Salta la riapertura degli stabilimenti Whirlpool a Napoli, Siena e Cassinetta, gli operai vincono, ma la lotta continua!
Dal 3 maggio la produzione ripartirà e con essa due importanti scadenze di lotta: il rinnovo del regime di solidarietà per gli stabilimenti del gruppo Whirlpool e la difesa dello stabilimento di Napoli dove l’azienda vuole cessare le attività.
Intanto la recessione globale apre scenari nuovi e aumenta l’incertezza tra le fila degli operai. Pubblichiamo un’analisi della situazione della vertenza Whirlpool e delle crisi industriali in Italia e alcune considerazioni per una strategia di lotta adeguata alla nuova fase.
«Sarà un mondo diverso, le esperienze e le emozioni conteranno più delle cose. E servirà maggiore protezione per i più fragili»: così esordisce Gilles Morel, vicepresidente della Whirlpool, in una recente intervista per La Repubblica. Peccato che da questa constatazione Morel non faccia conseguire nulla di nuovo. Sarà un mondo diverso, ma lo stabilimento di Napoli chiude lo stesso: «E’ deciso», dice perentorio il numero 2 di Whirlpool, mentre dichiara che il gruppo è pronto a ripartire dal 15 aprile in tutta Italia, in barba al decorso ancora grave dell’epidemia.
Dunque, se prima ci fosse stata qualche possibilità che la Whirlpool tornasse sui suoi passi, pare che la pandemia e la recessione mondiale debbano dileguare ogni speranza.
Perdonate la brutalità, ma non sono considerazioni di chi scrive: prendiamo atto del tono perentorio e impietoso dei vertici della Whirlpool che dal 31 maggio 2019 ad oggi, tavolo dopo tavolo, sono restati inequivocabilmente sulle proprie posizioni. Dal 31 maggio ad oggi, con una differenza: se prima l’economia reale era già in fase di rallentamento al livello globale portando una giustificazione contestabile alla Whirlpool, oggi è in caduta libera, con cali previsti nel PIL mondiale fino al 10% nel corso dell’anno. Una catastrofe senza precedenti per i lavoratori, una situazione favorevole per le multinazionali per re-localizzare le produzioni, un’occasione d’oro per la Whirlpool per andare via da Napoli senza condizioni.
L’emergenza sanitaria e l’interruzione repentina delle catene transnazionali del valore impongono alle aziende di cercare catene di fornitura più resilienti. Al momento sembra che si assista a una diversificazione della delocalizzazione – tendenza già in atto da tempo, come ha mostrato un recente sondaggio di Bank of America Data Analytics su 3 mila gruppi del mondo avanzato – che tende ad approfondire e non a ridimensionare la globalizzazione. In pratica sono i paesi dell’Est asiatico, e l’India in particolare, a raccogliere le maggiori attenzioni dei grandi gruppi, alla ricerca di altri paesi in cui spostare le proprie attività; anche se continua il fenomeno di reshoring delle aziende statunitensi, che trovato in Messico e Canada terreni fertili per costo del lavoro, bassa fiscalità e accordi commerciali vantaggiosi.
In questa situazione l’ipotesi che la Whirlpool resti a produrre a Napoli non è cedibile. Ma ciò, lungi dal farci considerare chiusa la vertenza, ci impone di considerare con il massimo realismo le varie ipotesi in campo per continuare la vertenza e vincere.
