Potere al popolo dice NO all’autonomia differenziata e PROPONE un modello alternativo di ripartizione e gestione delle risorse; il nostro no è prima di tutto un NO sociale! Volete capire perché? Leggete le nostre risposte a queste 8 domande.
1. Che cos’è l’autonomia differenziata e chi la chiede?
L’autonomia differenziata è la possibilità prevista dal titolo V della Costituzione che le singole regioni a statuto ordinario possano accedere a forme di autonomia della gestione di diverse competenze. Le materie oggetto di gestione autonoma possono essere differenti per ciascuna regione.
Nell’ottobre 2017, i governatori di Veneto e Lombardia, entrambi in quota Lega, hanno indetto un referendum consultivo sull’autonomia che ha visto in Veneto un’affluenza del 57%, in Lombardia una del 38%. Non esattamente un pronunciamento di massa, anche perché non è stato accompagnato da un vero dibattito popolare. Poco dopo, anche il governatore dell’Emilia-Romagna, in quota PD, ha ottenuto il mandato dalla sua assemblea regionale per avanzare insieme alle altre 2 regioni la richiesta al governo. In seguito anche Piemonte (a guida PD), Liguria (a guida Forza Italia-Lega) e Campania (PD) si sono aggregate per richiedere autonomia su alcune materie.
Delle 23 materie previste dalla costituzione, il Veneto ha richiesto autonomia su tutte, la Lombardia su 20 e l’Emilia-Romagna su 15. Tra le principali troviamo Salute, Scuola, Università, Attività produttive, Lavoro, Infrastrutture, Energia, Tutela del paesaggio, Beni culturali, Ambiente, Rifiuti, Governo del territorio, Protezione civile.
2. Perché proprio adesso? È un’iniziativa dei governi a partecipazione Lega (Nord)?
In realtà non avviene “tutto adesso”. L’autonomia differenziata è solo l’ultimo di una serie di trasformazioni che in ambito italiano ed europeo hanno indotto i sistemi politici verso forme sempre più spinte di regionalizzazione. In Italia la storia inizia negli anni ’90 nel campo e sfocia nel 2001 con la riforma del Titolo V, che ha determinato il passaggio di alcune materie da legislazione esclusiva dello stato a concorrente di stato e regioni.
La Lega Nord, che ora si racconta come il partito del “prima gli italiani”, che straparla di difesa dell’interesse nazionale, è stato il soggetto che, dalla fine degli anni ’80, ha maggiormente spinto per la secessione del Nord dal resto del paese. Nonostante tutti i dati dimostrino che, dai tempi dell’Unità d’Italia in poi, chi ha maggiormente beneficiato delle politiche statali sia stato proprio il Nord, la Lega ha creato una narrazione basata su fake news, vittimismo, odio verso i “terroni” (più avanti sostituito dall’odio verso gli immigrati) e lavorato, grazie alla sponda di Governo offertagli da Berlusconi sin dal 1994, per drenare ulteriori risorse da Roma e fare così gli interessi delle classi imprenditoriali settentrionali. Altro che “antisistema”!
Su questo, come su molti altri temi, i governi di centrosinistra hanno inseguito l’agenda politica della destra, arrivando con il governo D’Alema e poi Amato ad approvare la riforma del titolo V, cercando così di posizionarsi sull’argomento autonomie e regionalismo, in linea con gli interessi dei ceti imprenditoriali e credendo di sottrarre terreno alle proposta di Forza Italia e Lega. Ovviamente l’esito è stato l’esatto contrario. Allo stesso modo, pensando forse di racimolare qualche voto in più, il già dimissionario Governo Gentiloni si prende – quattro giorni prima delle elezioni del 4 marzo 2018! – la responsabilità di firmare una pre-intesa sulla cosiddetta autonomia differenziata con le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
Arrivata a Palazzo Chigi grazie al Movimento 5 Stelle, la Lega impone sin da subito nel “contratto di governo” questo tema. E anche i 5 Stelle, lungi dal fare le barricate, nonostante i tanti voti presi proprio al Sud, si dimostrano subalterni alle richieste della Lega e dei ceti affaristici regionali.
Ma perché c’è tutta questa voglia di chiudere proprio ora la partita dell’autonomia? Da un lato c’è l’idea della Lega e dei gruppi di potere ad essa legati di avere fra le mani un’occasione unica: una forza elettorale sul territorio e nei sondaggi che potrebbe non ripetersi più, alleati di governo particolarmente fragili, livelli di mobilitazione e coscienza nel Paese molto bassi. In questa situazione, cercano di consolidare rapporti di potere che potrebbero permettergli di governare per i prossimi anni.
