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[TARANTO] LA RIVOLUZIONE ECOLOGISTA: RIFLESSIONI RISPETTO ALLA SENTENZA DEL TAR DI LECCE SULLA QUESTIONE EX-ILVA

Il 13 febbraio il TAR di Lecce ha pubblicato la sentenza riguardo al ricorso di Arcelor Mittal contro l’ordinanza del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, emessa nel febbraio 2020[1]. L’ordinanza del sindaco obbliga Arcelor Mittal Italia e Ilva in amministrazione straordinaria a spegnere entro 60 giorni l’area a caldo dello stabilimento, individuata come fonte principale di inquinamento.
Il TAR di Lecce, scrutinando le posizioni di tutte le parti processuali, ha emanato una sentenza decisamente progressiva, dando concretezza ad una esigenza che risolve un punto di stallo politicamente inqualificabile, confermando la validità della ordinanza sindacale e respingendo le richieste delle Società responsabili delle emissioni inquinanti denunciate.

La sentenza del Tar ha però spiazzato la stessa amministrazione comunale di Taranto e l’intero orizzonte politico. Nelle settimane successive tutte le forze politiche, da destra a “sinistra”, si sono affrettate a costruire una retorica sulla questione. Nascondendosi dietro slogan, hanno, da una parte, fatto i difensori delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’economia nazionale. Dall’altra, hanno rivendicato la centralità della transizione ecologica per il neonato governo Draghi. Quali elementi della sentenza hanno determinato una reazione così concitata e confusa nelle parti politiche?

Arcelor Mittal ha chiesto al Consiglio di Stato di sospendere in via cautelare l’ordine di spegnimento dell’area a caldo.
La richiesta di sospensiva è stata accolta sul presupposto della irreversibilità del processo di spegnimento, quando il merito della decisione del Tar Lecce dovrà essere discusso il 13 maggio.
La concessione della sospensiva era prevedibile e non sorprende un esito che, a tutto voler concedere, consentirebbe al Governo di assumersi la responsabilità di accompagnare la transizione conseguente allo spegnimento.
Arcelor Mittal, nel frattempo reclama dal Governo un prestito garantito di 400 milioni, per consentire l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale.
Eppure Draghi aveva preannunciato che per le aziende decotte non ci sarebbe stato nessun sostegno, mentre il Ministro dello Sviluppo economico Giorgietti ha detto che per l’Ilva occorre avviare una “soluzione definitiva” e siccome lui è cresciuto nel Fronte della Gioventù, probabilmente intendeva “soluzione finale”.

La domanda alla base della nostra riflessione è però un’altra:
Per quale motivo la sentenza del Tar deve essere considerata un punto di partenza fondamentale per Potere al Popolo e per una lotta che possa dirsi ecologista?

Questo è quanto vogliamo mettere in luce in questo breve documento.

