OSARE LOTTARE, OSARE VINCERE! TRACCIA PER LA DISCUSSIONE DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE DEL TAVOLO LAVORO DI POTERE AL POPOLO! – BATTIPAGLIA, 24 FEBBRAIO 2019
Lo stato dell’arte
A Gennaio 2019 i tavoli di crisi aperti al MISE erano 138. Parliamo di una cifra enorme: ognuno di questi tavoli nasconde il dramma di famiglie che restano senza lavoro e territori che perdono il diritto al futuro. 138 tavoli equivalgono a 210000 dipendenti che rischiano il posto: l’impatto sociale della crisi in atto è devastante.
Tra le aziende in crisi o chiuse ci sono nomi del calibro di Pernigotti, Hag, Ilva, Alitalia, Piaggio Aero, Acciai Speciali Terni, Alessi e nomi meno famosi ma altrettanto importanti come la Bekaert, la Treofan, il call center Abramo e prima Almaviva, vertenza che abbiamo il dovere di non dimenticare per il valore simbolico che ancora rappresenta. Se andiamo indietro nel tempo il quadro che emerge è quello del collasso del sistema produttivo italiano, devastato da decenni di privatizzazioni selvagge di aziende sane, pubbliche, regalate a sciacalli senza progetto e senza competenze.
A questo bisogna aggiungere l’ondata di esternalizzazioni che, dopo i disastri nel lavoro privato, ha riguardato anche tutto il lavoro pubblico, depotenziandolo sia dal punto di vista della qualità del servizio offerto sia come baluardo contro la precarizzazione e la disoccupazione. È successo anche di peggio: le logiche del lavoro privato sono penetrate nel pubblico, tanto in termini di controllo e repressione quanto per il fatto che, ad oggi, lo Stato e le sue società controllate sono il principale datore di lavoro precario.
Se il lavoro dipendente piange, quello autonomo non ride: dietro questa parola si nascondono sempre di più sfruttamento, basse paghe, finte partite IVA, milioni di persone, spesso figli della classe lavoratrice di questo paese, che a costo di immani sacrifici hanno avuto accesso a professioni un tempo appannaggio esclusivo delle classi dominanti e che oggi si ritrovano in condizioni a volte anche peggiori di quelle del lavoro “ufficialmente” dipendente.
In questo quadro non deve stupire che le previsioni di crescita dell’Italia per il 2019 siano le più basse di tutta la zona euro, e che l’Italia di fatto sia l’unico paese a non essere uscito dalla crisi. Non devono stupire nemmeno i vergognosi livelli salariali, finiti al centro dei riflettori per “merito” della polemica di Boeri e Confindustria contro il reddito di cittadinanza. Se nel nostro paese, infatti, resiste solo il lavoro “povero”, dequalificato, i salari si adeguano: l’adeguamento al ribasso è stato avvantaggiato anche da una legislazione che ha spalancato le porte alla deregolamentazione contrattuale, nonché dai continui cedimenti in materia di salario e diritti da parte di sigle sindacali che troppo spesso non hanno tenuto la barra diritta sugli interessi del mondo del lavoro, indebolendo strutturalmente la contrattazione come strumento per la difesa dei livelli acquisiti. Il lavoro povero e precario si somma alla disoccupazione, ormai stabilmente sopra il 10%, e all’avanzata della povertà – quella assoluta è più che raddoppiata in soli dieci anni.
Un lavoro povero e precario è anche un lavoro insicuro e mortale: nel 2018 i morti sul lavoro sono stati 704, quasi il 10% in più del 2017. Se si contano anche – come si dovrebbe e come fa l’INAIL – quelli morti per raggiungere il posto di lavoro, si arriva a 1450, la cifra più alta da dieci anni. A morire sono soprattutto agricoltori ed edili, e quasi sempre lavoratori e lavoratrici delle ditte in appalto, a dimostrazione che precarietà fa rima con insicurezza.
