno concreto, del pasto o della coperta. A questo proposito già mesi fa avevamo scritto all’Assessorato al Welfare del Comune di Napoli per aprire una collaborazione e individuare uno spazio dove sperimentare questo tipo di accoglienza. Riuscimmo ad aprire un tavolo per discutere della proposta ma in nome di vincoli burocratici insormontabili ci fu detto che non si poteva portare avanti il progetto. Scrivemmo così anche alla Curia, ma non ci fu risposta. E così ancora una volta abbiamo deciso di dimostrare che laddove non arrivano e non vogliono intervenire le istituzioni, solo la mobilitazione popolare può dimostrare comunque che si può fare, che quando ci mettiamo insieme e ci organizziamo per superare egoismo e rassegnazione in nome della solidarietà si sviluppa un potere che non conosce confini, che non conosce ostacoli, che non conosce barriere linguistiche, etniche, culturali, sociali.

A distanza di un anno abbiamo portato avanti queste due vertenze, ma adesso proviamo ad andare con ordine e partiamo dal racconto di quanto abbiamo fatto, mettiamo al centro i veri protagonisti di quest’avventura e vediamo ancora una volta cos’è successo e cosa abbiamo imparato.

Cosa è successo in queste settimane? Cosa abbiamo fatto?

Il 3 Febbraio siamo entrati nella Chiesa di Sant’Antonio a Tarsia, un posto bellissimo che si compone non solo di una chiesa del ‘500 ma anche di un convento affianco che circonda il chiostro. Quell’edificio era stato abbandonato dal 2012 dall’ordine dei Redentoristi, proprietari dell’immobile, che lo avevano lasciato in preda all’incuria e all’abbandono. Non solo, in più occasioni negli anni ci sono stati palesemente dei furti di vari beni storici della chiesa, marmi, effigi, lumi ecc. e nel frattempo l’ordine ha cercato solamente di venderlo a privati, senza chiudere ancora nessuna vendita effettiva. 
Appena entrati abbiamo provveduto a sistemare e pulire gli spazi della Chiesa, a preservarne le zone monumentali, ad allestire l’accoglienza con 20 brandine e attrezzando gli spazi sanitari e le cene serali. La Rete di Solidarietà ha svolto un lavoro incredibile grazie all’esperienza maturata e soprattutto alla presenza  di volontari che hanno vissuto in prima persona la vita di strada e hanno istituito un immediato contatto di fiducia con gli occupanti.

Dall’inizio dell’esperienza abbiamo ospitato 28 persone, 10 sono venute tramite le associazioni che si occupano da tempo di assistenza per strada, alcune tramite i nostri sportelli sociali sono arrivate su via emergenziale per utilizzare per qualche giorno un posto letto in attesa di inserimento in dormitorio o in un centro di accoglienza, altre ancora sono piombate così nelle nostre vite ormai coinvolte nel contesto di guerra agli invisibili che si manifesta tutti i giorni per le nostre strade.

E’ emblematico in questo senso il caso di S., un ragazzo gambiano che dopo aver subito numerose ingiustizie una sera ha una crisi psicologica in un quartiere di Napoli, Forcella, si dispera, si denuda, è in palese difficoltà. Per tutta risposta però viene aggredito da dei ragazzi che lo accoltellano lasciandolo lì sanguinante. In questa spirale di violenza in cui poteva ancora accadere l’irreparabile, S. viene anche portato al Commissariato e poi soccorso da un suo amico che ci chiama e lo accompagna in Chiesa. Da lì si mette in piedi una rete di soccorso immediata, S. viene visitato dai medici dell’ambulatorio popolare e dello sportello di ascolto, mangia, si tranquillizza e inizia con noi un percorso che lo vedrà dopo pochi giorni di nuovo presente a sé stesso e pronto a ricominciare piano piano a riprendere in mano la sua vita continuando l’iter per i documenti, le visite mediche, la ricerca di un lavoro. Non ci sembra assurdo dichiarare che senza questa rete di soccorso popolare S. sarebbe andato probabilmente incontro a un Tso e poi sarebbe finito nuovamente in strada visto lo stato in cui versano i servizi di salute mentale e di assistenza sociale a causa dei numerosi tagli e dell’impostazione generale improntata sull’emergenza e la “gestione” della crisi piuttosto che sulla prevenzione e l’attenzione globale alla persona.

E ancora abbiamo conosciuto N. napoletano, che abbiamo accompagnato, dopo anni di abbandono personale, in un percorso di recupero dalla tossicodipendenza.  Nel frattempo è arrivata anche O., una signora russa che, perso il lavoro di pianista è finita qui in Italia alla ricerca di un lavoro e qualcosa aveva pure trovato, ovviamente a nero, ovviamente un lavoro di cura in un paese che non ha ancora una legge che garantisca diritti e reddito adeguato a questo esercito di lavoratrici che salvano ogni giorno i nostri affetti più anziani. Ma poi il lavoro era finito e lei anche, persa in una strada a Gianturco nel mezzo del maltempo invernale.

