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LA STORIA DI VALDITARA: NIENTE DI NUOVO (E NIENTE DI BUONO) DALLA VISIONE GOVERNATIVA DEL PASSATO.

Le anticipazioni sul processo di elaborazione delle nuove Indicazioni Nazionali per la scuola, idealmente destinate a entrare in vigore dall’anno scolastico 2026 – 2027, confermano senza mai discostarsene, tutte le peggiori aspettative sull’azione delle destre in materia di Storia.

In generale, tutto il piano per la riforma dell’istruzione appare ispirato dal tentativo di solleticare le aspirazioni e le nostalgie di diversi settori dell’elettorato reazionario; dal rimpianto per la scuola “dura e selettiva [su base classista] del tempo che fu”, tanto cara ad ampi settori della borghesia, a sinistri ammiccamenti alle subculture neofasciste come l’inserimento, al di fuori di qualsiasi contestualizzazione, delle saghe nordiche nei programmi di scuola primaria. Le destre di governo sono perfettamente coscienti, infatti, di poter contare su una diffusa (tra le classi dominanti) avversione verso l’istruzione di massa, cui nel corso dei decenni sono stati attribuite tutte le deficienze e le storture di un sistema pubblico in realtà vittima di tagli sempre più consistenti e indiscriminati. Si ammicca quindi al ritorno a un (quantomai immaginario) pre-68, in cui le poesie si imparavano a memoria, la grammatica era messa al servizio dell’apprendimento della disciplina e, i più meritevoli e benestanti, recitavano le declinazioni latine fin dalle medie sotto lo sguardo severo di professori la cui autorità giammai poteva essere messa in discussione.

Un interesse particolare – e sospetto – per la Storia

La Storia e il suo insegnamento occupano tuttavia un posto privilegiato nel progetto culturale meloniano sia per quanto riguarda la siderale distanza dalla ricerca scientifica in materia, sia per quanto riguarda le volute semplificazioni e mutilazioni che, lungi dal “non sovraccaricarla di sovrastrutture ideologiche” come vorrebbe il ministro Valditara, mettono la disciplina al servizio di una cornice narrativa reazionaria da imporre agli studenti dietro un ipocrita crisma di neutralità.

Lo studio del passato – teoricamente valorizzato dalla separazione dalla geografia nei programmi per le superiori – compie in realtà un salto indietro di un secolo: si torna, infatti, all’analisi privilegiata di specifici momenti ritenuti particolarmente significativi, il cui rilievo è dato dal loro apporto alla creazione “dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente”. Viene rimossa ogni discussione e problematizzazione delle stesse nozioni di Italia, Europa e Occidente, che diventano quindi il risultato di “momenti” distanti tra loro anche millenni. La scuola italiana dovrà particolarmente valorizzare le presunte radici italiche, greche e romane (senza aver tempo di approfondire, immaginiamo, i secoli di sanguinosi conflitti tra le stesse e all’interno di ciascuna di queste società) per poi planare al Risorgimento e quindi alla storia europea del secondo dopoguerra.

Una vittima che immaginiamo illustre: il Risorgimento

Senza alcuna sorpresa, quindi, il processo di unificazione nazionale non sarà, come la storiografia raccomanda ormai da decenni, inserito nel più vasto quadro dell’ “epoca delle rivoluzioni euroatlantiche” ma è ri-scoperto in chiave eccezionalista, chiuso nei confini “naturali” della patria e, in buona sostanza, sciovinista. Una carrellata di “grandi uomini” (le cui figure si esaltano e commemorano assai più di quanto si analizzino) hanno portato al Paese presente che, proprio in quanto frutto di cotanta grandezza, gli studenti sono portati ad amare incondizionatamente (in particolare gli stranieri, su cui Valditara insiste, spacciando per integrazione l’adesione incondizionata e acritica ad un racconto reazionario e razzista). Le vittime più che evidenti di questo processo di riduzione sono in primo luogo le masse popolari, oscurate dall’ombra ingombrante dei padri fondatori e il cui ruolo diventa giocoforza secondario se non in occasioni di battaglie e grandi sommosse; in secondo luogo i più che rilevanti contrasti politici tra le varie correnti del patriottismo risorgimentale, annullate dalla prospettiva ultima dell’unità territoriale della Penisola.

Ovviamente in questa fase nemmeno proviamo a porci e porre la domanda su che fine fanno le altre storie, quelle che hanno visto protagonisti altri popoli in altri continenti e che in maniera più che timida iniziano appena ad affacciarsi (pensiamo alla storia del continente africano prima delle colonizzazioni, o a quest’ultime viste dal punto di vista dei colonizzati) nei libri di testo.

Un piano ideologico condiviso dell’internazionale di destra

Siamo, insomma ed esclusivamente, in piena sostituzione della Storia come disciplina complessa, eterogenea e globale, con il caro vecchio récit national sempiterno mantra delle destre di governo, più o meno esplicitamente invocato ogni volta che tali formazioni hanno la possibilità di modificare i programmi scolastici. Nata coi nazionalismi del XIX secolo, questa particolare narrazione del passato (a volte chiamata dai suoi fautori roman national) è programmaticamente volta allo stabilimento o al rafforzamento dell’identità nazionale anche a discapito della precisione e della completezza scientifiche. Già oggetto degli strali della scuola francese delle Annales, che valorizzava invece i tempi lunghi, la storia sociale e le continuità diacroniche, il récit national non ha più alcuna valenza storiografica ma è sopravvissuto per un secolo nel discorso politico reazionario: basti pensare, per fare un esempio, alle evocazioni esplicite da parte di Zemmour in Francia durante le recenti campagne elettorali.