In un quadro caratterizzato da una crescente fragilità del mondo del lavoro, sono sempre i soggetti maggiormente discriminati a pagare il conto più salato: parliamo delle donne e dei migranti. Nonostante le cicliche e roboanti dichiarazioni in materia, l’Italia resta fanalino di coda in Europa per il cosiddetto gender gap. Il dato più eclatante è la differenza salariale media: secondo i dati forniti dal World Economic Forum, il salario medio di una donna è di 28.800 dollari annui, quello di un uomo di 50.500. Una distanza enorme, che si spiega con le discriminazioni nel campo dell’istruzione, della formazione, del welfare, dei contratti: sono di più gli uomini laureati in scienze economiche, dell’amministrazione, in campo legale o tecnico ingegneristico rispetto alle donne, ed è molto alto il gap in materia di persone impiegate nell’ambito dell’intelligenza artificiale; il 40,3 % delle donne è impiegato part-time, contro il 16,2 % degli uomini; il 69 % dei dirigenti sono uomini contro il 31 % di donne; anche a parità di mansione, le donne guadagnano meno. Per quanto riguarda i lavoratori immigrati, gli ultimi interventi legislativi li lasciano precipitare, ancor più di prima, in condizioni di vero e proprio ipersfruttamento: il “combinato disposto” delle leggi sul lavoro e del decreto sicurezza respinge anche quei pochi che riuscivano ad emergere da una situazione di disagio in condizioni di estrema precarietà lavorativa, in cui tutti gli indicatori e tutti i dati vanno rivisti drammaticamente al rialzo. Gran parte del lavoro migrante è lavoro nero, o grigio, e quindi rifugge dalle statistiche, ma sono purtroppo le cronache a ricordarcene la drammaticità.
La risposta del Governo
Il partito di maggioranza della compagine governativa, quel Movimento 5 Stelle che sull’onestà e sul cambiamento ha vinto la campagna elettorale, è stato premiato essenzialmente dal voto del lavoro dipendente, precario, povero, profondamente deluso da quanto fatto contro la classe lavoratrice dai governi precedenti. La prima risposta alla fiducia ricevuta è stato un timidissimo decreto, denominato “Dignità”, che, nell’intento annunciato di porre un argine alla deregolamentazione selvaggia impressa dal Jobs Act, ha partorito un topolino insignificante se non pericoloso soprattutto perché la questione della precarietà resta drammaticamente intatta. Non volendo, infatti, affrontare alla radice il problema, attraverso il ripristino delle tutele del vecchio articolo 18 e la messa in campo misure per disincentivare davvero il ricorso a contratti atipici e precari, il decreto si limita a ripristinare le causali per i contratti a termine e a ridurre la durata massima di ricorso a questa tipologia di contratti a 24 mesi, senza fare nulla per imporre, di fatto, la regolarizzazione dei rapporti di lavoro dopo che per ben due anni si sono assunte persone a tempo determinato. La fretta e l’approssimazione di questo decreto al momento hanno determinato un effetto potenzialmente peggiore della situazione precedente: non essendoci alcun tipo di misura che spinga gli imprenditori a confermare coloro del cui lavoro per due anni si sono serviti, il rischio è quello che migliaia di lavoratrici e lavoratori si trovino licenziati con un anno di anticipo, mentre subito dopo l’impresa può riassumere nuovo personale (o reimpiegare il vecchio, cambiandone le mansioni). In Calabria le operatrici e gli operatori del call center Abramo, già nominato, lo sanno bene, perché questo è ciò che hanno già subito.
La legge di bilancio 2019 è un altro topolino partorito da una montagna di discussioni e di roboanti proclami sulla povertà da sconfiggere. Di fatto, si tratta di una manovra non espansiva, che accompagna la recessione del paese con “pannicelli caldi”, quale lo stanziamento per il reddito, che nella migliore delle ipotesi servirà ad attutire gli effetti negativi della congiuntura, ma non avrà nessun potere di contrastarla. Contemporaneamente, i tagli ai finanziamenti all’INAIL certificano che al Governo non interessa che nel 2018 siano stati 1133 gli incidenti sul lavoro con esito mortale, il 10% in più dell’anno precedente: il lavoro pessimo, a investimenti zero, significa anche un lavoro per cui sempre più facilmente si muore.
La mini flat-tax sulle partite IVA entro un certo limite di imponibile apre la porta in primis ad altra evasione, in secondo luogo all’aumento dei cosiddetti falsi autonomi, nonostante i vincoli sulle trasformazioni previsti dalla legge: non è difficile immaginare che le imprese troveranno i modi per convertire in “collaboratori” ex dipendenti, con un risparmio enorme sulle imposte e i contributi. Veniamo infine al provvedimento principe della propaganda a 5 Stelle, il cosiddetto Reddito di Cittadinanza: per come è strutturata, la misura, lungi dal contrastare, legittima il lavoro pessimo, dal momento che prende in considerazione soltanto la distanza per valutare la congruità dell’offerta lavorativa. Tutto il resto – tipo di contratto, salario, mansioni – non conta: se rifiuti un lavoro di merda perdi il sussidio.