Rilevanza giuridica
Negli anni Settanta l’Italia aveva conosciuto una stagione giudiziaria durante la quale alcuni magistrati, che con intento dispregiativo il giornalismo padronale aveva definito i “pretori d’assalto”, avevano interpretato la legge in un quadro di rapporti di forza meno favorevoli per le classi sociali più esposte, oppure meno favorevoli per la tutela degli interessi ambientali, determinando tutele concrete.
I pretori d’assalto elaborarono un diritto giurisprudenziale che aveva come fonte primaria il diritto costituzionale, attuando un concreto raccordo tra i diritti primari e i soggetti da tutelare, nel vuoto o nella incompletezza della legislazione ordinaria. Essi furono “accusati” di voler attuare una via giudiziaria al socialismo, e le loro interpretazioni, una volta confermate dalla Corte di Cassazione, trovarono approdo in una serie di riforme legislative progressive.
Non durò molto e negli anni successivi si avviò una reazione politica di contrasto, una vera e propria controriforma reazionaria che, attraverso il potere legislativo, si adoperò per sovvertire ogni singola tutela.
La magistratura, negli anni successivi e fino ad oggi, è parsa più orientata alla costante affermazione del proprio potere, piuttosto che alla prospettiva di inveramento della Costituzione in diritti individuali e collettivi.
Per decenni la giurisprudenza ha smesso di esprimere equilibrio nel contemperamento di interessi contrapposti, involvendo in una rigida applicazione di norme, ignorando troppo spesso le evidenti finalità anticostituzionali di molte leggi.
La sentenza del TAR Puglia – Lecce del 13.2.2021 sul “Mostro” di Taranto, segna un salto di qualità inaspettato perché si pone in controtendenza.
L’ordinanza sindacale era stata preceduta da una relazione dell’ARPA che con rigorosa analisi aveva riferito delle anomalie riscontrate, e su quei riscontri il Sindaco aveva inviato una richiesta specifica, invitando Arcelor Mittal ad eliminarne le cause. Arcelor Mittal avrebbero dovuto adempiere all’ordine ricevuto, ponendo in essere immediatamente una attività di controllo e monitoraggio, e invece, ha rivendicato che le emissioni denunciate, a suo dire, rientravano nei parametri indicati nell’AIA. E qui si è dipanato uno dei passaggi fondamentali della sentenza.
Il TAR ha affermato che i provvedimenti legislativi intervenuti per aggiornare e modificare le prescrizioni AIA nel corso degli anni, si erano inseriti in un quadro normativo improntato alla prevalente tutela dell’interesse economico alla produzione ma in danno delle esigenze alla tutela del diritto alla salute della popolazione residente, ed è proprio in questo passaggio che la Magistratura amministrativa ha riaffermato lo stato di diritto contro una giustizia di classe.
Il Sindaco di Taranto già in precedenza aveva richiesto il riesame dell’AIA sulla base dei Rapporti da Valutazione Danno Sanitario via via elaborati dall’ARPA, posto che il rischio sanitario era stato ampiamente sottovalutato nei decreti precedentemente intervenuti per adeguare i parametri AIA alle esigenze della produzione.
Il Ministero dell’Ambiente aveva accolto la richiesta del Sindaco e Arcelor Mittal, confermando di disattendere qualunque ipotesi di leale collaborazione, ha perfino impugnato con ricorso l’avvio del procedimento di riesame, confermando la propria ostilità alla adozione di cautele sanitarie.
Arcelor Mittal, dunque, ha affermato di non essere incorsa in anomalie per aver rispettato i parametri AIA, in spregio delle preoccupazioni e dell’allarme sociale connesso al rischio sanitario per le emissioni inquinanti.
Dunque la sentenza del TAR Lecce su questo specifico aspetto, ha segnato un altro importante passaggio, perché non si è articolata su interpretazioni supine e deresponsabilizzanti, ma anzi ha affermato che il rispetto dei parametri emissivi previsti in AIA non costituisce affatto una garanzia della esclusione del rischio o del danno sanitario.
In sintesi, l’impianto siderurgico aveva avuto una autorizzazione in conformità ai parametri normativi richiesti, aveva adottato un Sistema di Gestione Ambientale, era sotto costante controllo e monitoraggio degli enti preposti, ISPRA e ARPA, tutto in adesione alle previsioni AIA, ma tutto questo non è stato sufficiente perché l’impianto siderurgico resta privo di una valutazione preventiva di impatto sanitario, e questo è un punto dirimente perché il quadro sanitario epidemiologico della città è devastante.
Se la Costituzione consente, entro certi limiti, una compressione dei diritti ambientali e del diritto alla salute in favore di un rilevante interesse economico, occorre stabilire quale sia la misura oltre la quale il bilanciamento degli interessi contrapposti non risponde più né a ragionevolezza né a proporzionalità.
A Taranto il limite del bilanciamento tra gli interessi della salute e gli interessi economici è stato macroscopicamente calpestato, e le patologie oncologiche pediatriche, e non solo, sono state consapevolmente causate con indifferenza.
È proprio in quest’ultimo passaggio che alla rilevanza giuridica della sentenza si affianca la sua rilevanza politica.

 

Rilevanza politica
Se da un punto di vista giuridico è evidente il peso di un simile precedente per tutte quelle lotte che in Italia rivendicano la necessità di una reale valutazione dell’impatto ambientale da parte della grande industria e del sistema produttivo capitalista, dal punto di vista politico la sentenza del Tar sancisce definitivamente il significato profondo della lotta ecologista.
Nel documento viene infatti offerto uno spunto fondamentale per la costruzione di un modello nuovo di economia e di territorio. Con riferimento alla sentenza 85/2013 della Corte Costituzionale che sancisce la parità tra i diritti sanciti dalla Costituzione e l’equilibrio tra essi[2] la sentenza del Tar prende una posizione netta e politicamente rivoluzionaria:

“In rilevanza di quanto sopra deve ritenersi ammissibile e compatibile con i principi costituzionali una compressione entro limiti ragionevoli del diritto alla salute in favore di un rilevante interesse economico.