L’Italia, l’Europa, il mondo interno entrano in una fase nuova della loro storia economica. E con essi inevitabilmente vengono travolti i destini delle vertenze ad oggi in corso. Già prima della pandemia la strategia adottata dai vertici nazionali dei sindacati Fiom, Uilm e Fim non dava molte garanzie di vittoria, basandosi sostanzialmente sulla concertazione tra parti, sulla proposta di sgravi fiscali e, in generale, sulla ri-contrattazione degli incentivi statali in occasione del rinnovo del piano di investimento della Whirlpool nel dicembre 2020. I sindacati hanno sostenuto la lotta operaia con tenacia e questo gli fa onore, ma la loro era una strategia debole al cospetto della Whirlpool perché qualunque cifra lo Stato potesse offrire all’azienda era sempre poca cosa rispetto alla riduzione di netto dei costi strutturali che il gruppo poteva ottenere cedendo il ramo d’azienda. Era una strategia debole perché lo Stato non aveva strumenti coercitivi per impedire alla multinazionale di lasciare lo stabilimento di Napoli, mentre l’Unione Europea limitava drammaticamente i margini di agibilità politica, impedendo – secondo i trattati – l’intervento diretto dello Stato in termini di acquisizione, statalizzazione, rilancio pubblico della produzione industriale. Era debole, ancora, perché ben poca cosa erano le perdite economiche causate al gigante del bianco dagli scioperi, ahimè sporadici ma importanti, che hanno coinvolto i 5 stabilimenti del gruppo. I sindacati hanno raggiunto durante la vertenza risultati importanti in termini di mobilitazione, ma loro malgrado disponevano di un potere di negoziazione assai scarso. Per far male alla Whirlpool, bisognava rendere ingovernabili gli operai di tutto il gruppo, che conta ben 4 stabilimenti in regime di solidarietà da anni, e farli rientrare in una mobilitazione generale e permanente, cosa forse difficilissima per gli stessi sindacati dopo trent’anni di frammentazione delle classi lavoratrici. A quel punto era forse il caso di tradurre la lotta sindacale contro la Whirlpool in lotta politica della classe operaia contro il Governo, per richiedere l’intervento diretto dello Stato a salvataggio dello stabilimento, trasformare gli scioperi del gruppo Whirlpool in scioperi di categoria a contenuto politico per chiedere al Governo una svolta determinante nella risoluzione del caso Whirlpool e il rilancio della produzione industriale.
Già prima, dunque, di fronte all’ostinazione dell’Azienda che continuava a proporre come unica soluzione credibile la cessione dello stabilimento di Napoli alla PRS, società fantasma con sede in Svizzera, s’imponeva la necessità di un piano B, onde evitare di fare la misera fine della Ex Embraco di Riva di Chieri e della Ex Whirlpool di Amiens, entrambe cedute a società fittizie – la Ventures e la WN – che hanno ricevuto 20 milioni di euro dalla Whirlpool per realizzare progetti di riconversione che infine si sono rivelati una truffa clamorosa, col risultato che la Whirlpool ha smantellato le catene di produzione, la riconversione non è mai iniziata, e dopo un anno o due gli operai sono stati scaricati al loro destino (la WN ha addirittura dichiarato fallimento dopo aver fatto dileguare i milioni ricevuti dalla Whirlpool).
D’altra parte il Governo sembrava aver accettato ante tempo la propria sconfitta di fronte alla multinazionale statunitense, delegando l’affare a Invitalia – come spesso è accaduto per altre crisi industriali , nella ricerca di acquirenti privati che rilevassero la produzione di lavatrici del sito napoletano o s’impegnassero in imprecisati progetti di riconversione. Ma sappiamo da esempi pregressi come simili situazioni siano state gestite da Invitalia e quali esiti abbiano avuto. Lasciamo i lettori approfondire autonomamente le storie della Ex Irisbus di Flumeri e della Blutec di Termini Imerese, entrambe passate sotto la gestione di cordate d’imprenditori italiani e stranieri, entrambe destinate al rilancio produttivo tramite o senza riconversione e con il contributo di Invitalia, entrambe oggetto di scandalo per gli affari speculativi di taluni investitori implicati e la scomparsa di decine di milioni di euro denaro pubblico. In entrambi i casi, infine, dopo lo smantellamento degli impianti, la massiccia riduzione del personale (alla Blutec si passò da 650 operai ad appena 140 impiegati) e il regime di cassa integrazione, la produzione non è mai ripartita, mai alcuna riconversione realizzata, i lavoratori superstiti abbandonati nell’incertezza e nella precarietà economica. Il problema è che Invitalia è uno strumento poco se non del tutto inefficace, soprattutto quando si tratta di acquisizioni di impianti industriali e di riconversioni, poiché se molti sono già i rischi intrinseci a operazioni del genere che non hanno già bell’e pronto un mercato cui destinare i nuovi prodotti, ancora più incerte esse divengono di fronte alla difficoltà di impedire speculazioni e truffe da parte di privati nascosti dietro società fantasma (truffe e speculazioni che di fatto ci sono state alla Ex Embraco, alla Blutec e alla Ex Irisbus).
