Nel 1945, quando fu scritta la Carta delle Nazioni Unite, i suoi autori e coloro che per primi l’adottarono elaborarono con cura il linguaggio su come affrontare i conflitti armati nel mondo. Tra la firma della Carta, nel mese di giugno, e la sua entrata in vigore, in ottobre, gli Stati Uniti sganciarono bombe atomiche su due città giapponesi: su Hiroshima il 6 agosto, e su Nagasaki il 9 agosto. È difficile digerire il fatto che mentre veniva formalizzato il solenne preambolo della Carta, che si proponeva a “salvare le generazioni future dal flagello della guerra, che per due volte nella nostra vita ha portato indicibili sofferenze all’umanità”, le forze armate statunitensi si preparavano a distruggere due città in un Paese che stava a un passo della resa.
Ciononostante, gli autori della Carta hanno riflettuto a lungo sul problema degli Stati belligeranti e hanno prodotto il Capitolo VII, che delinea due approcci per prevenire la guerra. Il primo approccio consisteva nell’utilizzare il maggior numero possibile di metodi non militari (articolo 41) prima che le Nazioni Unite potessero autorizzare l’uso della violenza contro uno Stato belligerante (articolo 42). La Carta stabiliva che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “può decidere” di richiedere “l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radiofoniche e di altro tipo, nonché la rottura delle relazioni diplomatiche”. L’unica volta che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha fatto ricorso a tutte le possibilità previste dall’articolo 41 è stato contro il governo razzista della Rhodesia del Sud dal 1968 (risoluzione n. 253 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) al 1979 (risoluzione n. 460 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), con un ricorso quasi completo all’articolo contro l’Iraq dal 1990 al 2003 e la Jugoslavia dal 1992 al 1995. La cosa più importante di questa risoluzione è che l’uso delle sanzioni (una parola che non compare nella Carta) deve essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Uno Stato può applicare le proprie sanzioni a un altro Stato in una controversia bilaterale, ma non può legalmente costringere altri Stati a rispettarle. Farlo è una violazione della Carta delle Nazioni Unite.
L’uso della parola “strangolare” non è innocue. È importante capire come funzionano queste sanzioni: ci sono sanzioni primarie sui Paesi presi di mira; sanzioni secondarie su aziende o Paesi che intrattengono rapporti commerciali con il Paese preso di mira; e sanzioni terziarie su aziende o Paesi che affrontano sanzioni secondarie. Si tratta di un circolo vizioso. È proprio questa dinamica che sta strangolando Cuba dal 1962. Studio dopo studio mostra che le sanzioni danneggiano le persone più povere nelle società sotto attacco. Sono “mirate” quanto le “bombe intelligenti” che distruggono interi quartieri e spazzano via intere famiglie. La differenza tra queste misure coercitive unilaterali e una guerra con le bombe è certamente grande, poiché queste ultime sono molto più distruttive per le infrastrutture materiali del paese bersaglio, ma l’essenza dell’assalto è la stessa: due forme di guerra, una con la durezza dei blocchi commerciali e l’altra con la ferocia delle bombe. A volte chi detiene il potere riconosce apertamente la devastazione. Quando nel 2019 Matt Lee dell’Associated Press ha chiesto al Segretario di Stato americano Mike Pompeo informazioni sulle misure coercitive unilaterali imposte al Venezuela, Pompeo ha risposto: “Il cerchio si stringe. La crisi umanitaria aumenta di ora in ora […] Si può vedere il crescente dolore e la sofferenza che il popolo venezuelano sta subendo”. Cosa fanno queste misure coercitive unilaterali illegali? Creano dolore e sofferenza.
Il nostro ultimo dossier, Imperialist War and Feminist Resistance in the Global South (marzo 2025), evidenzia l’uso delle misure coercitive unilaterali per attaccare Stati e società che, con la loro stessa esistenza, sfidano il Nord globale. Il nostro studio sul loro impatto riflette ciò che Douhan ha scoperto nel 2021, ovvero che questi meccanismi colpiscono duramente i gruppi più vulnerabili. Questi gruppi, i “vulnerabili”, guidano la lotta contro le misure coercitive unilaterali: lungi dall’essere indifesi, sono in prima linea nella mobilitazione e nella resistenza alla crudeltà della guerra ibrida.
Nel dicembre 2021 ho visitato la Comune di Altos de Lídice, dove ho incontrato un gruppo di donne che si erano riunite per affrontare le difficoltà della pandemia di COVID-19. La comune è composta da oltre 6.000 persone organizzate in otto consejos comunales. Costruite su assemblee democratiche, le comunas del Venezuela sono concepite come spazi locali di autogoverno e come elementi costitutivi per la costruzione del socialismo. La loro filosofia prevede la mobilitazione della popolazione, piuttosto che la semplice risoluzione burocratica dei problemi. Le donne che ho incontrato quel giorno mi hanno parlato della clinica che hanno allestito, che ha attirato medici dagli ospedali vicini per fornire consulenze e medicine gratuite (inviate grazie ai contatti che avevano stabilito con un ospedale femminile in Cile). Le donne hanno guidato questo lavoro; “ci avvaliamo degli uomini”, ha detto scherzando una leader del gruppo, Alejandra Trespalacios. Una delle loro campagne più commoventi ed efficaci è stata un arepazo, in cui le arepas (una piadina di farina di mais) sono state distribuite ai più vulnerabili della comunità. Ogni tre mesi pesavano bambini e anziani e davano un arepa a chiunque fosse sottopeso, come simbolo del loro impegno nei confronti di ogni persona della comunità; i dati permettevano di sapere dove indirizzare il sostegno alimentare nel quartiere. “Sono tempi di lotta”, ha detto Trespalacios. L’arepazo faceva parte della lotta della comunità contro la malnutrizione e la fame.
Allo stesso tempo, il nostro dossier rileva che occorre anche riflettere seriamente su come il genere “rafforzi la divisione sessuale del lavoro politico” in iniziative importanti come queste. “Sebbene le donne abbiano una presenza importante e un ruolo di leadership nell’organizzazione della comunità, ciò non si estende necessariamente ad altre sfere della rappresentanza politica e della gestione statale”. La lotta per garantire che le donne leader passino dal livello comunitario a maggiori responsabilità e potere fa parte della lotta essenziale delle donne della classe operaia e contadina.
Figlia mia: voglio che tu sia una soldatessa.
Che il tuo sangue impregni le
bandiere multicolori che sventolano in tutto il mondo
se è necessario per la nostra causa.
Possa la pace, impossibile finché
esisteranno nazioni e confini,
non trovarti mai a sognare pigramente
e senza un buon fucile sulla schiena.
Per il giorno in cui tutti
avremo un’arma e il desiderio di una vita diversa,
l’intera Terra diventerà un’unica patria.
Perché ci sia la pace, figlia mia,
i poveri del mondo devono prendere le armi.
E per questo voglio che tu diventi una soldatessa.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della dodicesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.