La riproposizione italiana di questo paradigma ne rispetta, in effetti, i tre pilastri tradizionali:

  • la valorizzazione del gruppo nazionale (senza indagare criticamente il concetto di nazione, ma piuttosto tramite l’esaltazione dei grands hommes e/o dei momenti di maggior sviluppo di una cultura nazionale);
  • la differenziazione del gruppo (tramite l’estrapolazione di un “genio nazionale” che caratterizzerebbe le popolazioni di un dato territorio attraverso il tempo rendendone l’azione virtualmente impermeabile a qualsiasi contaminazione estera, facendo quindi primeggiare il contatto tra generazioni anche lontanissime rispetto agli scambi transnazionali coevi)
  • la pretesa di stabilire una “memoria condivisa”.

E’ certamente quest’ultimo il punto che sta culturalmente più a cuore alla destra postfascista italiana (e non solo), da sempre anelante a ricucire a proprio vantaggio l’esclusione culturale di è stata oggetto nella Repubblica nata dalla Resistenza e ormai convinta che una riconciliazione delle memorie possa portare, coi nuovi rapporti di forza, a un nuovo racconto unitario della prima metà del Novecento caratterizzato da toni, se non apologeticamente fascisti, per lo meno unitari in una narrazione nazionalista e padronale.

Postilla: silenzio (o peggio) a sinistra

Ci ha stupito, purtroppo, constatare l’assenza di critiche strutturali a quello che è un progetto ideologico tanto irricevibile quanto strutturato e con radici profonde nella storia della destra almeno europea. Le reazioni vanno dall’ironia – che ormai sembra l’unica “arma” a disposizione di chi non ha nulla da dire – al benaltrismo, ad esempio, della Piccolotti (AvS), che giustamente denuncia i tagli e il definanziamento della scuola pubblica ma non coglie a sufficienza, a nostro parere, la gravità e la portata dell’attacco. Tra i pedagogisti più noti molti si limitano a sottolineare che alcune delle “novità” annunciate già esistono: la lettura dei graphic novel, ad esempio, o della stessa Bibbia, che è banalmente un testo antologizzato in tutti i volumi di Mito ed Epica delle scuole secondarie di primo grado, per dirne una. In questa banalizzazione dell’intervento del Ministro, nessuno – ci pare – ha segnalato la riscrittura della didattica della Storia di cui abbiamo provato qui a denunciare la pericolosità.

A Valditara sembra, al momento, essere riuscita l’operazione di denuncia dei problemi reali della scuola – diminuzione delle competenze in literacy, problemi di scrittura, scarsa conoscenza storica – accoppiata all’occultamento delle vere ragioni (che sono tante e complesse ma sicuramente non ritrovabili nei “programmi”) e alla proposizione di false soluzioni reazionarie.

Stupisce particolarmente la parziale approvazione di Luciano Canfora che, come riportato da La Stampa (https://www.lastampa.it/cronaca/2025/01/15/news/luciano_canfora_riforma_scuola-14940213/) sostiene la reintroduzione del Latino, cui attribuisce, citando Gramsci, la capacità di “insegnare a studiare”. Bolla poi come “impropria” l’idea di separare storia e ideologia perché “la ricerca storica è una cosa, l’ideologia è un’altra”. Per quanto riguarda quest’ultima affermazione, che speriamo sia stata riportata o interpretata male dal giornalista, dovremmo forse, paradossalmente, consigliare a Luciano Canfora di rileggere…Luciano Canfora, in particolare L’uso politico dei paradigmi storici (il cui titolo originale iniziava proprio con le parole Ideologia e Storia). L’operazione di Valditara si configura, infatti, esattamente come un uso politico dei paradigmi storici, anzi, peggio, come una riscrittura della Storia dove il procedimento dell’analogia viene piegato ad esigenze politiche in barba ad ogni correttezza scientifica.

Sul primo punto, invece, oggetto di tante mistificazioni di cui questa purtroppo è solo l’ultima, vale la pena citare anche altri stralci del passo dei Quaderni dal carcere (4, XIII, 55) sull’argomento: dopo aver scritto che Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, aggiunge: Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo. (…) In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati. (…) Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. (…) Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (…) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.

Altro che Latino che serve a imparare a studiare! Gramsci oggi criticherebbe il PCTO, (ex alternanza scuola lavoro), la nuova riforma dei professionali di questo Governo, non si metterebbe certo a disquisire dell’utilità del Latino, perdipiù facoltativo, alle medie, in uno dei primi paesi in Europa per abbandono scolastico già dalla scuola primaria!

Ci siamo dilungati sulle poche parole attribuite a Canfora non solo per la stima e per l’importanza che il suo pensiero ha avuto e ha per la sinistra italiana ed europea, ma perché sono simboliche dello stato preoccupante della critica a sinistra, che sembra, dopo essersi esaurita nel far digerire al popolo le peggiori nefandezze spacciandole per magnifiche sorti e progressive (tipo l’alternanza scuola lavoro che ancora oggi gode di consenso in pezzi di quel mondo), incapace di cogliere la profondità e pericolosità delle misure poste in essere da questo ministro (ne abbiamo già parlato criticando le nuove Linee Guida sull’Educazione Civica). Per queste ragioni speriamo che si apra, sulle riforme scolastiche di Valditara, un dibattito serio e non liquidatorio: l’attacco che la scuola sta subendo è enorme, la risposta deve essere di portata adeguata.

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