La storia di O. ci ha fatto molto pensare anche a quanto sia sottovalutata la dimensione di genere quando si affrontano e strutturano i servizi per i senza dimora, non ci sono posti adeguati nei dormitori e servizi sociali specifici per l’accoglienza delle donne e dei loro vissuti doppiamente traumatici. Eppure le donne sono ormai il 30% delle persone senza dimora e il numero negli anni sta continuando ad aumentare.

Le storie da raccontare come sempre sono tantissime e ti restituiscono un mondo di umiltà, coraggio e comprensione del mondo ma anche la rabbia per le ingiustizie che quotidianamente avvengono senza indignare mai abbastanza. Incredibile però è stata la solidarietà nel quartiere, a Montesanto, dove ogni giorno accorrono abitanti a portare un pasto, una busta di caffè, frutta, saponi, c’è chi si è offerto di cucinare, chi si intrattiene ormai spesso per una chiacchiera, chi comunque ogni volta che scende di casa si ferma a bussare per un saluto veloce. Non si può dire lo stesso dell’ordine dei Redentoristi che, nel frattempo, come avevamo già scritto, ha manifestato la volontà di sgomberare l’immobile per cercare di venderlo a un privato quando noi vorremmo che quantomeno venisse preservata la funzione sociale del luogo.

E ora? Come continuare? Alcune prospettive di accoglienza e la centralità della prevenzione e dell’autorganizzazione.

Ad oggi, delle 28 persone che abbiamo ospitato complessivamente in queste settimane ne rimangono 12, dodici persone con cui abbiamo ragionato su come proseguire questa piccola mobilitazione per costruire un vero e proprio dormitorio autogestito a piccoli numeri che garantisca un appoggio stabile per loro finché non troveranno la loro autonomia per lasciare il posto ad altri ospiti e, allo stesso tempo, manterremo dei posti d’emergenza per persone in transito o in attesa di essere inserite in altre strutture. Noi saremo semplicemente degli “accompagnatori”, ma è la persona che dovrà scegliere i tempi in autonomia e verificare di volta in volta l’andamento del percorso.

Stiamo lavorando insieme per continuare a sistemare la struttura e renderla agibile a continuare questa avventura, nei prossimi giorni metteremo su delle iniziative sia per continuare la solidarietà con una serata musicale, una cena, le assemblee, sia per mostrare questo bene storico alla città con delle visite guidate. Venite a trovarci, non ve ne pentirete.

Noi pensiamo davvero che il modello generale con cui viene affrontata la situazione sociale dei senza dimora vada rovesciato, che bisogna, ancora una volta, fare tutto al contrario.

Se i governi dispongono i grandi dormitori ghetto con regole assurde e forme di disciplinamento che non portano a nessun risultato se non al continuo annullamento della persona “assistita” che si sente come un bambino, incapace di prendere in mano il proprio destino, noi proponiamo un’accoglienza diffusa, a piccoli numeri, orientata da subito all’emancipazione individuale, alla consapevolezza e alla lotta per i proprio diritti.

Nel dormitorio infatti alla persona non viene chiesto di fare nulla: dorme, a volte mangia, a volte gli viene cambiata la biancheria. Ci sono orari e regole molto severe e cosi le tante potenzialità che potrebbero essere attivate e sviluppate per ricominciare un percorso di autodeterminazione vengono semplicemente represse. E comunque tanti non riescono ad entrarvi visti i pochi posti disponibili e tanti talenti e intelligenze vengono gettati come monnezza in queste discariche di miseria con addosso l’etichetta di chi è condannato e si convince che non ce la potrà più fare perché arriva a mancare non semplicemente la disponibilità di risorse, ma l’idea di avere ancora la capacità per trasformare e progettare la propria esistenza.

Se il modello dominante ci dice che il senzatetto è tale quasi sempre per scelta, perché si narra che non vuole andare nel dormitorio, che gli piace vivere in strada, che è quasi voglia di nomadismo, noi raccontiamo un’altra storia dando voce direttamente ai protagonisti di quest’avventura che vi invitiamo a conoscere: vi parleranno di vite precarie, di lavori senza tutele, di rotture familiari e amicali che si affiancano a una situazione già difficile, se sei straniero dei numerosi ostacoli burocratici per rinnovare i documenti per mantenere il lavoro e viceversa e poi magari arriva anche lo sfratto e hai perso i tanti picchetti, i vari punti d’appoggio che mantenevano salda la tenda, che, metaforicamente, è la tua vita.