La Corte ha tuttavia precisato che tale bilanciamento in concreto deve necessariamente incontrare, rispetto al diritto alla salute, un ragionevole limite, limite che nel caso del siderurgico di Taranto risulta invece macroscopicamente violato, come di seguito evidenziato” (p. 38).

La premessa qui indicata conduce alla conclusione:
“Richiamando quanto già sopra evidenziato con riferimento al quadro sanitario ed epidemiologico (paragrafo X), rileva il Collegio che non ricorre nel provvedimento impugnato alcuna violazione del principio di proporzionalità, che in concreto risulta viceversa violato in danno della salute e del diritto alla vita dei cittadini di Taranto, che hanno pagato in termini di salute e di vite umane un contributo che va di certo ben oltre quei “ragionevoli limiti”, il cui rispetto solo può consentire, secondo la nostra costituzione, la prosecuzione di siffatta attività industriale” (p. 57).
Nei due passaggi citati è possibile mettere in luce la rilevanza politica della sentenza del Tar. Alla base della questione tarantina c’è infatti la tante volte citata centralità economica dello stabilimento ex-Ilva. La produzione dell’acciaio viene considerata e, soprattutto, propagandata pubblicamente come strategica per l’intera economia nazionale. Allo stesso tempo, però, dietro tale retorica non si nasconde soltanto l’obsolescenza di impianti vecchi e il debito contratto dal territorio di Taranto in anni di distruzione ambientale. Da un punto di vista concettuale, la salute viene considerata ancora un diritto da far coesistere con la produzione e l’ambiente è ancora relegato a pura dimensione di sopravvivenza climatica del mondo.
La sentenza del Tar per la prima volta pone a livello politico la necessità di considerare il territorio, le condizioni di salute e, di conseguenza, la tutela dell’ambiente come elementi imprescindibili. Fa questo non semplicemente in rapporto a un’eventuale valutazione di un ritorno per la città in cambio del sacrificio sanitario e ambientale, ma mettendo sotto accusa un intero sistema produttivo, legato alla grande fabbrica e considerato non più sostenibile.
In altri termini, la sentenza sancisce la sconfitta definitiva a livello politico di tutte quelle posizioni che continuano a sostenere la priorità della produzione nazionale rispetto alla centralità del territorio e dell’abitare. Essa, elevando a bene primario le condizioni di salute della popolazione, rivendica politicamente il legame indissolubile tra abitanti e territorio. Un legame diretto di appropriazione degli spazi che possa superare la sottrazione di questi ultimi finalizzata all’esercizio di una produzione diametralmente opposta, troppo consistente e soverchiante.
Questi elementi trovano maggiore concretizzazione in un concetto fondamentale che sentiamo qui il bisogno di richiamare: quello di “vita quotidiana”. Esso presenta le condizioni di vita e le pratiche libere dell’abitare e del vivere collettivamente come elemento normativo centrale per una società. Se – come affermato dal TAR – il diritto alla salute degli/delle abitanti ha priorità rispetto a un sistema produttivo il cui impatto ambientale è insostenibile, ciò dipende dal fatto che la tutela di una vita quotidiana fondata sulla giustizia e sull’equità costituisce il punto finale di ogni equilibrio costituzionale.
In linea con quanto appena detto, la denuncia di un sistema produttivo basato sulla grande industria porta con sé la risemantizzazione dei concetti stessi di “occupazione” e di “lavoro” e, nello specifico, di come le rivendicazioni e le tutele a essi collegate debbano essere declinate.

Quale lavoro vogliamo tutelare?
La questione ex-Ilva ci pone di fronte questo interrogativo fondamentale e trova nell’affermazione della priorità del diritto alla salute su quello alla produzione un precedente fondamentale. Non possiamo più accontentarci di tutelare il lavoro, ma dobbiamo obbligatoriamente interrogarci su quale tipo di lavoro tuteliamo e in che modo la sua forma sia o meno parte di quel sistema produttivo la cui insostenibilità è ormai elemento evidente empiricamente, politicamente e, dalla sentenza del TAR di Lecce in poi, anche giuridicamente.