E di lavori di merda, nel nostro paese, ce ne sono, come abbiamo detto, a bizzeffe: ce l’ha ricordato Confindustria che in pratica ha avvisato che, vista la miseria dei salari pagati, chi prenderà il reddito preferirà tenerselo finché sarà possibile piuttosto che andare a lavorare.
Insomma, siamo di fronte ad una manovra recessiva, che oltretutto ha ben pensato di sospendere sul destino degli unici due provvedimenti “sociali” – reddito e cosiddetta “quota 100” – la mannaia delle clausole di salvaguardia, che non solo rischiano di cancellare le spese previste per queste misure, ma possono anche aprire la porta a nuovi pesantissimi tagli nel salario indiretto, partendo dalla sanità.
La nostra piattaforma
Potere al Popolo, da Giugno, caratterizza le sue manifestazioni con uno slogan: “Prima gli sfruttati”. Per noi, il lavoro dignitoso, ben pagato, di qualità, orientato alla produzione innovativa di merci utili per il benessere e non per il profitto, è al primo posto. La qualità del lavoro, in Italia, è stata devastata anche – ma non solo – dalle privatizzazioni: è per questo motivo che, dopo il crollo del Ponte Morandi e le promesse, subito rimangiate, dei 5 Stelle di intervenire con una nazionalizzazione di Autostrade, siamo tornati in piazza a Roma sulla parola d’ordine delle nazionalizzazioni. Che cosa intendiamo?
L’articolo 43 della nostra Costituzione afferma che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” Nulla di rivoluzionario, dunque, se non il richiamo ad un principio della Carta alla luce della violazione – ripetuta ed evidente – dei principi di utilità generale, in particolare per le imprese attive nei settori indicati dall’articolo, ma non solo. Dalla Costituzione sono passati oltre 70 anni, e in modo solo apparentemente paradossale i motivi per nazionalizzare la produzione sono aumentati invece di diminuire. Tra questi, emergono con particolare forza la necessità di sostenere l’innovazione tecnologica e di trasformare la produzione in direzione di una “compatibilità radicale” con l’urgenza di salvare il pianeta dalla distruzione antropica. Una “produzione verde” da un lato è assolutamente necessaria e improcrastinabile, dall’altro ha dei tempi e dei costi che possono essere sostenuti solo dalla collettività. Non può essere, in altre parole, la logica del profitto a guidare qualsivoglia transizione o riconversione: fisiologicamente, l’interesse economico privato si attiva solo quando la possibilità di guadagno è certa e immediata, condizioni che non possono in alcun modo ipotecare l’esigenza umana di ripensare radicalmente la produzione di merci.
Naturalmente, questo ripensamento implica che siano “i molti” e non “i pochi” a decidere sul cosa, come, quanto e perché produrre. Le lavoratrici e i lavoratori, le povere e i poveri, le sfruttate e gli sfruttati, in quanto maggioranza della popolazione umana hanno il dovere di tutelare la sopravvivenza della specie e del pianeta: è necessario quindi lottare per la libertà di decidere in merito al maggior agente inquinante della storia umana, la produzione capitalistica. Le nazionalizzazioni non rispondono immediatamente a questa esigenza, dal momento che gli Stati sono organi delle classi dominanti, ma nel contesto della lotta per l’emancipazione costituiscono un valido strumento propedeutico al cambio di passo, alla restituzione del potere decisionale al popolo. Non solo: come abbiamo appena scritto, la riconversione ecologica può avvenire solo al di fuori delle logiche del profitto perché ha costi, a volte elevati, che si ripagano con tempi lunghi. Solo gli Stati sono, ad oggi, nelle possibilità di sostenere gli investimenti necessari a fare questo. Chi critica l’intervento pubblico nell’economia finge di dimenticare che questo esiste già, dal momento che imprese come Apple, Microsoft, Google non sarebbero mai nate senza ingenti contributi a quelle che erano “start up”. In Germania si ragiona sull’ipotesi di creare un fondo per l’hi-tech, mentre nel Regno Unito il governo finanzia l’università di Swansea per le ricerche sul cosiddetto “acciaio verde”. Sono solo alcuni esempi, che però sostengono quanto affermiamo: le imprese vivono a spese della collettività, da tutti i punti di vista, sia “a monte” come investimenti che “a valle” come costi diretti e indiretti, ma le collettività non se ne avvantaggiano mai.