Se non bastassero gli esempi del passato a farci dubitare dell’efficacia dell’ipotesi Invitalia + nuovo acquirente, dovremmo se non altro rivolgerci all’analisi della situazione economica mondiale, la quale non è di certo un’opinione arbitraria, ma una constatazione basata su dati oggettivi. E questi dati ci dicono – secondo uno studio di Prometeia citato dal Sole24Ore[1] – che nell’industria italiana per il 2020 si prevede un crollo del 13,8% dei profitti in un mix devastante di stop dell’offerta e di blocco della domanda a livello globale. Come se d’improvviso si cancellasse un terzo del nostro export su 12 mesi, per un totale di 159 miliardi di euro bruciati e perdite importanti nei mercati. E il recupero comunque sarà minimo per l’anno successivo: solo un guadagno del 3,1% nei ricavi della manifattura per il 2021, meno di un quarto rispetto alle perdite del periodo precedente. E a tener fede allo studio citato, il settore degli elettrodomestici non è immune da questa depressione. La crisi economica in corso compromette gravemente l’export dei prodotti manifatturieri italiani e fa crollare la profittabilità degli investimenti: chi mai rileverà la produzione di lavatrici del sito di Napoli? Chi s’inoltrerà in difficili progetti di riconversione se non i soliti speculatori ai quali le crisi non producono mai perdite, ma lauti profitti? Il rischio è troppo alto.
Ora, dunque, in questa situazione il piano B diventa verosimilmente l’unico piano a disposizione. Ed esso prevede, ieri come oggi, il passaggio dalla concertazione tra parti sociali alla contrattazione con il Governo per provvedimenti che interessino l’intervento diretto dello Stato nell’acquisizione e nel rilancio del sito napoletano. Con una differenza rispetto al passato: e qui è il punto decisivo. Se prima infatti il Governo giallo-rosso – ideologicamente liberista e politicamente subordinato all’U.E. – poteva dire per bocca del suo portavoce Patuanelli, senza troppi scandali per l’opinione pubblica (anche se a noi poveracci la cosa era sembrata già allora oltremodo scandalosa), che l’esecutivo giocava una partita contro “senza centravanti”, ovvero senza strumenti per risolvere il “caso Whirlpool”, adesso ripetere questo mantra neoliberale sarebbe un crimine di dogmatismo ideologico e di classismo politico. Perché?
In questo momento si apre uno spazio di possibilità e di sperimentazione senza precedenti negli ultimi trent’anni. La Commissione europea, per l’eccezionalità della situazione, ha sospeso in via transitoria il vincolo del 3% imposto dal Patto di Stabilità e ha concesso agli stati membri di intervenire direttamente nell’economia con provvedimenti straordinari almeno fino alla fine di dicembre 2020. Questo significa che ad oggi non ci sono vincoli né limiti opposti dall’U.E. all’intervento dello Stato, né preoccupazioni possibili concernenti il bilancio: la cosa più preoccupante è, da un lato, l’affossamento dell’economia reale, della produzione industriale e dei servizi ad essa legati, su cui ad oggi si regge una buona parte del PIL italiano, e, dall’altra, l’aumento della disoccupazione. È il momento, dunque, di subentrare ai privati nella produzione industriale con un piano statale per rilanciare e rendersi autonomi nelle produzioni essenziali. È il momento di acquisire e riconvertire gli stabilimenti in crisi che possiamo ritenere strategici per lo sviluppo dell’industria italiana e per conquistare nuove fette di mercato, che si aprono in questa nuova congiuntura economica. Certo, ad ora questa flessibilità è possibile da qui al prossimo dicembre, dopodiché si tratta di contrattare in Europa con determinazione per salvaguardare le conquiste ottenute.
Questa affermazione non è affatto rivoluzionaria, anzi, quasi ci si vergogna ad esprimerla. Il liberista più feroce d’Europa, ad esempio, Emmanuel Macron, presidente della Francia, ha già stanziato 4 miliardi per rendere la Francia progressivamente indipendente nella produzione di mascherine, ventilatori e respiratori, settori in cui, neanche a dirlo, prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria la Cina era leader mondiale.
Perché lo ha fatto? Diversi e tutti evidenti sono i motivi: 1) è costoso dipendere dagli altri paesi per l’importazione di questi prodotti, costoso in termini economici e di vite umane (perché troppo lente sono le forniture); 2) dovremo fare i conti con questa epidemia finché non troviamo un vaccino, ovvero presumibilmente per 12-18 mesi, anche se lo sviluppo dell’epidemia può riservare sorprese, il virus può scomparire da sé o tornare in inverno, ma tendenzialmente i coronavirus sono virus endemici, ovvero tendono a stabilizzarsi tra le popolazioni ospitanti; 3) l’epidemia provoca l’interruzione delle catene transnazionali di produzione e di scambio, con relativa impossibilità di rifornimenti di beni e prodotti vitali in periodi di emergenza sanitaria, ne consegue che rendersi autonomi in produzioni sanitarie essenziali significa tutelare l’economia e la salute della popolazione.
