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LO STRANO SENSO LEGHISTA PER I MONUMENTI: TRASCURABILI SE OSTACOLO AL CEMENTO, INTOCCABILI SE CELEBRANO UNA DOMINAZIONE.

Nei giorni scorsi, in commissione Cultura alla camera, si è assistito a un duello cruentissimo interno alla maggioranza con la componente leghista e quella meloniana ai ferri corti per un emendamento presentato dal Carroccio al “decreto Cultura” volto a ridimensionare il ruolo delle soprintendenze nella tutela del territorio e del paesaggio. La modifica proposta dagli uomini di Salvini tendeva a modificare il Codice dei Beni Culturali rendendo “obbligatori ma non vincolanti” i pareri delle soprintendenze in materia di decisioni urbanistiche e paesaggistiche, lasciando quindi l’ultima parola ai Comuni, quando non fosse questione di “grandi monumenti o rilevanti opere storiche”.

Alla fine, l’intervento in prima persona del ministro della cultura Giuli ha temporaneamente fermato l’operazione ma Salvini, in veste di leader leghista e di ministro delle infrastrutture, ha promesso che la questione non è chiusa.

Il leghisti, in effetti, dicono di agire “su richiesta di migliaia di cittadini, imprenditori e associazioni” ansiosi di “sburocratizzare” in nome del buonsenso le pratiche edilizie, spesso frenate da pretestuosi ostacoli frapposti dalle soprintendenze sempre pronte a fermare lavori e negare permessi in nome di anticaglie cui nessuno in realtà è pronto a riconoscere valore reale. Grattando la patina di retorica, tuttavia, si scorge chiaramente la volontà di “detecnicizzare” tali scelte, trasferendo il potere decisionale da organi statali dotati di competenze specifiche e preposti alla tutela e alla valorizzazione de patrimonio a sindaci e consigli comunali, certamente più duttili verso gli slanci cementificatori di “cittadini e imprenditori” e meno propensi a penalizzare le economie dei loro comuni davanti al primo rudere di incerta attribuzione.

Certo, anche con l’approvazione di un simile emendamento non sarebbe stato possibile abbattere il Colosseo per far posto a un centro commerciale, ma ad essere a rischio sarebbe stato quel “patrimonio culturale e paesaggistico diffuso”, meno appariscente (ed economicamente meno direttamente sfruttabile) che caratterizza vastissime zone della Penisola. Edifici storici, contesti paesaggistici e opere d’arte avrebbero oggettivamente corso il rischio di essere irreversibilmente modificate o distrutte sulla base di ordinanze comunali che, pur prese dopo aver ascoltato il parere dei tecnici, avrebbero potuto non tenerne conto in nome della floridezza delle casse comunali, dello sviluppo del territorio, dell’ampliamento dell’offerta turistica o, meno confessabilmente, dell’interesse di potenziali generosi finanziatori delle prossime campagne elettorali.

L’emendamento, quindi, si inserisce a pieno titolo nel ben noto filone dell’anti-intellettualismo bottegaio su cui la Lega ha costruito a varie riprese le proprie fortune elettorali, ma a ben vedere questa ostentata incuria per il patrimonio non può che entrare in contraddizione con un altro pilastro dell’apparato discorsivo di Salvini e delle destra populista in generale: la strenua difesa dei “monumenti” all’interno della crociata contro la Cancel Culture.

In quell’ambito, infatti, costoro rifiutano qualsiasi ripensamento della memoria nello spazio pubblico perché qualsiasi personaggio issato su di un piedistallo diventa automaticamente “Storia che si tenta di cancellare” [le maiuscole sono loro] per far piacere a minoranze sempre diverse che starebbero invadendo il Paese o prendendo il controllo della sua sfera pubblica.

Navigatori italici, conquistadores spagnoli e generali sudisti diventano gli elementi essenziali del passato (e la monumentalizzazione costituisce prova inconfutabile di tale centralità) per cui qualsiasi tentativo di rimuoverne fisicamente i simulacri, ripensarli criticamente o risemantizzarli diventa un attentato alle fondamenta stesse della comunità. Parimenti vietato è qualsiasi tentativo di storicizzare tanto i personaggi effigiati quanto il contesto che ha portato alla decisione di erigere le statue: discutere di esse è semplicemente la prima picconata per abbatterle e, fondamentalmente,il fatto stesso che qualcuno critichi le statue è in sé la ragione per difenderle acriticamente.

In quel caso il monumento non si tocca.

Chi sia quello sul piedistallo, al limite, è secondario.

A determinare questo doppio standard non sono tuttavia solamente incoerenza e opportunismo (pur certamente presenti in dosi massicce nel discorso reazionario), un’ulteriore causa va ricercata nella natura degli oggetti di volta in volta in esame: oltre ad essere meno spettacolari e appariscenti dei “monumenti” concepiti ab origine per celebrare un dato evento o personaggio, le “vestigia” che si trovano oggi negli spazi pubblici al termine di processi di “sopravvivenza” più o meno casuali, sono il prodotto diretto della storia e ne restituiscono (spesso, anche se ovviamente non sempre) i conflitti. Sono quindi oggetti problematici, a volte non portatori immediate possibilità economiche, il cui unico valore d’uso è stimolare la discussione e offrire tasselli per la complessiva ricostruzione del passato.

Da cui il fastidio di chi vede fermati in nome di esse piani urbanistici e permessi di costruzione.

I “monumenti”, invece, celebrano per definizione vittorie: politiche e sociali prima che militari. Sono la classe dominante che celebra e legittima se stessa, costruendo i propri e mantenendo quelli del passato che convalidano la propria narrazione. Ribadire istericamente la loro intoccabilità non vuol dir altro che imporre il presente come frutto del migliore dei passati possibili e, in quanto tale, delegittimare qualsiasi aspirazione a metterlo in discussione.

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