Da un altro lato ci sono i processi materiali di lungo corso. Ciò che sta accadendo è infatti perfettamente coerente con la mission primordiale della UE: rinvigorire il saggio di profitto attraverso la svendita degli asset pubblici, il controllo dei monopoli naturali, la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità. La crisi economica ha inoltre accelerato la tendenza dei capitali a concentrarsi dove gli investimenti sono più produttivi e ad abbandonare gli altri territori, desertificandoli, dando luogo ad uno sviluppo profondamente disuguale: a livello continentale, tra il Sud e il Nord del Paese, e, all’interno delle stesse macro-aree, in zone sempre più ristrette. Nel contesto di una competizione globale che si fa sempre più feroce, le classi dirigenti di alcune regioni del Nord Italia stanno dunque lottando per rimanere agganciate, in posizione secondaria, agli assetti produttivi ed economici guidati dalle grandi imprese francesi e tedesche. E per questo puntano a sbarazzarsi di ogni peso in termini di tassazione, vincoli e legami di solidarietà…
3. Il Sud è una “palla al piede”?
Assolutamente falso. Nord e Sud sono strettamente interdipendenti! Infatti, secondo SVIMEZ, 20 dei 50 MLD circa del residuo fiscale trasferito dallo Stato alle Regioni del Sud ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi. Il Meridione è il principale mercato di sbocco della produzione settentrionale (oltre il 70% delle merci prodotte) e le aziende che producono a Sud ma hanno sede legale al Nord attivano circa il 14% del PIL delle regioni autonomiste. L’emigrazione intellettuale e studentesca proveniente dal Mezzogiorno genera un valore di 5 MLD di euro per le regioni del Nord e una perdita secca di 2 MLD di spesa pubblica per l’istruzione non recuperata a Sud. Infine l’integrazione passiva del sistema finanziario meridionale nei gruppi bancari del Centro-Nord ha generato la tendenza ad utilizzare i risparmi dei meridionali per finanziare investimenti a basso rischio nelle aree più produttive del Paese.
4. Il Nord paga più tasse e riceve meno servizi?
Falso. Il gettito delle imposte (Ipef; Irap; Iva; ecc) delle regioni del Nord Italia è superiore, rispetto alle regioni del Sud Italia, semplicemente perché il valore quantitativo e nominale dei redditi (salari; utili; rendite; ecc.) è più alto. Anzi, i dati sulla divaricazione del gettito (tra Nord e Sud) evidenziano, ancor di più, una mostruosa sperequazione delle condizioni economiche. Il gettito generato dalle regioni settentrionali, in gran parte, non viene ridistribuito alle regioni del Sud; difatti, il 70,9 % della stessa si concentra al centro–nord contro il 29,1% del sud e isole. Questa sperequazione è il frutto di un meccanismo di ripartizione definito spesa storica. La L.Delega 42/2009, istituiva, quale principio di allocazione della spesa pubblica, i cosiddetti L.E.P. (Livelli Essenziali delle Prestazioni concernenti i diritti civili e sociali delle funzioni fondamentali dei comuni e delle regioni) ossia un set di prestazioni pro-capite uguale per tutti i cittadini italiani. La spesa delle regioni si divide in spese essenziali e non essenziali; la spesa dei comuni si divide in spese fondamentali e non fondamentali. I L.E.P. si riferiscono alle spese essenziali e quelle fondamentali; i criteri di valutazione dei L.E.P. sono i fabbisogni standard e i costi standard.
5. Cosa comporta la mancata istituzione dei LEP?
I LEP non sono mai stati istituiti per ragioni di contenimento della spesa pubblica, la quale è ingabbiata dall’apartheid dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. L’attuale sistema di ripartizione della spesa (Fondo di Solidarietà Comunale) è un meccanismo misto in cui la componente storica prevarica quella perequativa. In soldoni, se per il 2018 a Cosenza i posti di asilo nido equivalgono a 0, poiché quel servizio non è mai stato erogato, il comune in questione non vedrà aumentare la propria dotazione finanziaria, anche se c’è la necessità di quel servizio. In caso contrario, se fossero determinati i LEP, in base ai quali il servizio di asilo nido è considerato una prestazione essenziale, il fondo sarebbe costretto ad erogare le risorse finanziarie necessarie per istituire il servizio. L’attuale sistema di ripartizione è orizzontale, cioè concorrono ad alimentarlo solo i tributi comunali e non la fiscalità generale. Questo modus operandi è l’ennesimo risultato dei vincoli di bilancio imposti dalla UE. Infine, nella finanziaria del 2016 (governo Gentiloni) è prevista l’ultima polpetta avvelenata: il FSC, a regime, potrà fungere da meccanismo di perequazione (target perequativo) solo per il 40% della sua capienza. Il 50% delle risorse viene riallocato ai comuni sulla scorta delle loro capacità fiscali storiche (sommatoria di tutti i tributi introitati), mentre il restante 10 % viene “restituito” ai comuni che hanno entrate superiori ai costi standard per le prestazioni fondamentali (residuo fiscale).