Per tornare all’Italia, lo strumento più recente per favorire l’innovazione – Industria 4.0 – è stato improntato alla concessione di possibilità di detrazione dei nuovi acquisti fino al 240%: in pratica per ogni computer acquistato lo Stato te ne ripagava, in X anni, due e mezzo sotto forma di sconti fiscali. L’intervento è stato un mezzo flop, se si considera che le uniche imprese in grado di anticipare la spesa per l’innovazione sono quelle medio grandi, minoranza nel paese, mentre le PMI, che impiegano l’80% della forza-lavoro, hanno aderito al piano solo per il 6-7%. E’ evidente che il piano non funziona, anzi è negativo perché si tratta di uno spreco di risorse economiche senza che ci sia la sicurezza dei risultati.
L’alternativa, dunque, è nazionalizzare: cosa? Innanzitutto quanto previsto dalla Costituzione, banche, servizi pubblici essenziali, energia; poi, tutte le imprese di eminente interesse generale, dai trasporti alle telecomunicazioni alla siderurgia. Infine, nel momento in cui molta parte della realtà produttiva italiana è stata vittima delle speculazioni finanziarie, è necessario che uno Stato che abbia interesse a tutelare i più deboli dovrebbe intervenire acquisendo imprese in crisi non per ragioni legate ai prodotti, che anzi sono costantemente ben venduti, ma per ragioni di speculazione finanziaria.
Solo in questo modo è possibile spendere in modo efficiente e controllabile i soldi pubblici, rilanciare l’innovazione, sottoporre la produzione ad un dibattito collettivo: rispetto al passato, infatti, e alla luce di quanto affermato in precedenza, il controllo operaio e popolare sulla produzione, in forme e modi da valutare, deve diventare fondamentale. Abbiamo tanti esempi di imprese che converrebbe nazionalizzare, da Alitalia a Irisbus, dalla Treofan a Bekaert, dalle aziende in crisi nell’agroalimentare a quelle che lavorano nell’hi-tech e nell’intelligenza artificiale.
La nazionalizzazione fa rima con le internalizzazioni: troppi servizi pubblici sono stati, negli anni, ceduti ad aziende speciali con criteri di gestione opachi, spesso finite per fallire, o direttamente a privati, spesso sotto forma di cooperative fittizie, il tutto adducendo a pretesto risparmi che in realtà non ci sono stati, anzi, i costi per gli enti locali aumentano, mentre puntuali si sono presentati il peggioramento dei servizi e il mancato rispetto dei contratti. La stessa cosa accade nel privato, dove per ridurre le responsabilità e i costi sempre più attività, tradizionalmente interne al processo produttivo, vengono riconfigurate come servizi – manutenzione, pulizia, logistica – ed affidate a “cooperative” col risultato, quando va bene per loro, di comprimere costi per l’azienda, salari e diritti per i lavoratori. Gli esempi più eclatanti sono certamente quelli dei call center – che spesso lavorano per la committenza pubblica – e della movimentazione e stoccaggio merci.
Internalizzare i servizi significa spendere di meno ed avere un lavoro migliore; battersi per internalizzare attività connesse alla produzione di merci significa unire quelli che il capitale divide, lavoratrici e lavoratori che stanno fianco a fianco ma dipendono, “formalmente” da padroni diversi, fanno servizi diversi. Gli esempi nel pubblico sono infiniti, dai trasporti alla manutenzione dell’ambiente urbano, passando per il lavoro di cura, l’assistenza sociale, la gestione del patrimonio immobiliare. Per quanto riguarda il privato, la battaglia va fatta per unire tutte e tutti coloro che lavorano per la stessa impresa, direttamente o meno, che contribuiscono alla produzione della medesima merce e che vengono tenuti artificialmente separati.