 

Una sentenza per Taranto, un precedente per tutte le lotte ecologiste
Come Potere al Popolo vediamo nella sentenza del Tar un precedente fondamentale per tutte le lotte ecologiste in Italia. Essa non riguarda infatti solo la situazione tarantina, ma, in base a quanto abbiamo cercato di mettere in evidenza nei passaggi fin qui affrontati, esprime concetti giuridici e politici fondamentali per molte realtà italiane. Civitavecchia, Venezia, il Salento e tante altri territori trovano nelle loro specificità l’ennesima declinazione del sopruso capitalista: sottrazione del territorio alla propria quotidianità in favore del profitto generalizzato.
La questione riguardante il gas e, più in generale. riguardante i combustibili fossili, ad esempio, allarga ulteriormente il raggio d’azione tematico della sentenza del Tar.
Nelle pagine della Strategia Energetica Nazionale (SEN) e del Piano Integrato Energia e Clima (PNIEC), scritte dagli ultimi governi, è stata fissata al 2025 la data di chiusura di tutte le centrali a carbone ancora operative sul territorio nazionale. Questa cosiddetta Phase out del carbone non coinciderà però con l’abbandono dei combustibili fossili. Secondo i piani strategici nazionali infatti la transizione ecologica italiana verso la neutralità climatica dovrà essere accompagnata dall’utilizzo del gas e, per garantire la tenuta della rete in considerazione dell’attuale insufficienza delle fonti energetiche rinnovabili (FER), sarà necessario investire ancora miliardi di euro per costruire nuove centrali turbogas. Questa diceria secondo cui l’Italia sarebbe costretta ad utilizzare il gas per compensare la chiusura delle centrali a carbone  e garantire la sicurezza della rete nazionale, non è tuttavia supportata da dati reali.

Nel 2019 il picco di richiesta sulla rete nazionale è stato pari a 58,8 GW, mentre il totale della capacità di tutte le centrali installate ammontava a 119,3 GW, ovvero il doppio della domanda massima.  Più che la tenuta della rete – che avrebbe comunque bisogno di essere ammodernata – a correre rischi qualora si attuasse una vera transizione ecologica imperniata su progetti ad emissione zero, sarebbero quindi i profitti delle grandi aziende di produzione energetica operanti in Italia. Nessuno di questi grandi gruppi infatti intende rinunciare ai sussidi del capacity market, perverso meccanismo con il quale, dopo essersi aggiudicata un’asta gestita da Terna, una singola centrale turbogas si garantirebbe, a prescindere da ciò che effettivamente produrrà, 33.000 euro a mw, la capacità installata è considerata di vecchia generazione, o addirittura 75.000 euro se si tratta di nuovi impianti. Con questo sussidio pubblico regalato alle grandi aziende del fossile, gli investimenti sui nuovi impianti a gas sarebbero quindi interamente pagati dai cittadini attraverso le bollette e questo, come detto, anche se le centrali entrassero in funzione soltanto poche ore all’anno. Questa logica spiega molto più di tante parole cosa c’è veramente dietro ai faraonici progetti italiani che dai tubi di tap, agli hub del combustibile, al ccs, fino appunto alle nuove centrali, vedono nel gas, al di là di qualche retorico proclamo, non uno strumento necessario per accompagnare la transizione, ma un’incredibile fonte di guadagno.