6. L’autonomia differenziata avvantaggerebbe le classi popolari del Nord e ridarebbe linfa all’economia del Sud. È vero?
Falso. Sia per il Nord che per il Sud. Solo per fare un esempio, al Nord la regionalizzazione di alcuni servizi come la sanità ha significato privatizzazione e peggioramento dei servizi. Le aree vaste che oggi troviamo in Veneto e in Emilia-Romagna hanno portato alla diminuzione progressiva dei servizi sanitari di prossimità, all’allungamento delle liste d’attesa alla carenza di medici, alla chiusura dei presidi ospedalieri nei centri più piccoli, tra cui reparti importanti come ginecologia che oggi servono territori estesi anche oltre i 60 km, creando delle enormi disparità territoriali. In una regione come la Lombardia che è pubblicizzata come luogo di eccellenza, la regionalizzazione ha preso la forma di legame criminale dal valore di diversi milioni di euro tra classe politica regionale, grandi privati e fondazioni cattoliche, come messo in luce dall’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex governatore Formigoni. Ma potremmo fare anche molti altri esempi dei problemi su trasporti, urbanistica e ambiente che oggi in queste tre regioni esistono e colpiscono soprattutto le classi popolari. Vogliamo davvero fidarci di quelle stesse classi politiche che per oltre 20 anni hanno governato queste regioni quando ci dicono che sapranno gestire meglio questi servizi essenziali con una maggiore autonomia? E per quanto riguarda le forme di autonomia richieste dalle regioni del Sud, basta ricordare la richiesta di istituire zone economiche speciali dal parte della regione Campania, che ad oggi si configurano come luoghi in cui le imprese godrebbero di deregolamentazione del mercato del lavoro e il pubblico di un minore introito fiscale. È davvero così che ci immaginiamo la ripresa dell’economia al Sud? Non cadiamo nella retorica della contrapposizione tra Nord a Sud, non commettiamo l’errore di mettere territori in competizione e in guerra fra loro: gli effetti dell’autonomia saranno devastanti sia per i cittadini del Nord che del Sud, che hanno tutto da perdere.
7. Quindi l’unità nazionale è in pericolo?
Ci sarebbe molto da dire su cosa abbia voluto dire in Italia “unità nazionale”, quale costo sociale sia stato pagato dal Mezzogiorno, quali interessi materiali e di potere questa unità abbia mascherato. Ma il Paese che uscirebbe fuori dall’autonomia differenziata sarebbe un paese ancora più frammentato, diviso e ostile, con le classi popolari intruppate dietro ai rispettivi ras locali di scarsa visione strategica e in relazione con i peggiori poteri mafiosi e affaristici. Un Paese con cittadini di serie A e di serie B, con un Sud e le aree periferiche completamente desertificate, con i giovani costretti ad emigrare e pochi privati sempre più ricchi. Non è detto che si arrivi a disgregare l’unità formale del Paese: del resto la possibilità dell’autonomia differenziata è inscritta nella Costituzione a seguito della riforma del Titolo V, e, al netto del fatto che oggi qualcuno scopra il pericolo per l’unità nazionale in funzione anti-leghista, quella riforma non viene messa in discussione, anzi. Il vero problema, semmai, è l’unità materiale del Paese: la sua coesione dal punto di vista sociale, l’eliminazione delle disparità, l’attuazione di un’uguaglianza che rimane lettera morta o pura enunciazione in una Costituzione i cui principi fondamentali sono già stati fortemente compromessi dall’introduzione del pareggio di bilancio.