Le due questioni della nazionalizzazione e dell’internalizzazione vanno di pari passo con la questione, enorme, del salario. È necessario, in questo caso, aprire diversi fronti di lotta. Da un lato, sul piano della contrattazione nazionale, occorre battersi contro la frammentazione dei contratti, il secondo livello, la territorializzazione e ogni divisione tra chi lavora; bisogna denunciare la truffa dei “bonus” o del cosiddetto “welfare aziendale” in cambio degli aumenti, e aggredire la jungla delle tipologie contrattuali andando alla radice, cioè all’abolizione del pacchetto Treu e di tutte le riforme – sia in materia di contratti che di trattamento pensionistico – che gli sono seguite.
Occorre aprire una riflessione sulla galassia del lavoro autonomo – che spesso non lo è – parasubordinato, in “collaborazione”, per garantire anche a questi milioni di lavoratrici e lavoratori diritti certi ed esigibili e paghe adeguate, andando innanzitutto a smascherare il lavoro subordinato “nascosto”e lottando per l’equo compenso, l’estensione degli ammortizzatori, l’abolizione degli ordini e delle casse di previdenza separate.
Vanno tutelati i salari ripristinando un reale adeguamento al costo della vita e va aperta una riflessione, nel mondo del lavoro, sulla questione del salario minimo legale: tanti organismi, a cominciare dalla CGIL, sono storicamente contrari, per ragioni anche fondate – svuotamento del potere contrattuale del lavoro organizzato – ma riteniamo doveroso confrontarsi per valutare, al di là delle posizioni storicamente determinatesi, se e come sia possibile ed utile arrivare ad una determinazione salariale a mezzo di legge, accompagnata da un ulteriore intervento legislativo in materia di forme contrattuali. Solo coniugando contratti stabili e salari adeguati è possibile accedere ad un lavoro dignitoso.
Il nodo del salario non si scioglie separatamente dal nodo della riduzione dell’orario di lavoro.
Entrambi si legano, oltretutto, alle questioni poste all’inizio e relative alla necessità di ripensare la produzione di merci, di riprendere parola sul tema. Non è possibile né accettabile che, in un contesto in cui l’avanzamento tecnologico e l’innovazione produttiva permetterebbero di produrre in modo più efficiente, ecologico, rispettoso della vita dell’essere umano, delle altre specie viventi e dell’ambiente, alla metà del tempo necessario anche solo 50 anni fa, tutto ciò sia cancellato dalle esigenze di profitto di un pugno di uomini dai patrimoni miliardari. La battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, terreno classico di scontro tra le classi, diventa a maggior ragione di stringente attualità oggi, laddove non esiste in assoluto nessun ostacolo, ammesso che ne siano esistiti prima, se non l’inestinguibile fame di chi si arricchisce sulle spalle del lavoro.
Liberare il lavoro, liberare il tempo di lavoro, significa cercare i modi per farlo subito, senza aspettare di vincere sul piano della ristrutturazione del modello produttivo. È per questo che salario e orario si legano al discorso, molto in voga negli ultimi anni, del reddito. Non riteniamo che una misura del genere, senza affrontare tutte le contraddizioni di cui abbiamo provato a parlare, possa essere in qualche modo risolutiva ed emancipatoria; riteniamo però che, in un contesto in cui la povertà nel nostro Paese, anche tra chi lavora, è raddoppiata in dieci anni, il tema del sostegno economico, svincolato dal lavoro, a garanzia di una vita veramente dignitosa sia ineludibile. La misura del Governo è quanto di più lontano ci possa essere sia dal cosiddetto reddito universale, sia da una “banale” misura di contrasto alla povertà: anche su questo tema, dunque, riteniamo utile aprire il confronto.
Su questi nodi Potere al Popolo apre la discussione con tutte e tutti i soggetti interessati, in vista del fatto che il castello di carte governativo crollerà presto, e che è urgente e necessario lottare sulla base di una tattica e di una strategia credibili.
Ci confronteremo con lavoratrici e lavoratori di diverse parti d’Italia, domenica 24 Febbraio 2019 a Battipaglia, in solidarietà con le lavoratrici e i lavoratori in lotta della Treofan e di tutte e tutti gli altri che rischiano di perdere il posto. Dal tavolo usciranno proposte operative per fare in modo che, ovunque noi siamo, il lavoro torni ad essere terreno centrale di agitazione, propaganda, organizzazione e intervento politico.
POTERE AL POPOLO!