In questo scenario si manifesta poi un’altra enorme criticità. Così come sta dimostrando la vertenza dei metalmeccanici di Civitavecchia, il passaggio dalle centrali a carbone ai nuovi impianti turbogas comporterebbe un drastico ridimensionamento al ribasso dell’organico diretto, indiretto e dell’indotto. Così, a fronte dell’utilizzo di un combustibile fossile inquinante e climalterante, questa volta si perderebbero anche tantissimi posti di lavoro.
Passando per Civitavecchia, gli interessi delle grandi multinazionali del gas arrivano sino nel profondo Salento. La comunità salentina ha assistito in questi ultimi quattro anni all’imposizione di un’opera – denominata TAP – spacciata come strategica, economicamente vantaggiosa, dall’irrilevante impatto ambientale, benefattrice di posti di lavoro. Come noto la realizzazione del gasdotto è avvenuta mettendo in campo una feroce repressione nei confronti di quanti, consapevoli dei danni reali e dell’inutilità di un’opera pianificata alle loro spalle dai governi europei seduti a tavolino con la dittatura azera, si sono ribellati alla sua installazione. Questo mega tubo che attraverserà tutta l’Italia ha portato in Salento all’eradicazione di centinaia di alberi secolari, ad una seria minaccia per l’habitat marino, al pericolo di avere a pochi passi dalla propria abitazione una centrale di depressurizzazione del gas (estesa per 12 ettari e distante 4 chilometri dalle prime abitazioni, in barba al vincolo che prevede un distanziamento minimo di 5 chilometri) che produce vapori ad elevato rischio esplosivo. Per aver rivendicato il diritto di tutelare il proprio territorio e le proprie vite e di essere interpellati in scelte che gonfieranno le tasche di qualche criminale capitalista ma che sarà la comunità a dover scontare, un centinaio di attiviste ed attivisti No Tap in questi mesi  sono andati a processo e per molti di loro nella sentenza di primo grado sono arrivate condanne pesantissime che vanno dai 3 mesi ai 3 anni.
La sentenza del TAR rappresenta un importante precedente anche per le lotte che rivendicano trasformazioni urbane e territoriali e un modello economico alternativo, capaci di mettere al centro il benessere degli abitanti e dell’ambiente di vita. Un caso emblematico è quello di Venezia. Una città al collasso per effetto dei cambiamenti negativi a livello ambientale e antropico causati dall’industria turistica che provoca un massiccio spopolamento, l’espulsione di abitanti meno abbienti, lavoro dequalificato, taglio dei servizi pubblici per residenti. L’entrata in Laguna delle navi da crociera degrada canali e fondamenta, provoca inquinamento dell’aria e del rumore, nuocendo in  primis alla salute dei cittadini. A questo si sommano opere inutili, dannose, incapaci di sostenere la prova costi-benefici, come il MoSe, l’inceneritore di Fusina, un nuovo stoccaggio GNL a Marghera in procinto di partire senza un piano di emergenza relativo ai rischi dell’impianto (RIR-Seveso III) e un terminal passeggeri nel Porto di Marghera, che dicono temporaneo, per l’attracco delle navi crocieristiche, che entrerebbero attraverso la bocca di Malamocco, quindi comunque in Laguna.  Un bando di concorso illegittimo per un progetto catastrofico che attraversa un polo chimico dichiarato sito a rischio  di incidenti rilevanti  (RIR-Seveso III), mette a rischio il già precario equilibrio idrodinamico e morfologico della laguna con  scavi e movimentazione di milioni di metri cubi di fanghi per lo più inquinati, determina una commistione di traffici diversi che compromettono la sicurezza della navigazione.
Il turismo a Venezia, come in altre città d’arte viene incentivato e portato a diventare una monocultura, in nome di un presunto beneficio economico, che non solo si traduce in degrado ambientale e sociale, ma che mette a repentaglio la funzionalità di una città e la sua capacità di superare la crisi economica, quella ambientale (l’acqua alta del 2019) o quella pandemica, perché completamente dipendenti da un solo settore economico. Associazioni, movimenti e cittadini guidati dal Comitato NoGrandiNavi sono da anni in lotta contro la monocultura turistica e l’entrata delle navi da crociera in Laguna. Nel giugno 2017 è stato anche indetto un referendum popolare autogestito, a cui hanno votato 18.105 persone (di cui 80% residenti veneziani), il 98% si è espresso contro le grandi navi in Laguna. Una volontà popolare continuamente ignorata a cui si aggiunge in questi giorni un ingiunzione di pagamento a tre attivist* di 14.000 euro complessivi, a seguito di una manifestazione pacifica sempre del 2017.
Il caso Tap, come quello di Civitavecchia e Venezia e quello tarantino, pongono in evidenza come sia costume propagandare retoricamente il primato del profitto economico a quello della salute e della tutela del territorio. Sebbene le contraddizioni ambientali descritte siano diverse tra loro, esse trovano nella sentenza del Tar il minimo comune denominatore, capace di mettere in evidenza la centralità che nella progettazione politica dovrebbe avere il diritto alla salute o – come sarebbe meglio definirlo – il “diritto all’abitare”.
Nessun profitto, neanche quello nazionale, può negare il diritto di ognuna e ognuno all’abitare, ovvero al vivere la proprio quotidianità nella partecipazione collettiva, nella salubrità e nella diretta partecipazione alla costruzione del proprio territorio e della sua socialità e prossimità.

[1] Di seguito il link al testo della sentenza del Tar di Lecce

[2] Nel caso di Taranto tale equilibrio corrisponderebbe alla parità di importanza tra diritto alla salute e tutela dell’interesse economico nazionale.

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