Oggi è più che mai necessaria un’alleanza fra classi popolari del Nord, composte principalmente da lavoratori industriali e dei servizi, e quelle del Sud, fatte di braccianti agricoli, edili, servizi, lavoratori a nero. Al di là di cosa ci viene raccontato dai nostri politici, questi soggetti hanno gli stessi interessi – ovvero avere lavoro più stabile, più sicuro, meglio pagato, meno faticoso, avere servizi più efficienti, scuole e sanità migliori – e hanno gli stessi nemici: chi accaparra la ricchezza, speculatori, palazzinari, imprenditori che privatizzano i servizi, industriali che inquinano…
Ovviamente nessuno dei partiti oggi presenti in Parlamento, nemmeno il Movimento 5 Stelle, ha interesse a che questa alleanza avvenga, perché toglierebbe potere a chi ora ne ha. Per questo il nostro NO all’autonomia differenziata è un NO sociale, che mette al centro della battaglia contro l’autonomia il tema della redistribuzione della ricchezza e il coinvolgimento dei movimenti sociali, e non è politicista come quello di alcuni soggetti che oggi si oppongono all’autonomia differenziata ma fino a poco fa ne erano artefici e conniventi.
8. Ma quindi qual è la posizione di PaP?
Potere al Popolo intende mobilitarsi e partecipare a tutte le mobilitazioni contro l’autonomia differenziata, mettendo al centro gli interessi delle classi popolari e la giustizia sociale, sottolineando le responsabilità di tutte le principali forze politiche. Secondo noi l’autonomia differenziata è l’ennesima iniziativa che aumenta il potere della classe politica regionale e lo sottrae a quelle del popolo, alimenta il sistema clientelare e favorisce il malaffare, promuovendo privatizzazione, disuguaglianza e impoverimento delle fasce popolari sia a Nord che soprattutto a Sud. È un’iniziativa che cristallizza gli attuali divari in termini di risorse regionali senza alcun meccanismo di perequazione.
Combattere contro il pessimo progetto di autonomia differenziata non vuol dire però conservare quello che c’è. Oggi le Regioni sono veri e propri centri clientelari, distanti dal popolo, che decidono sulla testa dei cittadini e degli enti locali di prossimità. Allo stesso tempo, oggi abbiamo uno Stato che non redistribuisce adeguatamente le risorse e che, a causa dei guasti della riforma del Titolo V, è in perenne conflitto di attribuzioni. Al contrario, se facciamo questa lotta è perché abbiamo un’altra idea di come dovrebbe funzionare il nostro Stato e le nostre istituzioni. Vogliamo che ci sia uno Stato che si impegni nel far rispettare ovunque i diritti costituzionali, soprattutto quelli menzionati nell’articolo 3, che abbia gli strumenti per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Vogliamo quindi una centralizzazione massima delle risorse per garantire un’equa redistribuzione su tutto il territorio nazionale, e allo stesso tempo il potenziamento delle istituzioni di prossimità come i comuni per garantire processi di gestione realmente democratici.
Per poter attuare questa rivoluzione c’è la necessità:
– Di riaffermare la nostra contrarietà al regionalismo dell’Autonomia Differenziata bloccando qualsiasi ipotesi di attribuzione di ulteriori competenze alle regioni oltre alle materie attualmente in dotazione e distruggere ab origine il c.d. Residuo Fisale (le regioni tratterrebbero il 90% del gettito delle imposte prodotto in quella regione);
– Prospettare un modello di governance in cui gli attori principali siano lo stato centrale, nella produzione legislativa e nella centralizzazione delle risorse e relativa ripartizione (fondato su principi perequativi) pro capite e non su base territoriale, e i comuni ed unione di essi, a cui devolvere forti competenze amministrative (sussidiarietà verticale) accompagnate da strumenti di partecipazione e controllo popolare (sussidiarietà orizzontale); in tale contesto, le regioni assumerebbero il mero ruolo di programmazione in condivisione con gli enti di prossimità;
– Determinare i L.E.P. regionali e comunali, i fabbisogni e i costi standard;
– Allargare le maglie delle spese essenziali e fondamentali includendovi ulteriori spese sociali ritenute necessaire;
– Ridisegnare il meccanismo di ripartizione delle risorse, sia in ambito regionale che in ambito comunale; in dettaglio a) ampliare il finanziamento dell’FSC anche alla fiscalità generale (in senso verticale); b) il fondo deve essere perequativo al 100% eliminando la capacità fiscale storica e il 10% di residuo fiscale;
– Per i comuni (principalmente del Nord) che, a riforma a regime, dovessero avere un trasferimento inferiore a quello storico, il fondo perequativo compenserebbe il gap mantenendo inalterato il livello di prestazioni standardizzate.