Per quanto riguarda l’Italia, quindi, a fronte di una struttura industriale importante da tutelare e rilanciare, e considerata l’apertura straordinaria che viene da Bruxelles, è imperativo creare immediatamente una nuova IRI e un piano di rinascita industriale e di rilancio dell’occupazione che passi per la requisizione o l’acquisizione con indennizzo e quindi la riconversione statale e la gestione pubblica di pezzi dell’industria, a partire da settori e rami di produzione di beni essenziali, dalle produzioni sanitarie alle energie alternative alle produzioni della catena agro-alimentare. Si tratta di far fronte a situazioni indebite di delocalizzazione o di cessione delle attività o a ristrutturazioni che scompongono i rami di azienda, abbandonando stabilimenti e decimando la manodopera. Sarebbe questo un modo per tutelarsi dagli speculatori di ogni sorta e prevenirsi da nuovi movimenti delle grandi aziende che già da anni spostano servizi e produzioni dall’Italia e dall’Europa verso altre parti del mondo.
Pensiamo, ad esempio, alla Whirlpool di Napoli, una fabbrica di eccellenza con manodopera qualificata e tecnologie avanzate. Pensiamo alla Ex Embraco di Riva di Chieri e alla Blutec di Termini Imerese, dove l’intervento di Invitalia, come abbiamo detto, non ha impedito a una cordata di imprenditori con leadership italiana di speculare sulle vite di centinaia di operai in una riconversione truffa mai realizzata.
Ma affinché tutto questo sia possibile è necessaria la volontà politica di chi ci dirige, ovvero, in mancanza di questa, è necessario che lavoratori e sindacati credano in questa possibilità e lottino per imporre una svolta epocale al Governo. Non limitandosi a elemosinarla, poiché lo abbiamo imparato ormai: i liberisti hanno la testa dura e non fanno concessioni sulla scorta di buoni sentimenti o di evidenze logiche. Se vogliamo salvarci il culo e salvare il futuro della nostra gente dovremo lottare, cambiare il nostro modo di praticare il sindacalismo abbandonando la concertazione tra parti e generalizzando e radicalizzando gli strumenti del conflitto, gli scioperi di categoria e prevedendo – a imitazione dei cugini francesi – la possibilità di scioperi generali per chiedere al Governo: 1) la costituzione di un’agenzia nazionale per l’industria che si occupi della nazionalizzazione e della riconversione statale degli stabilimenti in crisi; 2) un piano industriale di sviluppo e di rilancio pubblico della produzione in genere (e quindi dell’occupazione) a partire dai settori sanitario, alimentare e delle energie alternative.
La pandemia ci pone di fronte a sfide nuove: emergono problemi di approvvigionamento delle risorse essenziali, la sanità ritorna al centro dell’intervento dello Stato, le catene internazionali di rifornimento e di produzione vanno incontro a smottamenti imprevedibili, e la scienza dimostra in maniera sempre più chiara la coincidenza della distruzione della bio-diversità tramite l’industria e lo sfruttamento intensivo di terreni e allevamenti e l’insorgenza di nuovi virus capaci di colpire l’essere umano. Ovunque emergono fuori decenni di disuguaglianze e di precarietà. E tutto questo dimostra inequivocabilmente il fallimento del “libero mercato” e delle ideologie “neoliberali”. Dovremo mettere in discussione radicalmente il mondo in cui viviamo, pensare a politiche economiche che rimettano al centro lo stato e subordinino a esso le imprese, limitino la mobilità dei capitali, rilancino l’occupazione e ripensare il sistema fiscale tassando i grandi patrimoni e le transazioni finanziarie per ridistribuire ricchezza dall’alto verso il basso; e soprattutto non dovremo sederci più al tavolo con chi ci ha sfruttato, affamato e costretto a lavorare anche durante l’epidemia, favorendo la diffusione del contagio pur di mantenere intatti i propri profitti.
[1] https://24plus.ilsole24ore.com/art/nell-industria-italiana-voragine-ricavi-vale-159-miliardi-ADWEgVI?s=hpl