Può capitare a chiunque soprattutto in questi anni di crisi e infatti i numeri ci dicono che dal 2011 la popolazione senza dimora è aumentata di svariate migliaia di persone (gli ultimi dati ISTAT ci dicono di 47.648 nel 2011 e 50.700 nel 2015, ma la stima è ridotta e probabilmente ci aggiriamo intorno ai 55.000, in costante aumento anche grazie alla disumana gestione degli arrivi dei migranti e della procedura d’accoglienza).

Abbiamo quindi un progetto da continuare a coltivare per mantenere i frutti dell’umanità e della solidarietà e dimostrare che un altro modello di intervento è possibile, che metta al centro la persona e la consideri come tale, non un numero o, ancora peggio, completamente invisibile. Questo modello, che non inventiamo noi ma che tantissimi lavoratori e volontari che si occupano di questo possono spiegare e argomentare perché forti di anni di esperienza in materia, permetterebbe anche un risparmio generale di fondi pubblici, ma ancora di più lo permetterebbe un sistema di politiche sociali, abitative e lavorative incentrate alla prevenzione del fenomeno.

Un esempio concreto lo hanno dato Norvegia e Finlandia, unici paesi in cui negli ultimi anni c’è stata una notevole diminuzione del numero di senza fissa dimora perché il problema è stato affrontato non come un inevitabile problema sociale dovuto a scelte personali e su cui agire ogni volta nell’ ”emergenza”, ma per quello che realmente è: un problema di accesso alla casa e a servizi sociali adeguati nell’accompagnamento della persona verso un percorso di autonomia e reinserimento sociale.

I dati ci dicono chiaramente che laddove si è applicato un modello non paternalistico e emergenziale riducendo i grandi dormitori e i servizi sociali d’emergenza ma concentrando i finanziamenti sull’accesso immediato alla casa e l’indipendenza con l’accesso a sussidi sociali, i risultati sono stati enormemente positivi, l’80/90% delle persone coinvolte ritrova benessere e stabilità con una drastica diminuzione anche del consumo di alcool e droghe rispetto a quanto accade nei percorsi “classici” normalmente molto restrittivi e disciplinanti.

Conclusioni: “Guai a voi guide cieche!” 

“Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive”

I tempi che viviamo sono duri e lo sappiamo bene: viviamo la precarietà lavorativa e esistenziale, l’aumento delle guerre e dei conflitti che arrivano anche nel nostro continente, abbiamo una classe politica e dirigente corrotta e senza un piano serio per superare l’empasse e nel frattempo un’enorme disuguaglianza di redditi che continua ad aumentare in questo mondo dominato da banche e multinazionali.

Se Minniti in quest’anno si è superato riportando in voga normative dell’era fascista con il daspo urbano per ragioni di decoro e siglando accordi criminali con la Libia, nel frattempo i sindaci di qualsiasi colore politico non hanno atteso molto e sono aumentate le ordinanze anti accattonaggio, l’architettura urbana è sempre più ostile per impedire la sosta nei luoghi del turismo e del benessere e chissà cos’altro potremo aspettarci dal governo che verrà. Purtroppo, pensiamo, niente di diverso. Il movimento cinque stelle là dove ha governato (a Roma, a Torino ecc) non ha dimostrato nessuna umanità e alternativa sociale per i disoccupati e i precari ma anzi ha applicato il daspo urbano, ha sgomberato occupazioni di case, ha combattuto, come tutti, i poveri senza mettere in piedi misure contro la povertà. La Lega ovviamente porta la bandiera dell’odio razziale e della violenza gratuita del più prepotente di turno, il PD e il PDL, fautori delle politiche di austerità di questi anni, se non altro ne sono usciti finalmente sconfitti. 

Non vogliamo fare facili e rattristanti profezie, ma una cosa è certa, noi continueremo a costruire organizzazione e solidarietà perché i nodi da affrontare, nella storia di quella strana specie che è l’essere umano, rimangono sempre gli stessi: la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza, la gestione della proprietà privata, il rovesciamento totale di questo mondo che non ha più niente di normale!

L’esperienza di accoglienza della Chiesa, dove convivono italiani, polacchi, marocchini, senegalesi, dimostra nel suo piccolo che quando abbandoniamo la guerra tra poveri e costruiamo solidarietà e autorganizzazione ritroviamo la forza di alzare la testa e rivendicare diritti e dignità per tutti. 
Al prossimo governo che fingerà ancora una volta di affrontare i nodi sociali del paese senza cambiare nulla nella sostanza abbiamo un solo messaggio da mandare, noi qui e in tante altre parti già vediamo i primi segnali di primavera, e allora, guai a voi guide cieche!

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